IL TRAMONTO DELL’ETICA IN POLITICA E LE SUE IMPLICAZIONI SOCIALI

di Davide Passamonti |

La storia del capitalismo moderno può essere letta come un progressivo tramonto dell’originale etica borghese sulla quale lo stesso capitalismo si è fondato e ha potuto svilupparsi e prosperare. Questo mutamento analizzato da Hirsch[1] ruota intorno a tre cambiamenti rilevanti: la tendenza del mercato a corrodere la base etica/morale della società; i vani tentativi a scongiurare l’erosione della base etica con incentivi e disincentivi di mercato; la necessità di un recupero morale per interiorizzare le norme sociali di condotta a livello dei singoli individui.

Il primo sociologo ad evidenziare la diretta connessione tra «ascesa del capitalismo e l’ascesi puritana» è stato Max Weber in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo“. Tuttavia, non si sentenzia nessuna relazione univoca o esclusiva tra le due componenti: «Il fatto che lo sviluppo capitalistico non avrebbe potuto affermarsi se non legittimandosi sopra una base morale-religiosa, non significa che esso è figlio della religione: ma che ha bisogno, all’origine, di un ambiente culturale e spirituale che gli apra gli spazi»[2]. Infatti, il nesso tra etica religiosa e capitalismo viene a mancare via via il mercato si diffonde in sempre più ambiti della società.

E’ il “mito della crescita” e il suo presupposto di “inesauribilità di risorse al servizio di bisogni insaziabili” a determinare lo strappo e a trasformare la società classista, attraverso la produzione e il consumo di massa, nella società “di massa” odierna. La società capitalista, quindi, diventa amorale e autolegittimata; il suo fine è l’autoriproduzione: cioè la crescita economica. Il mercato perde così la sua “trascendenza” violando i limiti che gli stessi economisti-moralisti, A. Smith e J. S. Mill, gli avevano assegnato. Eppure, tra etica puritana e materialismo consumistico e mercificante «vi è una profonda continuità: ed è il privatismo»[3]. Se nel primo è garantito dall’osservanza del precetto religioso, nel secondo vive nel “conformismo mimetico”.

Nelle società di mercato la nuova etica sociale diviene una “falsa etica sociale”, non vi è reale socializzazione. Essa, invece, rappresenta soltanto l’adattamento dell’etica individualistica alla società di massa.

Originariamente questo quadro poteva essere identificato solamente nella società degli Stati Uniti. Per la seconda metà dell’Ottocento e tutto il Novecento, infatti, l’ancoraggio ideologico e la trasformazione graduale, nella società odierna, della società classista europea ha attenuato gli effetti di individualizzazione e atomizzazione della società. Ma con la fine delle ideologie e la loro non sostituzione con nuovi paradigmi interpretativi; oltre alla spinta mercatistica, in seguito alla globalizzazione e alle rivoluzioni tecnologiche, hanno portato ad una “americanizzazione” della società europea.

«La società di massa è perfettamente compatibile con l’individualismo. L’integrazione dell’individuo si compie non attraverso la politicizzazione (adesione a gruppi portatori di valori sociali diversi) ma attraverso la nemesi del comportamento»[4]. Il conformismo è il nuovo “collante sociale” al posto della fede, non crea solidarietà sociale ma emulazione dei comportamenti individuali. In altri termini, il conformismo individualista è la piena legittimazione dell’ineguaglianza sociale.

Il tramonto dell’etica ha come conseguenza diretta il venir meno del principale “collante” sociale: la solidarietà. Il conformismo esalta l’ego, lo rende aggressivo e tendente al successo personale, e quando incapace di emergere determina comportamenti asociali: frustrazione e “aggressiva” indifferenza. Inoltre, con l’esaurirsi delle “basi etiche” della società vi «è la perdita di quella forma laica di trascendenza che è stato il senso del progresso e della storia»[5]. La società industriale autolegittimandosi rinuncia all’idea di progresso e di “nuova società possibile” che dia un senso ai mutamenti radicali nelle forze produttive e agli altri cambiamenti strutturali delle società post-industriali odierne.

Complici, e quindi allo stesso modo colpevoli, della deriva etica della società capitalista sono anche i movimenti o partiti “riformisti”, progressisti o di sinistra. Non adeguando il proprio paradigma culturale alle trasformazioni sociali degli ultimi trent’anni, non hanno elaborato una base etica di progresso in nome del pragmatismo politico e della netta rottura con il marxismo. «Il riformismo socialdemocratico affida il progresso sociale non tanto e non più a certe fondamentali opzioni etiche – libertà, eguaglianza, fratellanza – quanto allo sviluppo tecnologico e alla crescita economica»[6]. In questo “lassismo pragmatico” la sinistra si adatta alla involuzione etica del capitalismo; e in nome del “mito della crescita” anche il riformismo non persegue una società giusta, ma una società più ricca.

Nella società di massa odierna, consumistica, individualista e cosmopolita, però, in nome del presupposto “di abbondanza per tutti” insito nel “mito della crescita” si accetta l’ineguaglianza come funzione naturale della crescita stessa; abbandonando ogni presupposto etico e/o morale. Inseguendo, quindi, le premesse anti-etiche del capitalismo avanzato la sinistra sfocia nello stesso campo amorale della destra. E in questo nuovo clima sociale, ma che di socialità ha ben poco, «non stupisce che le tradizionali opzioni politiche, della sinistra e della destra, rispettivamente per l’eguaglianza e per la diseguaglianza sociale, perdano il loro valore etico, per assumere valore puramente funzionale»[7]. Destra e sinistra così perdono i loro tratti distintivi assomigliandosi sempre di più.


[1]     Hirsch (1981), Social limits to growth, Bompiani.

[2]     Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza.

[3]     Ruffolo 1985.

[4]     Ruffolo 1985.

[5]     Ruffolo 1985.

[6]     Ruffolo 1985.

[7]     Ruffolo 1985.