DAL MITO DELLA CRESCITA A UNA IDEA DIVERSA DI BENESSERE SOCIALE

di Davide Passamonti |

Da sempre l’economia è stata politicizzata. Da destra e da sinista, con politiche economiche classiche o keynesiane il punto fermo per tutti è stato il mito della crescita.

Il comune accordo ha sempre ruotato intorno al presupposto che il benessere e il consenso sociale derivino dall’espansione continua, infinita?, dell’economia di mercato.

Tuttavia, mia opinione, ma non solo, è che questo dogma economico vada contestato; e che le recenti crisi economiche – come quella degli anni Settanta e la folle corsa dei mercati finanziari sui titoli “subprime” alla ricerca del guadagno e della crescita nel 2007/2008 – siano esempi di come il “mito della crescita” stia producendo storture sociali sempre più evidenti. In realtà, il presente è  connaturato da cambiamenti strutturali profondi che stanno modificando l’economia e le società tanto da far pensare, con cognizione di causa, che ormai ci troviamo in un epoca che può essere definita come «post-industriale» o «post-capitalista».

Crescita e malessere

Un inaspettato lascito del dogma capitalistico del mito della crescita, non voluto, è stata la “ricerca della felicità”.

Prima dell’avvento del capitalismo i concetti di crescita e felicità erano completamente scollegati tra loro o erano inestistenti. Nelle società tradizionali, infatti, l’economia veniva concepita come “stazionaria” e la felicità non era considerata “cosa di questo mondo”. Quest’ultima apparteneva alla vita “dopo la morte” ed era materia di fede religiosa, non certamente materia economica o pubblica.

Invece, il concetto che «la prosperità materiale possa essere continuamente aumentata sfruttando a fondo le risorse della natura e stimolando i bisogni lungo una frontiera in continua espansione, e che questa crescita permanente sia la condizione fondamentale del benessere e della pace sociale»[1] è il dono del capitalismo.

“Il paradiso terrestre” così creato ha rivoluzionato non solo la tecnica ma, soprattutto, l’idea di uomo e il posto che esso ha in questo mondo oltre all’idea stessa di mondo. La rivoluzione ha le sue basi in due presupposti: l’inesauribilità delle risorse e i bisogni illimitati dell’uomo. Il mezzo che unisce e accorda i presupposti è il mercato capitalistico: «l’organizzazione sociale che connette i due poli della crescita, ponendo risorse inesauribili al servizio di bisogni insaziabili»[2]. Di conseguenza, l’unico modo di conseguire il benessere sociale, e quindi la felicità individuale, è la massimizzazione della produzione di beni creati per soddisfare i bisogni.

Va riconosciuto, ed è incontestabile, che l’economia di mercato è stato il sistema economico che ha prodotto, storicamente, e ha raggiunto livelli di benessere sociali e di progresso civile che nessun altro sistema è stato mai capace di realizzare. Ma oggi, i cambiamenti strutturali – la de-industrializzazione dei paesi occidentali, la “terziarizzazione” dell’economia e il poderoso ruolo dello Stato nell’economia – portano ad un cambio di paradigma: il benessere sociale non è più così identificabile con l’economia di mercato. Per di più, la questione ecologica, il tipo di economia e la complessità odierna sono oggi la dimostrazione “reale” dell’attuale insensatezza dei presupposti dell’economia capitalistica (che essa sia classica o keynesiana).

Nella società post-industriale, quindi, il mito della crescita si associa ormai al malessere sociale. Insistere con un modello di crescita ormai superato dai fatti comporta fenomeni di degradazione delle risorse (la questione climatica e ambientale è solo la principale “risorsa degradata”) e di disagio sociale diffuso (disoccupazione strutturale, inefficenza dei servizi pubblici, sperchi, debito pubblico e inflazione “da disoccupazione”).

Il mito decaduto del PIL come misura di benessere

Il principale strumento economico con il quale si “misura” il livello di benessere di un paese è il Prodotto Interno Lordo (PIL). Meccanismo di contabilità economica sviluppato principalmente da Simon Kuznets, in un rapporto del 1934 per il Congresso degli Stati Uniti, è lo strumento di aritmetica politica con i quali i vari governi nazionali hanno potuto disporre di un indice obiettivo di successo.

Ma la fonte di successo del PIL è anche alla base dei suoi fallimenti. Lo stesso Kuznets fu sempre molto critico riguardo la pretesa di misurare il benessere sociale affidandosi al reddito pro capite dichiarando che bisognava tener conto delle differenze tra la quantità e la qualità della crescita, dei suoi costi e dei suoi benefici, distinguendo anche tra breve e lungo periodo[3]. L’ideatore del PIL non fu l’unico a criticare questo strumento come misura del benessere sociale; come ci ricorda Ruffolo, anche economisti come Morgenstern ne contestarono l’abuso: «il tanto venerato PNL è una nozione in gran parte inutile…». Come è facile intuire il PIL registra positivamente qualsiasi aumento nei consumi: un aumento di consumo di petrolio, comprare ossessivamente l’ultimo modello di smartphone – buttando quello “vecchio”, ma anche, rimanere per ore imbottigliati nel traffico sono tutti esempi che portano ad un aumento del PIL senza considerare gli effetti, la qualità e le conseguenze di tali consumi.

La critica al PIL come misura di benessere ruota attorno a tre principali motivi:

  • questo sistema è tanto meno efficente tanto più l’economia si terziarizza; ovvero, tanto più declina l’industrializzazione e aumentano i servizi. I servizi sono beni “immateriali”, a differenza dei beni (matriali) dei prodotti industriali o agricoli, e ciò comporta che il prezzo di questi sia definito sul costo dei servizi stessi, distorcendo il concetto di valore aggiunto e di reddito. Un’economia di servizi non può essere parametrata con meccanismi fisici;
  • la contabilità economica tiene conto solo delle transazioni mercantili, cioè ciò che viene scambiato sui mercati. I servizi erogati dallo Stato o da enti privati – come istruzione, servizi pubblici, sanitari o sociali – sono servizi “non di mercato”;
  • il PIL dovrebbe misurare non solo i maggiori consumi ma anche i danni che tali consumi provocano, ad esempio, all’ambiente naturale o alle società (siccità, riscaldamento globale, stravolgimenti negli ecosistemi ecc.). Danni che sono ben maggiori dei valori aggiunti portati all’economia e che producono disagi e malessere sempre maggiori.

Un diverso modo di concepire il benessere sociale

Con l’avvento della società post-industiale, quindi, necessitano nuovi metodi per la misurazione del progresso e del benessere sociale. La produttività espressa in PIL non può più essere utilizzata.

Oggi, ed è sempre più vero, il fattore principale del processo produttivo è la conoscenza[4] (il progresso scientifico e tecnologico) e «non più né il lavoro, né la terra, né il capitale, né lo Stato»[5].

Si può dire paradossalmente che, in generale, le crisi delle nostre economie occidentali (in quest’ultima fase della terziarizzazione, o se si preferisce, del capitalismo maturo) siano provocate da un eccesso di produttività dei settori (primario-secondario) «ad alto tasso di produttività», e – nello stesso tempo – da un difetto di produttività (del sistema in generale) causato dall’aumento della proporzione dei settori (terziari) «a basso tasso di produttività», sul totale delle attività.[6] [Archibugi, 2002 p.171]

Questo cambiamento ha come conseguenza la modifica del concetto di produttività: non più come un rapporto “quantitativo” ma “qualitativo”.

E man mano che questa produzione di servizi terziari (privati come pubblici) aumenta di importanza relativa nella somma dei valori che compongono il benessere, il misuratore usato [PIL] diventa sempre più obsoleto e sviante: esso continua a misurare un «valore» (la quantità per ora-lavoro; […]) che è piuttosto un «disvalore», e a presentare come «incremento» quello che è piuttosto un «decremento». In queste condizioni […] si rischia non solo di inquinare ma anche di rovesciare i valori: di lamentare come declino un avanzamento o un miglioramento reale, e di inseguire come «progresso» un reale «regresso». [Archibugi, 2002 p.175]

E’ sbagliato pensare che in questo modo si vuole perseguire una “crescita zero”; piuttosto, si sta cercando di dimostrare che servono nuovi indicatori per misurare la crescita, il benessere e lo sviluppo. I cambiamenti strutturali possono essere esaminati in termini di occupazione o attività ma non in termini di PIL. La crisi occupazionale odierna, per esempio, è la conseguenza di un progressivo peggioramento nella distribuzione dell’occupazione e non come un regresso nelle condizioni di vita. Pretendere di migliorare la qualità della vita, cioè il benessere sociale, attraverso un rilancio dell’occupazione tout court sarebbe controproducente.

Nel mondo reale odierno, si può conseguire un livello più elevato di benessere non attraverso l’aumento dell’occupazione totale (inteso come ammontare complessivo di ore lavorate), ma redistribuendo meglio le ore lavorate fra la popolazione potenzialmente attiva, con una drastica riduzione della durata media di lavoro per testa. E non più attraverso l’aumento della massa globale dei beni e dei servizi prodotti, ma redistribuendo meglio il loro impiego e la loro qualità, cercando di guidare i nuovi impieghi verso attività socialmente utili, cioè necessarie a soddisfare bisogni ancora insoddisfatti”. [Archibugi, 2002 p. 176]

Infine, per migliorare il benessere sociale, ciò che oggi le nostre società necessitano è ragionare in termini di “lavoro da erogare”: ovvero, la nuova occupazione generata deve essere pianificata (programmata) e guidata verso impieghi con rilevanza sociale, cioè necessari a soddisfare bisogni insoddisfatti. Cioè: «quali lavori, quali beni e servizi, quali occupazioni, quali attività sarebbero utili socialmente e individualmente»[7].


[1]Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza.

[2]Ruffolo 1985.

[3]Simon Kuznets, citato da C. Cobb, T. Halstead, J. Rowe, nell’articolo “If the Gdp is Up, Why is America Down?” in The Atlantic Monthly, ottobre 1995.

[4]Vedasi: Drucker P. (1993), From Capitalism to Knowledge.

[5]Archibugi 2002.

[6]Archibugi F. (2002), L’economia associativa, Sguardi oltre il Welfare State e nel post-capitalismo, Edizioni di Comunità, Torino.

[7]Archibugi 2002.