LA PROGRAMMAZIONE COME METODO PER DEMOCRATIZZARE IL CAPITALISMO

di Davide Passamonti |

In Occidente, guardando e interpretando il mondo “da sinistra”, sorge l’esigenza di domandarsi “come democratizzare il capitalismo per ottenere più eguaglianza e giustizia sociale”.

Prendendo atto che tutte le forme economiche alternative al capitalismo sono fallite, non c’è dubbio, però, che il capitalismo ha creato problemi di varia natura. Dalla questione ambientale sempre più intollerabile agli stravolgimenti climatici; dalle differenze economiche sempre più ampie, tra chi è ricco e chi è povero, all’interno di uno Stato e tra regioni diverse diverse del mondo; alla mercificazione di ogni bene materiale o immateriale (dal lavoro, ai costumi ecc.), c’è la necessità di porre un freno o limiti democratici di metodo allo strapotere del mercato.

Gli anni Sessanta del secolo scorso, oltre a rappresentare la stagione keynesiana della piena occupazione, hanno rappresentato l’esperienza della programmazione economica. Ideata e sviluppata dall’elaborazione scientifica di economisti socialdemocratici come Jan Tinbergen, Ragnar Frisch, Gunnar Myrdal la programmazione doveva rappresentare «il compromesso keynesiano tra democrazia e capitalismo»[1] e prendere le distanze dalla pianificazione centralizzata dell’esperienza sovietica.

L’attualità del metodo della programmazione, ieri come oggi, sta nell’economia mista, distinta in due settori, che caratterizza i paesi capitalisti. Da un lato, il settore pubblico che fornisce beni collettivi e servizi; dall’altro, il settore privato che fornisce beni privati attraverso il mercato.

Stato e mercato, libertà economica e programmazione non sono in contraddizione o contrapposizione; anzi, «lo scopo di questa esperienza è l’aggiustamento reciproco di questi due settori. Mercato e settore pubblico possono essere armonizzati e resi complementari, realizzando i due obiettivi della crescita e di una equilibrata allocazione ed equa distribuzione delle risorse»[2].

Avendo carattere normativo, nella pratica, la programmazione si traduce nel stabilire come e in che modo lo Stato, controllando il 50% delle risorse, «può orientare lo sviluppo dell’intera economia nazionale verso la realizzazione di obiettivi economici e sociali prioritari, rispettando l’equilibrio tra i due settori e le loro logiche di funzionamento»[3]. Realizzare obiettivi socio-economici, quindi, è lo scopo della programmazione. Il piano assume un carattere democratico in quanto pianifica una serie di obiettivi gerarchicamente ordinati e coerenti tra loro. Le priorità sono espresse socialmente attraverso la concertazione tra le parti sociali e votate dai rappresentanti eletti.

La finanza pubblica diviene, quindi, lo strumento principale attraverso cui lo Stato può influenzare indirettamente e indirizzare il resto dell’economia. E lo fa tramite le interdipendenze che costituiscono un’economia complessa come quella odierna. Così, attraverso tecniche economiche è possibile costruire un modello matematico che collega le variabili dell’economia.

Se certe variabili del modello (per esempio, il tasso di crescita, l’occupazione, il saldo della bilancia dei pagamenti) sono fissate a priori come obiettivi, è possibile – sempre che il numero delle incognite non superi quello delle equazioni – determinare, attraverso la soluzione del modello, il valore delle variabili strumentali (per esempio, la spesa pubblica, il costo del lavoro, il tasso di cambio). Sarà allora sufficiente, per lo Stato, manovrare le sue politiche in modo che le variabili strumentali assumano i valori richiesti dal modello, per ottenere gli obiettivi desiderati[4].

Per influenzare le variabili strumentali lo Stato può intervenire direttamente attraverso leggi o comandi diretti, oppure indirettamente con la persuasione, l’incentivazione o la contrattazione.

Per essere produttiva di risultati reali la programmazione deve legarsi a un’idea di società, a una “visione del mondo” precisa e chiara nella mente dei programmatori trascendendo sia il mercato che l’economia. Ovvero, lo scopo non è il “mito della crescita” fine a se stesso ma porre limiti, regole e obiettivi alla crescita economica attraverso la volontà politica. E, ancora, lo scopo non è quello di aumentare la spesa pubblica per risolvere tutto (come avviene oggi provocando storture economiche come inflazione o burocratizzazione) ma quello di ridare capacità politica allo Stato, oggi dispersa nella burocratizzazione, nel debito pubblico e nell’inflazione, «condensandola in un’area ristretta di competenze e di poteri: in un sistema centrale di pianificazione»[5].


[1]                 Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Roma-Bari, Laterza. p.253.

[2]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.255.

[3]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.256.

[4]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.257.

[5]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.261.