I massimalisti russi è il titolo di un articolo che inizia a centro pagina sull’ADL dell’11 agosto 1917 e va a concludersi nelle tre colonne di spalla. La sigla “a.g.” e l’indicazione di provenienza da “Il Grido del popolo di Torino” segnalano che l’autore qui è un ventiseienne di nome Antonio Gramsci.
Non sappiamo se il giovane dirigente socialista sia a conoscenza o meno dell’evoluzione politica in Russia in tutte le sue determinanti. Non pare, per esempio, che Gramsci sappia già della fuga di Lenin in Finlandia o delle determinazioni di Kerenskij circa la continuazione della guerra. Certo è che Lenin e Kerenskij, anche per il futuro fondatore del PCdI, sono i gran duellanti di Russia, l’uno campione massimalista, l’altro dei socialisti moderati. Quel che emerge dallo scritto non è “l’analisi concreta di una situazione concreta”, ma piuttosto un ragionamento speculativo, con retrogusto di sapore neo-idealista.
Aleksandr Kerenskij e i socialisti moderati «sono l’oggi della Rivoluzione, sono i realizzatori di un primo equilibrio sociale», questa la premessa gramsciana. Grazie ai moderati dell’oggi: «la Russia ha avuto però questa fortuna: che ha ignorato il giacobinismo». Nella nuova Russia nata dalla Rivoluzione di Febbraio vige il pluralismo. Perciò si sono formati numerosi gruppi politici «ognuno dei quali è più audace, e non vuole fermarsi, ognuno dei quali crede che il momento definitivo che bisogna raggiungere sia più in là, sia ancora lontano». La lotta va avanti: «tutti vanno avanti perché c’è almeno un gruppo che vuole sempre andare avanti, e lavora nella massa, e suscita sempre nuove energie proletarie, e organizza nuove forze sociali che minacciano gli stanchi, che li controllano e si addimostrano capaci di sostituirli, di eliminarli se non si rinnovano… Così la rivoluzione non si ferma, non chiude il suo ciclo» (ADL 11.8.1917).
La constatazione dell’instabilità politica russa assume in Gramsci i contorni di un’ontologia del movimento storico. In esso la Rivoluzione per propria natura intrinseca: «Divora i suoi uomini, sostituisce un gruppo con un altro più audace e per questa instabilità, per questa sua mai raggiunta perfezione è veramente e solamente rivoluzione». In Gramsci la storia stessa sembra procedere in analogia con il lavoro umano e – così come c’è un lavoro “morto” che vediamo imprigionato nel capitale e nei mezzi di produzione e c’è un lavoro “vivo” che vediamo sprigionarsi dall’attività operaia – così c’è una storia “morta” dentro la stabilità delle istituzioni, in contrasto con l’azione rivoluzionaria che è storia viva. Di più, la rivoluzione e “vita” tout court, e anzi: «Tutta la vita è diventata veramente rivoluzionaria: è un’attività sempre attuale, è un continuo scambio, una continua escavazione nel blocco amorfo del popolo» (ADL 11.8.1917).
Con chiaroveggenza divinatoria è evocata l’immagine dell’incendio cosmico, che «si propaga, brucia cuori e cervelli nuovi, ne fa fiaccole ardenti di luce nuova, di nuove fiamme… La rivoluzione procede fino alla completa sua realizzazione». In questo stato nascente vengono suscitate nuove energie e propagate nuove “idee-forze”, sicché gli stadi graduali dell’evoluzionismo sociale possono essere bypassati dal pensiero vitalistico-rivoluzionario. Esso in via di fatto «nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie fra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale. Queste esperienze basta che si attuino nel pensiero perché siano superate e si possa procedere oltre» (ADL 11.8.1917).
Ma i massimalisti devono ora entrare in scena come “ultimo anello logico di questo divenire rivoluzionario”. Il punto d’arrivo dell’intero movimento non può abitare nella casa dei riformisti che rappresentano solo uno stadio dialettico transitorio. Ma tutto deve approdare infine ai massimalisti che incarnano l’essenza dell’evento e «sono la continuità della rivoluzione, sono il ritorno della rivoluzione: perciò sono la rivoluzione stessa» (ADL 11.8.1917).
Se Kerenskij è la stazione di partenza, quella d’arrivo si chiama dunque Lenin. E il futuro fondatore dell’URSS ha ormai «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti» (ADL 11.8.1917).
La tempesta vitalistica scompone e ricompone gli «aggregati sociali senza posa e impedisce… il formarsi delle paludi stagnanti, delle morte gore». Dopodiché, seconda divinazione di Gramsci, financo «Lenin e i suoi compagni più in vista possono essere travolti nello scatenarsi delle bufere che essi stessi hanno suscitato». Ed è proprio questo il travolgimento che, in effetti, accadrà già a partire dalle prime dure repliche della storia.
E a quel punto Antonio Gramsci, non più ventiseienne in Torino, inizierà a lavorare al nucleo della sua riflessione filosofica più propria, l’idea-forza di una “egemonia culturale” intesa come conditio “sovrastrutturale” della rivoluzione proletaria. L’egemonia deve avere luogo anzitutto nella coscienza delle masse. Senza il loro consenso s’instaurerebbe, infatti, soltanto un “dominio” fattizio: un’oppressione violenta, “giacobina”, sostanzialmente instabile.
In questo modo, però, l’idea-forza gramsciana approderà a un luogo molto distante rispetto a quello dell’assalto alle casematte del potere che il “massimalismo” leniniano si appresta a celebrare con la presa del Palazzo d’Inverno. La sua “egemonia culturale” si collocherà semmai nei pressi della teoria della “rivoluzione sociale” che il riformista Turati tratteggerà a Livorno nel gennaio del 1921.
Fonte: L’Avvenire del Lavoratore
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