RIDUZIONE DELLA DURATA DEL LAVORO E IL LAVORO DA EROGARE

di Davide Passamonti |

La riduzione della durata media delle ore di lavoro è diventata una esigenza del sistema nel suo complesso. Tale esigenza scaturisce dalla necessità di rispondere ai minori bisogni di input di lavoro dovuti alla trasformazione dei processi produttivi. La “terziarizzazione” in atto sta trasformando la società facendole assumere sempre più caratteristiche post-industriali. Ma questo cambiamento non è altro che la risposta della saturazione della domanda di beni industriali e alla sempre più crescente automazione dei processi inerenti a questi beni.

Nelle società industriali avanzate sono di tre tipi, almeno, le politiche economiche dedite all’obiettivo della piena occupazione, come standard sociale di garanzia di benessere; ovvero: la politica keynesiana; la “ricetta classica” della deregulation; la “terza via”, il lavoro come lavoro da erogare.

In questo scritto si vuole approfondire, come soluzione ai problemi odierni in merito alla disoccupazione, la “terza via”.

Il cambiamento nel mondo del lavoro: il lavoro “scelto” e/o “gradito”

Una questione di fondo della disoccupazione strutturale odierna riguarda, dal lato dell’offerta di lavoro[1], la valorizzazione del fattore “scelta” piuttosto che del fattore “bisogno”; cioè della scelta libera (personalizzata) del lavoro. Il rifiuto del lavoro industriale o non qualificato, in attesa di un lavoro più consono alle aspettative individuali, è la stretta conseguenza di questo cabiamento.

Le fasce sociali più “colpite” da questo fenomeno sono le generazioni più giovani;  l’elevato tasso di scolarità, rispetto alle generazioni precedenti, è il motivo principale di questo comportamento. Tutto ciò crea il “paradosso” che, nonostante l’elevata disoccupazione[2] giovanile, rimangono sacche di “domande di lavoro” non qualificato senza risposta.

Non è dunque un caso che, nonostante la crisi dell’occupazione, spesso oggi le imprese incontrino notevoli difficoltà ad assicurarsi certe qualificazioni, anche in presenza di politiche governative molto “attive” in materia di occupazione. [Archibugi, 2002 p.195]

Questa stortura, nel mercato del lavoro, segue ad un ritorno di un comportamento   “economico” dal lato dell’offerta in seguito alle continue crisi economiche dagli anni Settanta in poi.

I paesi industrializzati devono fare i conti con questo cambio di paradigma motivazionale e dei fattori “non-economici”, delle giovani generazioni, nell’accettare o rifiutare un’offerta di lavoro. Ciò che conta di più non è, quindi, lo status di disoccupato ma il modo o la qualità di vita individuale.

E’ questo il quadro di riferimento che bisogna affrontare per riformare profondamente il mercato del lavoro: il lavoro da erogare e la riduzione della durata del lavoro.

Il lavoro come lavoro da erogare

Il cambiamento strutturale

I tassi di disoccupazione odierni, nei paesi sviluppati, hanno raggiunto livelli “di massa”. A differenza delle “grandi crisi economiche”, la crisi occupazionale odierna ha assunto proprietà strutturali e non è accompagnata – o lo sono solo in parte – da peggioramenti sensibili dei livelli reali di vita delle famiglie come invece accadeva nelle grandi crisi del Novecento.

I sistemi di Welfare State, erogrando cospiqui «ammortizzatori sociali», sono in grado di attenuare gli effetti deleteri della disoccupazione sui livelli reali di vita, lasciando che tale crisi si riperquota solamente sulle capacità di consumo delle famiglie.

Le crisi delle nostre economie occidentali (in quest’ultima fase della terziarizzazione […]) [sono] provocate da un eccesso di produttività dei settori (primario-secondario) «ad alto-tasso di produttività», e – nello stesso tempo – da un difetto di produttività (del sistema in generale) causato dall’aumento della proporzione dei settori (terziari) «a basso-tasso di produttività», sul totale delle attività. […]

L’output terziario, infatti, con il suo basso saggio di produttività, è oltretutto apprezzato più sulla base della «qualità» che del rendimento quantitativo. Ecco perchè il cambiamento strutturale […] ha immediatamente una riprecussione sul modo di valutare il benessere economico. [Archibugi, 2002 p.171]

Questo significa che la disoccupazione deriva da una pessima distribuzione delle attività di lavoro; si può, quindi, ottenere un un livello di benessere – sia individuale che sociale – maggiore non tramite l’aumento dell’occupazione totale (ammontare generale di ore lavorate) ma redistribuendo con migliore qualità le ore di lavoro fra la popolazione disoccupata, ma potenzialmente occupabile. La nuova occupazione generata deve, però, essere pianificata e guidata verso impieghi con rilevanza sociale, cioè necessari a soddisfare bisogni insoddisfatti.

Quando si parla di occupazione, però, si pensa al reddito o al potere di acquisto o ai consumi che ne derivano. Se, cambiando logica, si pensasse all’occupazione come “lavoro da erogare” allora si affronterebbe la questione in termini di quali lavori, quali beni e servizi, quali occupazioni e quali attività sarebbero utili da “creare“. Non affrontando la questione in questi termini, se quindi sul mercato non si manifestasse l’incrocio tra tale domanda e tale offerta – ovvero non venisse offerto il lavoro utile – si esporrebbe la questione occupazionale a due ordini di problemi, spesso concomitanti:


[1]Le imprese oggi non possono più aspettarsi di “comprare” lavoro, cioè assumere lavoratori, solo su un concetto puramente economico del lavoro stesso. Ovvero, senza contare i fattori “non economico” e motivazionali ormai sempre più diffusi.

[2]In italia il tasso di disoccupazione totale è stabile all’8,0%, quello giovanile al 22,4% (dati ISTAT).

● dal lato dell’offerta di lavoro ci sarebbe disinteresse per i lavori domandati. E ciò porrebbe la questione della disoccupazione non tanto in termini di “disoccupazione generale” ma quanto “disoccupazione specifica”;

● dall’altro lato, dal disinteresse dell’imprenditore; cioè di colui che media tra domanda di beni e servizi e offerta di lavoro per produrli.

Che si tratti di un caso o dell’altro o di entrambi i casi insieme, ciò significa che nel mercato non si verificano quelle necessità tali da giustificare un aumento di lavoro erogato che compensi una parte consistente della disoccupazione. Si tratta, quindi, di un “meccanismo economico” che genera nelle varie categorie sociali emarginate, perchè disoccupate, quella situazione psicologica di “disadattato” sociale.

Il declino dell’occupazione industriale, in sintesi, può e deve accompagnarsi con la riduzione della durata media del lavoro. Di conseguenza ciò che dovrà applicarsi è un metodo organizzativo che tenda ad immettere nel processo produttivo nuovo personale a tempo parziale; senza, però, creare sconvolgimenti nei redditi individuali e familiari.

La selezione della domanda

Una politica riguardante il “lavoro da erogare”, però, è possibile solamente attraverso un riorientamento strutturale e qualitativo della produzione e dei consumi. Operazioni di questo tipo, tuttavia, non possono riguardare ogni ambito del mercato del lavoro; ma devono essere programmate attraverso la contrattazione tra Stato, impresa e sindacato. I cambiamenti strutturali, quindi, impongono politiche di sviluppo – e di erogazione di lavoro – differenziate e selettie. La politica selettiva dovrebbe:

● ridurre progressivamente i finanziamenti alle industrie del così detto “capitalismo assistito” (le industrie in crisi) in quanto rallenta il processo di ristrutturazione del sistema industriale in uno più moderno e più efficente;

● promuovere, attraverso il finanziamento della ricerca, lo sviluppo di nuove tegnologie prestando attenzione alle performance del sistema economicio nel suo complesso (in ambito di programmazione economica);

● ripensare alla struttura della spesa pubblica verso i servizi[1] per promuovere un’occupazione “sociale”. Oggi la spesa pubblica è orientata prevalentemente verso impieghi improduttivi in termini di servizi e occupazione – finanziando la disoccupazione tramite gli “ammortizzatori sociali” e impedendo la ristrutturazione delle attività erogando finanziamenti alle imprese in crisi


[1]Il welfare in Italia (2022) vale 596,8 mld ovvero il 62,7% della spesa totale. Di questo 62,7% i servizi occupano il 18,7%; il sistema previdenziale il 48%; la sanità il 21,4%; istruzione 11,9%. The European House – Ambrosetti su dati Eurostat, 2022

Le politiche attive e la riduzione della durata del lavoro

Per perseguire la politica della piena occupazione è, altresì, necessaria anche una politica diretta a rendere più flessibile l’offerta di lavoro. La flessibilità è ottenibile con misure di politiche attive del lavoro (come già nel 1996 l’OCSE rimarcava) che organizzino e regolino il mercato. Per perseguire tale politica servono:

● una deregolazione del corporativismo insito nella pubblica amministrazione che genera burocratizzazione, disaffezione e disoccupazione;

● un sistema di informazione del mercato del lavoro attendibile della situazione e delle convenienze; che possa, inoltre, assistere gli occupabili e le imprese nelle loro scelte “personalizzando” il servizio;

● un sistema formativo in grado di qualificare e riqualificare permanentemente i lavoratori e quelli potenziali;

● una garanzia di occupazione, attraverso lo Stato, nell’ambito dei programmi di sviluppo dei servizi sociali. Questa si basa sul principio che la comunità, nel suo insieme, ha – in ogni caso – più interesse nel finanziare forme di occupazione utili (sociali) piuttosto che la disoccupazione[1].


[1]Vedasi Thurow (1981); Sylos Labini (1977); Ruffolo (1985).

[3]Il welfare in Italia (2022) vale 596,8 mld ovvero il 62,7% della spesa totale. Di questo 62,7% i servizi occupano il 18,7%; il sistema previdenziale il 48%; la sanità il 21,4%; istruzione 11,9%. The European House – Ambrosetti su dati Eurostat, 2022

Per convincersi della necessità di interventi di questo tipo basti pensare che dal punto di vista dei conti pubblici la disoccupazione costa allo Stato sotto due profili: da un lato, per le spese erogate per gli “ammortizzatori sociali”; dall’altro, per le minori entrate fiscali derivanti dalla non occupazione dei disoccupati.

Di conseguenza, la progressiva riduzione della durata del lavoro nella logica di “lavorare meno, per lavorare tutti”.

Nel mondo reale odierno, si può conseguire un livello più elevato di benessere non attraverso l’aumento dell’occupazione totale (inteso come ammontare complessivo di ore lavorate), ma redistribuendo meglio le ore lavorate fra la popolazione potenzialmente attiva, con una drastica riduzione della durata media di lavoro per testa. E non più attraverso l’aumento della massa globale dei beni e dei servizi prodotti, ma redistribuendo meglio il loro impiego e la loro qualità, cercando di guidare i nuovi impieghi verso attività socialmente utili, cioè necessarie a soddisfare bisogni ancora insoddisfatti”. [Archibugi, 2002 p. 176]

Se, da un lato, tale prospettiva non è soltanto una forma di flessibilizzazione dell’offerta di lavoro che contribuisce alla piena occupazione, dall’altro, diventa anche strumento di riconquista dell’autonomia e dell’autogestione del tempo.

Infine, l’analisi nei cambiamenti nel mercato del lavoro porta alla conclusione che una politica dell’occupazione “attiva” è fattibile solo se si orienta l’offerta verso i settori di produzione con possibilità di sviluppo, adattando le politiche di formazione alle previsioni della domanda e nell’istituzione di sistemi informativi fra i vari settori del mercato del lavoro.

Bibliografia:

– Istat (2023), Occupati e disoccupati (dati provvisori) – febbraio 2023, Istat.

– Archibugi F. (2002), L’economia associativa, Sguardi oltre il Welfare State e nel post-capitalismo, Edizioni di Comunità, Torino.

– Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza.

– Welfare, Italia (2022), Welfare Italia Forum 2022, Roma, Palazzo Brancaccio.

– Oecd (1996), Enhancing the Effectiveness of Active Labour Market Policies, Paris, Oecd.

– Thurow L. (1981), La società a somma zero, Bologna, Il Mulino.

– Sylos Labini P. (a cura di) (1977), Abolire la miseria, Roma-Bari, Laterza.