NE’ IDEOLOGIZZARE NE’ MITIZZARE PER SOLIDIFICARE I PROCESSI DI PACE

di Giuseppe Scanni |

Siamo in guerra oppure no? Conosciamo quasi esattamente il numero dei morti, tanti, siamo informati delle strazianti violenze, dei catastrofici bombardamenti, degli scontri tribali ed etnici e di quelli di Stati contro Stati, delle fazioni di un popolo contro uno Stato; non sono restati nascosti a lungo gli Stati che appoggiano fazioni combattenti o che finanziano ed addestrano milizie etniche armate contro altri Stati ed alleanze militari. Ma di che guerra parliamo? Ci sono ancora gli strumenti necessari per placare i conflitti e firmare trattati di pace? È un problema da studiare perché, come questi due anni appena trascorsi ci hanno reso evidente, la guerra tradizionalmente intesa nel XX secolo si è trasformata e si sono logorate le categorie nelle quali venivano collocate dalle varie discipline le cause che originavano le guerre, le loro legittimità sulle quali si edificava la Pace attraverso il Diritto nell’ambito delle organizzazioni internazionali. Tutti siamo chiamati a dare risposte concrete ai problemi presenti, tenendo conto degli strumenti che la realtà oggettiva mette a nostra disposizione, senza ignorare quanto si sia trasformato il mondo e di conseguenza come siano divenuti obsoleti alcuni sistemi chepure furono efficaci in un passato non molto lontano.

Non c’è più una linea che delimiti la distinzione della guerra fra Stati e guerre civili, tra guerre di liberazione nazionale e guerre al terrorismo, perché lo scontro armato asimmetrico tra attori militari e politici di diversa natura hanno, nei fatti, trasformato il diritto internazionale e modificato il concetto di guerre limitate in guerre totali; dove il senso di totali non è unicamente collegato all’uso distruttivo e totale dell’arma atomica o di armi altamente sofisticate e spietatamente mortali, ma alla partecipazione nei conflitti di eserciti professionalizzati e di un eterogeneo esercito di “popolo”, che a sua volta non è il popolo tradizionalmente inteso, ma un complesso gruppo di civili, anche di diverse nazionalità, riunito sotto una o più bandiere politiche, ideologiche, religiose.

Finito, con la Guerra Fredda (1945-1991), il confronto NATO- Patto di Varsavia, assieme ai rispettivi alleati esterni, si è conclusa anche la stagione della guerra intermedia a sua volta limitata dalla linea rossa marcata dalla deterrenza nucleare. Il limite definito alla guerra generale è oggi paradossalmente messo in discussione da nuovi e vecchi archetipi retorici che narrano e esaltano virtù taumaturgiche degli Stati “nazionali”, che invece sono stati oggetto di una profonda modificazione dei loro poteri; oppure inveiscono contro imperialismi espansionistici e guerrafondai, integrando a volte tradizionali logiche di “potenza” con proclami identitari, chiamando spesso in causa le migrazioni economiche. Altri ancora, in nome di un generico neo luddismo accusano – senza offrire soluzioni alternative – l’era digitale di abbassare livelli di qualità della vita per alcuni, di accelerare il processo di crescita per pochi altri. C’è anche chi giustifica eventi bellici o violenze di massa, dittature con la “tradizione” e con un imperativo reli- gioso.

L’Occidente, oggi, esecra la guerra e nello stesso tempo la esorcizza non volendo riconoscere che dopo ottant’anni è finita la pace che ci ha accompagnato attraverso scontri, anche drammatici e sanguinosi, ma lontani dalle proprie case. Tanto lontani che la Difesa e gli impegni tipici di una grande potenza, fino a ieri unipolare, sono divenuti una spesa maldigerita per gli Stati Uniti; per altri paesi, specialmente europei, un’occasione di disputa ideologica, una opportunità di divergere e discordare tra religioni ed all’interno delle stesse; un quotidiano intrattenimento televisivo e social.

In questi tempi di “guerre”, in bilico tra la definizione di conflitti locali o regionali, si rafforza l’ansia che l’imponderabile faccia scivolare l’umanità in un rischioso conflitto mondiale e molto si discute sul significato della pace, sui costi umani ed economici che comportano le guerre, e si fanno strada pericolose proposte di intendere pace come “non guerra”, elucubrando che sia utile e possibile considerare la “non ostilità” armata un sufficiente sistema securitario per le democrazie occidentali, che sono descritte come sempre più deboli.

Molti studiosi di scienza politica internazionale dubitano, invece, che il temporaneo (e per quanto?) blocco delle ostilità non accresca le crisi, se il blocco non è considerato consapevolmente dalle parti come fine ma in quanto condizione necessaria per l’apertura di trattative garantite da chi è internazionalmente riconosciuto capace di tutelarle nel loro sviluppo e, anche con la forza, nelle conclusioni raggiunte. Le diverse teorie sul bellum iustum che si sono straformate più volte, dall’affermazione del positivismo giuridico nel XIX secolo sino ai giorni nostri, hanno tolto agli Stati il diritto di intraprendere guerre.

Oggi le successive Dichiarazioni di principi adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quali la Dichiarazione del 1970 sulle relazioni amichevoli e di cooperazione tra gli Stati; la Dichiarazione del 1974, inserita nella Risoluzione 3314 dello stesso anno sulla definizione di “aggressione”; la Dichiarazione del 1987, contenuta nella Risoluzione 42/22 sul rafforzamento del principio di non ricorso alla minaccia o all’uso della forza nelle relazioni internazionali, hanno stabilito la norma imperativa del diritto internazionale (Ius cogens) che un attacco armato contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di uno Stato da parte di un altro Stato è una “aggressione” e costituisce un crimine contro la Pace. Al crimine cui seguisse un ricorso alla guerra, cioè quando fosse inapplicabile il Diritto – come accaduto in questi anni con l’aggressione russa a causa dell’opposizione del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU – vengono posti dei paletti, comunque applicabili, che regolano i conflitti (Ius in bello) attraverso le Convenzioni dell’Aja, di Ginevra ( 1949) e i suoi protocolli addizionali( 1977), ancora una Convenzione del- l’Aja (1954), di New York (1981) e di Parigi sulla interdizione delle armi chimiche, e quella di Ottawa ( 1997) sul divieto alla produzione ed uso di mine antiuomo.

La Corte Internazionale di Giustizia nella sua sentenza del 1986 sulle attività militari del Nicaragua e contro il Nicaragua ha definitivamente sancito che le Dichiarazioni e Risoluzioni dell’ONU sono parte integrante del Diritto internazionale generale e che precedenti intendimenti della stessa Carta del- l’ONU sulle forme in cui si poteva concretizzare il diritto di autotutela degli Stati erano abrogati, sanando così ogni possibile divergenza interpretativa in punto di Diritto.

Non è per caso che si è sviluppata una sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica occidentale per la politica in generale

 
Sostenendo l’ovvietà, cioè che quando si è sull’orlo del baratro si usa qualsiasi tipo di fune che possa sopportare il peso di chi cade o sta per cadere e non si bada alla qualità del materiale che costituisce la corda e che bisogna agire più in fretta che si può, si deve considerare che le sfide nuovissime che dobbiamo affrontare non sono superabili senza un coinvolgimento dei popoli; non perché le classi dirigenti, le incorrettamente malfamate élites, siano le cattive maestre che hanno promosso le differenti crisi belliche, cartina al tornasole della rottura dell’equilibrio mondiale, proponendo sostanzialmente da autopromossi pacifisti, contro supposti guerrafondai, che una immaginaria volontà popolare improvvisamente trovi la forza per imporre soluzioni e nuova stabilità. Il coinvolgimento informativo dei popoli è stato sempre necessario ma lo è più che mai ora nel mondo interconnesso, perché non c’è politica che tratti di bisogni fondamentali che non abbia esigenza di compartecipazione nelle decisioni. In generale, tutto il mondo e specificatamente quella parte che, come l’Occidente, richiama la sua storia all’esercizio del diritto e preferisce vivere nella fragilità, nella delicatezza del sistema democratico basato sul bilanciamento dei poteri, come disegnati da Montesquieu piuttosto che da Rousseau, sa che è necessario coniugare la conoscenza delle cause per offrire un consenso diffuso per la loro soluzione: non bastano lunghi monologhi televisivi – sovente dilettanteschi – travestiti da dibattito, o spot sintetici e propagandistici.

Se comprenderemo che non c’è un “mondo cattivo” da liberare, ma crisi profonde da sanare, ci renderemo conto non soltanto delle cause che provocano le guerre ma anche di quanto sia indispensabile la pace e sbagliato limitarsi ad esecrare e ad esorcizzare.

Henry Kissinger, che aveva difetti, oggi più noti che nel passato (basta ricordare il golpe cileno del 1973), un pregio sicuramente lo possedeva: la politica internazionale la conosceva bene e non l’ha mai ristretta alla sintetica e limitante definizione di “geopolitica”: il che significa che dovremmo applicare nell’epoca della trasformazione economica, sociale, giuridica, anche studi attenti sugli effetti antropologici della trasformazione demografica e della scomposizione del mondo produttivo, assieme all’essenziale ricerca di soluzioni possibili al necessario ed urgente riequilibrio ambientale del pianeta. Non è per caso che si è sviluppata una sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica occidentale per la politica in generale, particolarmente per quella estera. È fuorviante addebitare ai mezzi di comunicazione che la rivoluzione digitale ha imposto la responsabilità di aver edificato una società incapace di rispondere alle mille domande quotidiane con piccole e generiche risposte. I governi, per quel che direttamente ci riguarda anche l’Unione Europea, dovrebbero trasmettere in modo comprensibile quanto sanno, ed è tanto, sui rischi, pericoli, costi, sacrifici che rischiamo di affrontare con non improbabili allargamenti delle aree di conflitto e quali scenari prevedibili ci attenderanno con un altrettanto possibile laissez faire. Per dare soluzione pacifica e duratura alle umane emozioni, al rispetto assoluto della vita, alla paura, al dolore, al rischio concreto di dover affrontare sacrifici economici, chi è chiamato a governare deve compartecipare informazioni necessarie per comprendere la complessità intrinseca all’attuale condizione che rivoluziona il pianeta, proprio perché, nonostante la woke culture, esiste un metro distintivo tra l’Occidente e tanta parte del mondo, ed è il metodo democratico maturato in secoli di riflessioni filosofiche e teologiche e in secoli di lotte della sinistra. La democrazia odierna non è una ideologia o, come vorrebbe qualche anziano maestro, l’organizzazione difensiva dei ricchi e potenti. La democrazia è la difesa strenua ed è l’anima del diritto alla libertà dei singoli che, in un continuo confronto, cerca e trova l’equilibrio con i diritti sociali, per difendere il bene più prezioso della società democratica, il diritto alla libertà dei singoli e degli Stati.

Ho letto su Panorama, in edicola lo scorso 1° maggio, le conclusioni che l’editorialista Carlo Cambi trae da due studi. Uno è il rapporto del Fondo monetario Internazionale sulla debole crescita prevista per l’Unione Europea in generale, lo 0,8%, lo 0,7% dell’Italia e un poco meno per la Francia e la Germania. L’altro studio è quello dell’Institute of International Finance, curato dall’ex capo dell’ufficio studi della Goldman Sachs, che sostiene che l’economia di guerra ha beneficiato la Russia; sono aumentate le esportazioni di Kirghizistan, Kazakistan, Georgia, Uzbekistan e Armenia che, evidentemente, acquistano beni essenziali per conto di Mosca; l’Iran, che ha aumentato le esportazioni verso la Cina; la Cina che compra sottocosto in yuan il doppio del petrolio di due anni orsono dalla Russia e sta completando il gasdotto siberiano, mentre la UE che sanziona la Russia subirebbe un grave vulnus dall’apertura ai prodotti agricoli ed avicoli dell’Ucraina. Panorama ha fatto il suo mestiere, ha posto domande che molti si pongono. Ma chi risponde?

L’Unione Europea, come gli Stati Uniti, soffrono il declino di quella che Luca Ricolfi ha definito, a parer mio con straordinaria lucidità, la società signorile di massa. Non sarebbe il caso che la Commissione ed il Consiglio Europeo offrissero, prima delle elezioni di giugno, un quadro specifico dei costi oggettivi delle sanzioni e dei costi presumibili dell’attacco all’Europa con la guerra di invasione in Ucraina e l’occupa- zione della Crimea? Per esempio – solo due risposte a due domande, neanche le più importanti – a quanto ammonta il valore del ridotto traffico sul Mar Nero oppure della notevole diminuzione del traffico navale sul Mar Rosso e sul Canale di Suez, che ha causato la circumnavigazione dell’Africa di più del 50% delle merci? Sono alcuni esempi della debole informazione che non permette giudizi ponderati né sui costi presenti, né su quelli futuri, e lascia campo aperto a populismi e disaffezioni alla democrazia ed ai suoi valori identitari.

“Il 2024 è il più grande anno elettorale della Storia” titolò l’Economist nel dicembre del 2023. Il Guardian definì i quattro trimestri che traversiamo il «Super Bowl della democrazia: 40 elezioni che plasmeranno la politica globale”. Ed in effetti circa tre miliardi di elettori chiamati alle urne offrono diversi spunti di riflessione.

Riferendomi a quest’anno super elettorale, scrissi ad aprile sul trimestrale Il Mondo Nuovo attorno alle “tre malattie immediatamente diagnosticabili della democrazia:

a) le elezioni senza popolo, l’astensione quasi maggioritaria dal voto, perché la polarizzazione ha disgregato la “comunità politica”;

b) il rifiuto della delega per la prepotente affermazione dell’”autocostruzione dell’Io” che disconosce il bisogno di “ costruire un noi”, annullando, paradossalmente, la possibilità dei singoli di contrastare la sovranità decisionale di minoranze organizzate sui diversi poteri economici, sociali e culturali;

c) la riduzione anche in Occidente delle elezioni come semplice misuratore della forza, marginalizzando i Parlamenti, comprimendo il dibattito, monopolizzando l’informazione.

Progettare la pace è difficile ma non impossibile purché non ci si limiti ad invocarla o a sostituire la scienza politica e la diplomazia con la parola evocativa e non risolutiva.

L’elezione presidenziale in Russia, quelle in alcuni paesi europei, le informazioni parziali dovute a sistemi elettorali difficoltosi e, in alcuni casi, per il gran numero di aventi diritto al voto o per le particolari estensioni territoriali, hanno sinora confermato sostanzialmente la diagnosi sulla salute delle democrazie sottoposte alla prova del voto.

Ed è vero anche che quest’anno elettoralmente straordinario influirà nel mondo complesso cui partecipiamo e che non vogliamo ceda ad una escalation bellica imprevedibile, perché la guerra che conoscevamo si è trasformata in una tecnoguerra a “basso” costo (si fa per dire), sfuggente, disordinata, ignorante dei canoni lungamente discussi che distinguono il conflitto dal crimine brutale e nello stesso tempo è divenuta guerra d’attrito in Ucraina e a Gaza come in Israele, una guerra tanto sanguinosa quanto di logoramento.

Basterà, come tanti geopolitici sostengono, una deterrenza “controllata” della guerra in accordo tra USA e Cina perché non deflagri un conflitto nucleare? Le elezioni statunitensi saranno davvero determinanti per aprire l’atteso consenso tra le parti per stabilire il metodo e l’agenda del processo di discussione necessario per istituire il tavolo diplomatico ad oggi bloccato? Daranno un contributo immediato per la pace il risultato delle elezioni europee di giugno e il quasi contemporaneo vertice del G7 a Brindisi e nella sua provincia?

Il vertice del G7 sarà pur accompagnato dalla presenza del Papa – al quale bisogna riconoscere che per promuovere la pace dà dimostrazione di un esemplare spirito missionario –, coraggiosamente incurante che possa essere definitivamente messa in crisi la sua diplomazia umanitaria ed il particolare status di attenzione e rispetto al magistero etico della Chiesa che il mondo riconosce al Santo Pontefice romano. Cosa accadrà se il G7 approverà misure che contraddicono o minimizzano il messaggio del Papa? Che potrà succedere se il Papa dopo il G7 non fosse invitato o gradisse partecipare ad una sessione del G20 o dei Brics e fosse ignorata, per differenti motivi compresa l’opposizione del Patriarca di Mosca, questa sua richiesta? C’è qualche motivo di timore considerando i risultati della tanto generosa quanto azzardata diplomazia d’arrembaggio del cardinale Zuppi per il rilascio dei bambini ucraini trasferiti a forza in centri rieducativi o presso famiglie russe e, poi, per tentare nascosti (come è ovvio: se la diplomazia detta “umanitaria” è pubblica e declaratoria la di- plomazia reale cammina a fari spenti) approcci di mediazione respinti dal governo russo e, per quel che già si doveva conoscere, dalla Chiesa Ortodossa, divenuta sostanzialmente un organo costituzionale della Russia che ha conquistato il potere di esprimersi direttamente nel parlamento.

Progettare la pace è difficile ma non impossibile purché non ci si limiti ad invocarla o a sostituire la scienza politica e la diplomazia con la parola evocativa e non risolutiva.

Scavalcando lo “gnosticismo” woke è lecito affermare che la pace non è conseguibile se non si disvelano e difendono le buone ragioni del diritto internazionale per soddisfare il vulnus subito dagli aggrediti, ed “inventare” vie d’uscita agli aggres- sori, perché le guerre multiformi non si fermano mai, anzi prolificano.

I combattimenti in terra Ucraina, la tragedia innestata dal più evidente stupro e violenza di massa della Storia moderna di Hamas (che non è rappresentativa né dei palestinesi né della Palestina) hanno reso evidente che il rango di seconda potenza mondiale appartiene e resterà stabilmente alla Cina e che l’odioso regime teocratico iraniano, capace di organizzare per- sino lo stupro e l’assassinio di stato di povere ragazze sedicenni colpevoli d’essere adolescenti “senza velo” (nel silenzio di tante e tanti “progressisti”) ha conquistato un rango di potenza regionale minacciosa e crudele usando Hamas, Houthi e chiunque sia disponibile ad una alleanza funesta contro l’Occidente nemico e il sionismo da abbattere. La Turchia dispotica di Erdogan deve contentarsi di un ruolo di rilievo a tassametro nel Mediterraneo da condividere in parte con i russi, soprattutto in Libia.

Oggi sappiamo che quello che non avremmo mai immaginato, che il territorio semidesertico di Gaza poteva essere, come è stato, trasformato in una foresta sotterranea più inestricabile di quella vera che bloccò il potente alleato militare del Viet- nam del Sud, gli Stati Uniti. Sappiamo anche che la storia prende le sue rivincite: alla frontiera della Cina popolare si è formato uno stato asiatico assolutamente capitalista sulle cui terre e nei cui sotterranei combatterono, resistendo e vincendo contro gli USA, i Vièt Cöng. Dopo Hamas sappiamo che la foresta vietnamita è possibile ricrearla dappertutto, con un’aggravante: in Vietnam dietro gli alberi e nei cunicoli i Vièt Cöng non obbligavano la popolazione civile a sacrificare la vita come loro scudo umano.

Il mondo liberale, socialista, democratico assiste costernato all’esplosione d’odio contro gli ebrei, ed alla beatificazione di un armato, addestrato, finanziato esercito non professionale travestito da movimento politico per odio religioso e per compartecipare alla guerra antioccidentale dell’Iran e della Russia. Noi dobbiamo osservare che la solida democrazia israeliana non riesce, soprattutto in tempo di guerra, a mettere alla porta Netanyahu, corresponsabile del disastro politico del segreto appoggio ad Hamas per evitare il riconoscimento della Palestina, il blocco agli insediamenti dei coloni dell’ultradestra che lo appoggia, e il tentativo di bloccare – in attesa di un ri- torno di Trump alla Casa Bianca – accordi di pace, reciproco riconoscimento e cooperazione con Arabia Saudita ed Emirati che devono forzatamente comprendere il mutuo riconosci- mento tra Israele e Palestina.

Ad inizio di maggio non si sa ancora se Netanyahu occuperà militarmente Rafah per conseguire “una vittoria finale” che ha già politicamente perso nell’opinione pubblica mondiale. Quello che sappiamo, in attesa delle elezioni europee e statunitensi, che un po’ dappertutto in Europa le elezioni al Parlamento di Strasburgo appaiono un appuntamento di verifica delle politiche nazionali e che , al momento, ed in attesa del disvelamento dei così detti studi di Draghi e Letta, i popoli europei voteranno sostanzialmente alla cieca sulle grandi riforme necessarie, tra le quali la Difesa e il Bilancio comuni, per iniziare, a seguire di un coordinamento diverso della politica estera europea e delle forze armate europee all’interno della NATO .

Quello che ancora sappiamo è che la finzione politica, oggi chiamata Sud globale, vorrebbe rappresentare la moderna sintesi delle esigenze di crescita e sviluppo di quei mondi definiti decenni or sono Primo, Secondo e Terzo Mondo, intendendo la decolonizzazione come fenomeno virtuoso solo se accompagnato dall’impossibile ritorno allo status socioeconomico e culturale quo ante la colonizzazione confusa con l’imperialismo. Una confusione storica e metodologica che alimenta nuovi populismi. Sarebbe sufficiente ricordare che già nel 1980 Willy Brandt presentò un previdente Rapporto, North – South. A Programme for Survival, su incarico delle Nazioni Unite, capeggiando una Commissione formata da economisti e politici di differenti scuole, tra questi c’era anche Robert McNamara, all’epoca Presidente della Banca Mondiale. Quel testo comprendeva i problemi da affrontare per risolvere la incongruenza del fallimento degli ex imperi coloniali, degli appuntamenti urgenti dettati dall’agenda imposta dal necessario Nuovo Ordine Economico Internazionale, sollecitato già agli inizi degli anni ‘70 dai socialisti e da Paolo VI, al quale non era sfuggita la implicazione della teologia della liberazione e la questione dello sviluppo sin dal Concilio Vaticano II.

Il Rapporto Brandt prendeva atto che appena il 25% della po- polazione dell’epoca gestiva l’80% della ricchezza mondiale; per essere più precisi l’attuale Occidente (G7, più gli altri paesi europei occidentali e orientali, più l’Australia, Nuova Zelanda, Giappone e la Russia) e invitava a riflettere e ad operare per superare un inaccettabile squilibrio economico e sociale. Anche in Asia le tigri asiatiche non riuscivano ad imprimere una svolta nettamente visibile neppure contando sulle politiche fortemente attive per lo sviluppo di Mao poi caparbiamente, con più efficacia, potenziate da Deng Xiao-Ping con le quattro modernizzazioni.

Gli anni ‘80 furono un decennio di crescita più distribuita nel pianeta ma accompagnata da un severo indebitamento pubblico dei paesi in via di sviluppo e un altro socialista, questa volta con Bettino Craxi, presentò a nome del Segretario Generale dell’ONU un Rapporto sul Debito, suggerendo opportune soluzioni in quel contesto finanziario e di regole doganali. Il Rapporto Craxi fu unanimemente accolto dall’Assemblea Generale, dall’Ecosoc, dal G7 e volutamente negletto dai comunisti, dai cattocomunisti, dai radical-chic, e of course dalla destra sociale. Rappresentò la continuità operativa del Rapporto Brandt per gli anni 90. Da allora le situazioni si sono enormemente evolute ma il cammino da percorrere è ancora lungo e le contraddizioni della globalizzazione sono parte del problema bellico.

Né ideologizzare né mitizzare per solidificare i processi di pace. Non significa tardare gli approcci risolutivi, ma affrontarli col realismo gradualista e riformatore che preservi universali diritti sociali e la libertà dell’uomo.

Pubblicato su: Mondoperaio