LA SVOLTA DI GALLI DELLA LOGGIA

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Faccio seguito alla lettura dell’articolo di Galli della Loggia che ho letto con attenzione, mentre rimbombano nelle mie orecchie le parole di Silvano Veronese quando conclude il suo pezzo di commento con le seguenti parole:” Se le cose stanno così, non c’è nessuna ragione al mondo per ricercare da socialisti una identità (pur minima) organizzativa comune con gli epigoni di questa tradizione comunista anche se ora alberga in una casa comune con epigoni democristiani”.

Non contesto la lunga analisi che Galli della Loggia espone nel suo testo, non nego l’errore del ’21 e l’effetto che la rivoluzione di ottobre ha avuto sul comportamento del PCI per molti anni. Io mi riconosco piuttosto, usando le parole di Galli della Loggia, in quello “sparuto gruppo di esponenti del PCI, i cosiddetti “miglioristi” i quali avevano cercato nonostante tutto di mantenere in qualche modo un rapporto non conflittuale con i socialisti”.

Non mi sono mai identificato con la storia, fatto che non ha mai costituito una pietra angolare del mio pensiero, rivolto più che altro non tanto alla mitologia quanto all’esame della situazione economica del nostro paese ed al clima dominante in Europa.

Di Galli della Loggia contesto il suo assunto per cui, e riprendo le sue parole: “quando dopo l’89 al fatale appuntamento con la storia, si vide come in complesso questi stessi intellettuali comunisti non si mostrassero per nulla favorevoli a un riorientamento del loro partito in senso socialdemocratico”

L’autore, in tutto il suo testo, ripete quella che secondo lui sarebbe stata la mossa ineluttabile, ovvero che al PCI “si offriva una via soltanto per cercare di non disperdere interamente la propria esperienza, per sperare di conservare la compattezza del proprio organismo e non vedere il proprio passato disfarsi senza lasciare traccia. La via era quella di svolgere a ritroso il filo della propria storia per riandare al suo inizio e quindi ripercorrerne lo svolgimento”.  Ripercorrere il proprio filo ritrovando un’altra direzione “E quale se non quella del socialismo? Quale se non quella del riformismo socialdemocratico? Non c’è dubbio che in astratto sarebbe stata questa la via più ovvia, per non dire anche quella con ogni probabilità più produttiva di risultati politici”.

La mia prima impressione è che l’autore eternizza una fase iniziale, che può anche essere stata vera agli inizi, ma dimentica gli sviluppi successivi con Gramsci e poi con Berlinguer; difficile riconoscersi in quello che sembra essere uno stereotipo piuttosto che un pensiero in movimento che aggiusta e rielabora gli inputs iniziali creando come comunismo italiano qualcosa di diverso da ciò da cui era partito.

Io, al contrario dell’autore, qualche dubbio sulla ritrovata strada del riformismo socialdemocratico ce l’avrei. Sia chiaro, non sto negando le grandi conquiste che il riformismo socialdemocratico ha ottenuto negli anni del dopoguerra”. Durante i cosiddetti “trenta gloriosi” – i decenni di forte crescita vissuti dopo la Seconda guerra mondiale – la socialdemocrazia era vista dalla maggioranza dell’elettorato operaio come la forza che proteggeva i lavoratori e garantiva il progresso di tutta la società, conciliando capitalismo e benessere diffuso. Ma è indubbio che le conquiste fatte dalle politiche redistributive avvenivano in anni in cui la presenza viva della “concorrenza” comunista rendevano il capitale più propenso a rafforzare i rapporti con la socialdemocrazia.

Con il crollo del muro di Berlino il capitale si è liberato da quella pericolosa concorrenza, si è rafforzato anche per il disconoscimento del comunismo russo come valida alternativa, e gli ha permesso di smantellare gran parte delle conquiste fatte nei trenta gloriosi. I rapporti di lavoro sono peggiorati, precarizzati, la partecipazione dei subalterni alla vita politica con comitati di quartiere, sindacati, consulte di ogni tipo si è isterilita portandoci all’abbandono del voto, ad essere “sonnambuli”. Non è chi non veda che il riformismo è sulla difensiva, anzi oggi le riforme sono quelle che cancellano i diritti a suo tempo conquistati. L’assetto tributario è l’esempio splendente di come si blocchi l’ascensore sociale, come si impoveriscano non solo le classi subalterne ma anche quella recente classe media che sta via via scomparendo in una fase di decisa polarizzazione.

La mia interpretazione è che la rinuncia dello stato ad avere un ruolo di guida dell’economia, come ad esempio era stata, dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la creazione di un modello di economia mista in cui lo sguardo ad un orizzonte esteso ci aveva portato ad esempio in molti paesi esteri, lasciando tutto all’iniziativa privata, al cosiddetto libero mercato, ha fatto crollare le capacità competitive del nostro paese.

L’adozione dell’euro come moneta unica, necessitava che, non potendo più utilizzare la svalutazione competitiva della nostra moneta come strumento di difesa (miope) della nostra economia, si puntasse sull’aumento della produttività, sulla innovazione, sulla digitalizzazione del nostro sistema produttivo. Ma con il 92% delle imprese che operano con meno di 10 dipendenti che innovazione vuoi fare; sei costretto a campare sul basso costo della mano d’opera, e nemmeno l’istituzione di un salario minimo può servire a qualcosa in questa situazione. Siamo arrivati al punto in cui il ministro Calenda, che ha capito le cose, vuole la rivoluzione 4.0 ma la attua usando i proventi fiscali dei lavoratori e dei pensionati, per regalare fondi a chi, per cultura privatistica, dovrebbe operare con lo spirito schumpeteriano dell’imprenditore creatore di efficienza.

In un mondo in cui la tecnologia, dalla digitalizzazione alla robotica, dal computer quantistico all’intelligenza artificiale si mostra essere l’elemento chiave per il futuro, rendendo emarginati chi quelle strade non vuole o non può o non sa percorrere. In Italia la ricerca (pubblica e privata) è tra le più basse in Europa destinandoci così ad un inevitabile declino. Si aggiunga che quasi la metà dei nostri laureati trovano lavoro all’estero.

Non è quindi il riformismo socialdemocratico che risolve le contraddizioni del nostro paese; non è più il tempo di far crescere le pecore per poi tosarle meglio, la strada è ben altra: è quella di raccogliere la bandiera della produttività che il capitale ha lasciato cadere; intervenire nel “cosa e come produrre” entrando nella gestione della struttura produttiva piuttosto che permanere ad operare sul campo della redistribuzione (cui ha fatto cenno molte volte la segretaria del PD) a livello sovrastrutturale; lasciando spazio ad una programmazione illuminata che ponderi coscientemente l’equilibrio tra valori d’uso e valori di scambio.

Penso di aver espresso chiaramente il mio pensiero sull’articolo di Galli della Loggia, e di continuare ad avere con Silvano Veronese il riconoscimento che ci sia qualche ragione per continuare a dialogare.