LA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA

di Renato Costanzo Gatti

Socialismo XXI Lazio

In questi giorni di vacanza natalizia tre articoli hanno solleticato il mio interesse, la mia propensione a pensare alla rivoluzione tecnologica in atto che, da buoni sonnambuli, stiamo acriticamente vivendo senza porci troppe domande se non a livello epidermico, senza cioè senza approfondire le conseguenze che questa rivoluzione potrà (o già sta) apportare alle nostre stanche società.

Gli articoli sono:

a) “Stato sociale e pieno impiego tra Costituzione ed economia” di Leonello Tronti 23/12/2023 (ed. dalla parte del torto).

b) ”Lavoro, tecnologia, conflitti. E’ in corso una rivoluzione” di Massimo Cacciari 24/12/2023 (ed. Il Giornale).

c) “Saranno le stesse contraddizioni del capitalismo a indicare la via del suo superamento” di Vittorio Pelligra 24/12/2023 (ed. Il Sole 24 Ore).

Nel primo articolo l’amico prof. Tronti affronta la storia dello stato sociale da Bismarck a James Meade, passando per Lassalle, Wagner, Pigou, Keynes e Beveridge. Nelle conclusioni il prof. Tronti affronta il tema esposto nel titolo che ho dato a questo mio intervento con le seguenti parole:

“Dinanzi alla prospettiva di una rivoluzione tecnologica senza precedenti, la sfida più terribile, la minaccia davvero mortale che oggi incombe sulla stato sociale è quella della jobless growth dei lavoratori disarmati nella sfida con i robot (…).Se sviluppo e occupazione non sono più sinonimi, lo stato sociale non può che crollare, perché è l’occupazione piena e regolare, con la completa adesione fiscale e contributiva dei lavoratori occupati, a consentire il finanziamento dello stato sociale: la piena occupazione non ne è che il fondamento finanziario necessario, la condizione economica di sistema indispensabile allo stato sociale, indispensabile perché il mercato del lavoro raggiunge la condizione di piena occupazione. La sfida della jobless growth può essere vinta e la piena occupazione riconquistata, purchè si accetti di rinnovare profondamente i lineamenti dello stato sociale pagando il prezzo che il rinnovamento comporta in termini di aggiustamento sociale, economico e culturale”.

Ora, come amava fare Einstein, facciamo un esperimento mentale e ci immaginiamo un mondo in cui tutto ciò che viene prodotto attualmente viene invece prodotto (forse anche più e meglio) dalle macchine; in questo esperimento tuttavia prescindiamo dall’affrontare due tematiche fondamentali quali:

a) quella rappresentata dalla sostenibilità, ovvero del consumo di beni rinnovabili senza intaccare le risorse naturali destinate altrimenti a terminare;

b) la tematica della mutazione climatica. Posta tale premessa, dobbiamo dedurre che conciliare la fine del lavoro comandato con la piena occupazione è impossibile, non ci pare allora che quello sia il dilemma cui ci troviamo di fronte ma quello che troviamo nelle parole di Massimo Cacciari nella sua intervista quando dice:” Ci troviamo a un bivio, in cui capiremo se questa tecnologia servirà a renderci liberi dalla pena del lavoro ripetitivo e meccanico e ci consentirà di partecipare alla ricchezza prodotta, senza subire la legge del mercato e del lavoro, o se sarà un processo per cui ci disoccuperemo, senza sapere che cosa fare della nostra anima e vivendo di contributi.”

Il terrore che si diffonde appena si pone la prospettiva di un mondo in cui le macchine producono tutto e lasciano disoccupati tutti i lavoratori può essere facilmente pacato se pensiamo che se le macchine producono tutto ciò che viene prodotto attualmente tutti potranno, senza problemi, consumare ciò che consumano ora anche senza bisogno di vendere il proprio tempo di vita per sopravvivere rendendo i lavoratori liberi dalla pena del lavoro comandato. Come approccio iniziale dovremmo quindi pensare che la fine del lavoro non pone un problema insolubile, problematica invece è la domanda su come si gestisce, ma soprattutto chi gestisce la fase transitoria. Fase che come scrive il prof. Tronti deve presentare la “gradualità con cui può essere applicata” di modo che consenta “un’applicazione graduale, tale da permettere in itinere le sperimentazioni, gli aggiustamenti e i correttivi che ne assicurino il successo”.

Riporto ora quanto scriveva Paolo Sylos Labini nel 1989 nel suo libro “Nuove tecnologie e disoccupazione” (a pag. 218 ed. Laterza) trattando dell’argomento di cui stiamo discutendo. Nell’ipotesi in cui “la produzione di tutte le merci sia robotizzata e che gli stessi robot siano prodotti di robot dobbiamo allora riproporci la domanda: chi è in grado di acquistare le diverse merci? La risposta non può che essere questa: si deve ammettere che uno Stato centrale munito, come tutti gli stati, di poteri coercitivi, provveda ad una redistribuzione del reddito seguendo, come criterio guida non l’umanità, la solidarietà o la carità, ma, più semplicemente, l’esigenza di assegnare una destinazione razionale ai beni prodotti. Un criterio razionale potrebbe essere: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”: è il criterio che caratterizza una società senza operai salariati e senza classi intese in senso economico; in una parola: una società comunista. Uno sbocco questo, dello spontaneo processo capitalistico, al di fuori delle tragedie della miseria crescente e delle conseguenti eroiche (e sanguinose) rivoluzioni.”

Ma Sylos Labini arriva alle sue conclusioni dopo aver risolto a monte il problema di “chi gestisce la fase transitoria”; infatti nel suo scritto si parla di “uno Stato centrale munito, come tutti gli stati, di poteri coercitivi” che provvede alla redistribuzione generalizzata del prodotto annuo oppure provveda alla distribuzione generalizzata delle azioni delle imprese robotizzate. Quindi a monte delle due ipotesi proposte esiste l’espropriazione dei robot, dei mezzi di produzione accentrandone la proprietà nelle mani dello Stato.

Ovvio che l’alternativa è quella della proprietà privata dei mezzi di produzione con la conseguenza che la redistribuzione della produzione annua non verrà fatta con (ritorno alle parole di Sylos Labini) “l’esigenza di assegnare una destinazione razionale ai beni prodotti” ma con l’obiettivo di limitare la produzione di beni per i non proprietari al minimo necessario perché questi non si ribellino e sopravvivano in continua subalternità. Il resto della produzione sarà destinato a soddisfare i bisogni di chi possiede i robot, bisogni creati e perseguiti alla Elon Musk, riproducendo una società neo-schiavistica. Se il salario nel modello capitalista deve permettere al lavoratore a vivere e riprodursi perché nel futuro saranno necessari nuovi lavoratori per sostituire quelli che escono dalla vita lavorativa, nella fase tecnologica del modello capitalista il fabbisogno di nuovi lavoratori viene a cessare insieme alla necessità di provvedere al loro mantenimento.

Tornando alle ipotesi proposte da Sylos Labini viene ovvio chiedersi come sia possibile, nella fase transitoria, attuare una politica di redistribuzione della proprietà delle imprese dai privati verso lo stato oppure a favore degli ex-lavoratori? Nella nostra esperienza attuale una risposta potrebbe essere la seguente:

Il nostro sistema produttivo è caratterizzato dal fatto che da trent’anni, ed in particolare da quando abbiamo adottato l’euro come moneta, per difendere la nostra competitività, caduta la possibilità di usare lo strumento della svalutazione, avremmo dovuto puntare al massimo sulla produttività del nostro sistema produttivo. Troppo poche aziende hanno imboccato questa strada, e sono quelle che ci garantiscono la gestione della bilancia commerciale, ma le altre hanno puntato sul basso costo della mano d’opera. Ciò, come noto, dipende dal fatto che il nostro sistema produttivo si regge su troppe piccole aziende, con meno di dieci dipendenti, incapaci per loro natura di innovazione tecnologica. Il ministro Calenda ha inventato i sussidi 4.0 al fine di dare un incentivo all’innovazione a quell’imprenditoria che il sistema liberista pone come unico e più efficace soggetto atto ad intraprendere grazie al suo spirito schumpeteriano.  Ecco che allora l’incapacità della nostra imprenditoria ad essere all’altezza del compito richiesta viene premiata dagli incentivi calendiani, sovvertendo il principio di causa-effetto. Se quei fondi, invece di essere donati al capitale, fossero erogati non come regalo ma come azionariato della comunità avremmo fatto un passo in avanti nella scelta di chi ci aspettiamo sia incaricato di redistribuire la proprietà delle imprese robotizzate.

E’ pacifico che il passaggio da un sistema produttivo basato sul lavoro comandato ad un sistema basato sulla produzione dei robot, vede scomparire la pena del lavoro, dove la liberazione dal lavoro comandato è premessa per sviluppare, ognuno secondo le proprie propensioni, l’impegno in attività sociali scientifiche o culturali utili alla crescita ed allo sviluppo del vivere insieme, si possono perseguire strade come:

● Cultura e arte: gli esseri umani potrebbero dedicarsi alla creazione di opere d’arte, alla musica, alla letteratura, al teatro e al cinema. Potrebbero anche partecipare a festival, mostre e concerti.

● Istruzione e formazione: gli esseri umani potrebbero continuare a studiare e formarsi per migliorare le proprie conoscenze e competenze. Potrebbero anche dedicarsi all’insegnamento e alla trasmissione del sapere.

● Ricerca e sviluppo: gli esseri umani potrebbero dedicarsi alla ricerca scientifica e tecnologica, contribuendo a migliorare il mondo.

● Cura della persona e del benessere: gli esseri umani potrebbero dedicarsi alla propria salute e al proprio benessere, praticando attività fisica, meditazione e yoga. Potrebbero anche dedicarsi al volontariato e aiutare gli altri.

● Partecipazione alla vita sociale: gli esseri umani potrebbero dedicarsi alla vita sociale, partecipando a gruppi, associazioni e circoli. Potrebbero anche dedicarsi alla politica e al volontariato.

Tale rivoluzione comporta anche il contenuto della legislazione, i principi della convivenza, le norme della giustizia. Questi elementi creati per la convivenza sociale ed i rapporti tra i soggetti sono il prodotto sovrastrutturale adatto e costruito in funzione della sottostante struttura. Non esiste un concetto di giustizia universale; ogni sistema strutturale si crea quelle costruzioni sovrastrutturali consone con la struttura da cui sono necessitate; una norma sovrastrutturale di un sistema strutturale diviene inadeguata, ingiusta, in un altro sistema strutturale che necessita invece di diverse norme sovrastrutturali.

Ancora una volta, la rivoluzione tecnologica, rivoluzione strutturale richiede che le norme giuridiche sovrastrutturali si adeguino, siano conseguenti al mutamento della struttura. Ecco allora che più che alla “redistribuzione” come rivendicazione per una giustizia civile, dobbiamo guardare alla rivoluzione tecnologica come campo su cui agire. L’agire sul solo fronte sovrastrutturale è inutile e perdente, come peraltro scriveva Marx nella “Critica al programma di Gotha”. Riporto dal terzo degli articoli citati in apertura quanto segue:

               “… Marx ridicolizza coloro che, come nel programma di Gotha, spingono per riformare il capitalismo rivendicando una maggior giustizia distributiva, perché non comprendono che l’ingiustizia che vorrebbero combattere è solo il sintomo di una malattia più grave che riguarda la natura delle relazioni produttive del capitalismo.”