IL TEMPO DELLE CONTRO-RIFORME


di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI |

Una volta, a cavallo dell’autunno caldo del ’69  diritti, tutele e nuove e piu’ avanzate norme sul piano sociale erano realizzate contrattualmente e per legge (vedi ad es. la Legge 300/70) sulla spinta e con riferimento alla grande fabbrica e alle conquiste sociali realizzate dalle categorie più forti sindacalmente, dove il potere dei lavoratori era consistente.

Oggi, da tempo, certe “controriforme” (perché tali appaiono certe norme varate dal Governo Meloni  ed anche da precedenti) spesso hanno come riferimento i settori più deboli sindacalmente o oggettivamente perché in crisi e dove il sistema del mercato del lavoro, per varie ragioni è stato destrutturato.

Ha poco da battere la “grancassa” la premier Maroni sui risultati maturati con il discusso “decreto lavoro”. La maggior parte del complesso decreto riguarda la soppressione del reddito di cittadinanza sostituito da nuove misure come l’assegno di inclusione ed altre iniziative tendenti a favorire (confusamente) un percorso di inserimento nel  mercato del lavoro di inoccupati (cronici ?) destinatari dell’assegno. Ritorneremo analiticamente sull’argomento, ma possiamo fin d’ora affermare che la strada per favorire una occupazione “buona” (perché prevalentemente stabile e ragionevolmente  remunerata sulla base dei bisogni sociali esistenti e dei meriti professionali) non si realizza con norme burocratiche, ma con politiche industriali di rilancio dei nostri assetti produttivi, con una politica salariale collegata alla produttività oggi carente nel nostro sistema, con un riassetto dell’apparato produttivo e dei servizi privo di grandi e competitive grandi imprese.  

Ciò premesso, il decreto governativo, a parte una serie di norme sulla sicurezza e tutela della salute dei lavoratori in azienda, del tutto insufficienti stante la gravità del fenomeno in atto degli incidenti mortali e degli infortuni, interviene sul lavoro a tempo determinato che – assieme a quello a “part-time” e ad altri rapporti di lavoro flessibili costituisce una entità troppo estesa (chiamata appunto  lavoro precario) che costituisce una condizione negativa sul piano sociale -.

I contratti a tempo determinato e a “part time” ci sono sempre stati,  in particolare il primo nei lavori stagionali o in presenza di “commesse” straordinarie non ripetibili acquisite da certe aziende. Oppure, per alcune mansioni specialistiche, il periodo di prova consisteva anche di 4/5 mesi, quindi un contratto “a termine” piu’ o meno riconfermato a tempo indeterminato. Nel secondo tipo di contratti, la richiesta (molte volte nel lontano passato  negata dall’impresa) partiva dai lavoratori (spesso erano  lavoratrici) per ragioni familiari facilmente comprensibili. Erano cioè rapporti di lavoro collegati ad una specifica motivazione. Non era la norma!

Oggi, invece, con il “decreto lavoro” meloniano, il caso primo (lavoro a tempo determinato) sta diventando la norma (senza alcuna  motivazione),  per adattare i livelli occupazionali aziendali alle dinamiche del mercato, in particolare in quelle aziende a bassa competitività non in grado di stabilizzare la loro presenza commerciale e quindi produttiva nel mercato globale aperto alla concorrenza sempre più competitiva. Vi è anche, una seconda ragione: in quella parte più retrograda del padronato italiano vi è la tendenza all’uso di questo tipo di rapporto di lavoro per poter contare – con questi rapporti non stabili – su una manodopera non rivendicativa e/o disposta a lavorare a “basse condizioni”.

Nel caso del part time (che – però- in % non è superiore alla media europea) esso oggi è preteso dalle stesse aziende come alternativa alla CIG in situazioni di crisi stagionali o di non breve durata alternate spesso a periodi di lavoro straordinario.

Un sistema moderno, ma avanzato di relazioni industriali non può escludere il ricorso a questi tipi di rapporti di lavoro, come pure quelli di altre forme di flessibilità lavorativa in determinate situazioni e a determinate condizioni.  

L’importante che essi non diventino la norma mentre l’eccezionalita’ diventa il lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno. Come pure essi devono essere legati a motivazioni di reale straordinarietà o di particolarità oggettiva tecnico-organizzativa e commerciale.

Sono queste  numerose situazioni di non stabilità o continuità di lavoro e quindi di retribuzione che hanno determinato la pesante regressione del salario lordo medio italiano nelle classifiche che riguardano in materia i Paesi U.E. e OCSE e la continua sempre più favorevole distribuzione del reddito per i ceti abbienti a danno del lavoro dipendente dato che i salari e gli stipendi non crescono da anni  in parallelo con le dinamiche dei profitti delle aziende.

Da questo punto di vista, la recente decisione governativa di riduzione del cuneo parafiscale sui redditi da lavoro non risolve la negativa dinamica salariale prima menzionata se: 

a)  non saranno rinnovati alla naturale scadenza tutti i CCNL (per alcuni settori la vacanza del rinnovo  contrattuale consta  di vari anni),

b) se non sarà estesa ovunque la contrattazione integrativa aziendale o territoriale (come indicato dal patto sociale “Ciampi” deel 23/71993,

c) se non saranno corrette le numerose situazioni di violazione contrattuale in materia di inquadramento professionale e quindi di regolare livello di retribuzione.

Sono d’accordo che queste negative condizioni di lavoro e salariali non datano dall’inizio di questo governo di destra-destra, ma si trascinano da tempo, dai governi Berlusconi, da quelli di centrosinistra, da quelli tecnici e da quelli a guida Conte e cioè M5S (tanto per non far torto a nessuno) ma, bisogna pur mettere un freno ad una regressione delle condizioni di lavoro.

Si parla tanto di reddito di cittadinanza o di altre misure per contrastare situazioni di povertà, si parla molto di sostenere sufficientemente l’accoglienza di profughi stranieri che fuggono dalla miseria e dalla fame, okey, ma vogliamo anche discutere ed affrontare la condizione (nel complesso negativa) della moltitudine di chi lavora e di chi produce la ricchezza nazionale, utile anche per affrontare le indigenze ricordate? Situazioni di questa complessità, però, non possono essere affrontate con decreti “spot” che affrontano isolatamente singole questioni ignorandone altre.

C’è un tutto che si tiene: politiche di bilancio, distribuzione equa delle risorse (fiscalità), contenimento dell’evasione fiscale (il 32% della ricchezza nazionale è rodotta in nero), contenimento dell’inflazione, politiche industriali innovative  e riconversione produttiva in settori tecnologicamente avanzati, ricerca ed innovazione, riqualificazione e formazione professionale per incrociare al meglio offerta e domanda di lavoro, rinnovo puntuale dei CCNL e sviluppo della contrattazione integrativa aziendale/territoriale, aggregazione/concentrazione incentivata delle piccole e micro aziende (la stragrande maggioranza del nostro apparato) per affrontare al meglio  la competitività nel grande mercato globale, plafonamento al Nord (dove oggi le aziende cercano manodopera qualificata e specializzata) e decentramento al Sud degli impianti e degli investimenti di allargamento della base produttiva.

Per affrontare queste emergenze c’è bisogno di un nuovo patto sociale di concertazione con la partecipazione attiva delle parti sociali, del sistema universitario e bancario per aiutare la politica, a livello istituzionale, a programmare e progettare soluzioni di grande respiro. Senza una soluzione di questo tipo è complicato ipotizzare una prospettiva positiva per il Paese, per i lavoratori e per le imprese.