LA CRISI DEL “CENTRALISMO DEMOCRATICO”

Il XXX congresso (Milano, 8-12 gennaio 1953) che vede il PSI definire i termini della politica di alternativa socialista, con l’obiettivo della lotta contro la legge maggioritaria, segna anche l’avvio, ancora incerto e contraddittorio ma irreversibile, di un processo politico che è destinato nel volgere di pochi anni a restituire al PSI il suo ruolo autonomo nello schieramento politico italiano. La conseguenza della svolta del PSI è la necessita di un adeguamento della struttura organizzativa del partito e dei suoi rapporti con gli organismi unitari di massa agli obiettivi de sua politica.

Nel suo intervento XXX congresso, Fernando Santi imposta in termini nuovi a posizione sindacale del PSI, confermando che nel partito il processo di revisione degli schemi leninisti-stalinisti ha già raggiunto uno stadio avanzato.

Compito del sindacato – afferma Santi – è quello di promuovere il miglioramento graduale e costante delle condizioni economiche, civili, culturali e professionali dei lavoratori“.

Questa definizione dei compiti del sindacato è in chiave ostentatamente “riformistica“, e si colloca in antitesi alla concezione strumentale del sindacato come “cinghia di trasmissione” della politica del partito (il PCI) allora dominante nella Confederazione del Lavoro.

L’affermazione di Santi non è fine a se medesima: essa è il punto di partenza per tracciare un quadro generale della concezione autonomistica degli obiettivi e delle forme di lotta del movimento operaio in coerenza con l’impegno di lotta contro la legge maggioritaria, che palesa la preoccupazione di Santi e degli autonomisti di dare alla politica di alternativa socialista un significato che non sia esclusivamente tattico, ma di presentarla nel contesto di una visione organica, autonoma, dei problemi della società e dello Stato.

Per esercitare questa sua funzione – continua Santi nel suo intervento – che è funzione di progresso sociale, la classe lavoratrice deve disporre di un movimento organizzato, libero e forte che deve essere adeguatamente rappresentato in tutte le istanze della vita del paese e particolarmente laddove si fanno le leggi“. In questa prospettiva, che è quella della lotta per la conquista dall'”interno” dello Stato, antitetica alla concezione leninista-stalinista della conquista dall'”esterno“, si pone il problema dei rapporti tra lo Stato e le masse lavoratrici. “In realtà – afferma Santi – vi è un solo modo efficace e democratico di inserire le masse nello Stato: quello indicato dal movimento operaio in una posizione attiva d’iniziativa e di autonomia, tendente a trasformare gradualmente lo Stato, nell’attuale momento storico, attraverso la realizzazione della Costituzione per quanto riguarda particolarmente i diritti dei lavoratori e i princìpi sociali enunciati. Questa posizione democratica è stata scelta da gran tempo dal movimento operaio nel nostro paese”, osserva Santi. E, con un chiaro riferimento alla tradizione turatiana, egli precisa: “Fin da quando esso si divise dalla frazione dell’anarchismo che voleva la conquista dall’esterno, abbiamo scelto la strada democratica perché voleva dire e vuol dire difendere l’unita nazionale… e voleva dire non creare la prospettiva greca… Nonostante tutte le difficoltà in campo nazionale ed internazionale, noi pensiamo che dobbiamo camminare su questa strada: difendere la democrazia politica perché essa si sostanzi della democrazia economica e sociale“.

Capovolgendo l’impostazione morandiana, Santi definisce dunque una prospettiva della lotta socialista fondata sulla possibilità della costruzione graduale, democratica del socialismo dall’interno dello Stato, non condizionata alla modificazione dei rapporti di forza internazionali: e sintetizza questa posizione con la formula dell’austro-marxismo (“sostanziare la democrazia politica con la democrazia economica e sociale“) che Morandi aveva definito la “forma più raffinata dell’opportunismo socialdemocratico”.

Il rifiuto della teoria della pauperizzazione è espresso, conseguentemente, con l’affermazione della necessità di “un movimento sindacale libero e forte che abbia possibilità di battersi per migliorare la capacità di consumo delle grandi masse popolari” per cui “l’elemento fondamentale della sua lotta è l’unità d’azione con i lavoratori appartenenti a tutte le organizzazioni o a nessuna organizzazione. L’unità d’azione è il risultato di una politica, di una giusta politica rivendicativa a favore di tutti i lavoratori, da realizzarsi con i giusti mezzi accettati dalla maggioranza dei lavoratori“.

Con il che Santi rilancia la funzione rivendicativa del sindacato, come elemento di “progresso sociale“; e su di essa basa la politica di unità d’azione con i lavoratori, escludendo implicitamente ogni strumentalismo e ogni politicizzazione della lotta sindacale. Il significato di queste affermazioni risalta ancor più a confronto con quelle del morandiano Vincenzo Gatto, vice di Morandi nella responsabilità del lavoro di massa, il quale dichiarava che “la lotta di massa non è soltanto la lotta sindacale anche se questa e la più tipica, ma è lotta di massa quella che conducono su basi unitarie i vari movimenti di rinascita e parimenti azione di massa quella che conducono le donne per la loro emancipazione dallo sfruttamento, dal pregiudizio, dalla schiavitù, dalla miseria lo sono ancora le lotte per risolvere il problema della drammatica situazione della gioventù, la cooperazione in generale è azione di massa la lotta per migliori condizioni dei contadini nelle montagne e dei coltivatori diretti. Tutte lotte che nella loro logica concorrono sempre a risolversi nella lotta delle lotte, come e stata definita la lotta per la pace, la più nobile delle lotte di massa”.

Il contrasto che emerge tra le due posizioni e contrasto di fondo tra autonomisti e morandiani. Ma è importante osservare che nell’intervento di Gatto non manca il riconoscimento della necessità e possibilità di una caratterizzazione dell’azione socialista nel sindacato, a ragione della pressione della base sindacale e di quel settore di dirigenti socialisti della CGIL che vedono nell’iniziativa sindacale socialista la condizione per rimuovere la confederazione dalla situazione di immobilismo e di crisi cui l’ha condotta la politica del PCI.

Già quest’iniziativa s’è manifestata in sede del III congresso della CGIL tenutosi a Napoli alla fine del ’52 nel quale il contributo dei socialisti diretto alla revisione della politica sindacale della confederazione, per adeguarla alla nuova realtà sociale del paese, è risultato abbastanza vivace. Il congresso della CGIL ha costituito inoltre l’occasione per la riorganizzazione della corrente sindacale sciolta due anni prima. La ricostituzione della corrente, per la nuova situazione che s’è creata, non è più circoscrivibile all’episodio congressuale, come aveva voluto la direzione del partito, perché “da una parte si chiede il sollecito inquadramento della corrente sindacale, con la pronta creazione dei comitati di corrente, intesi come strumenti agili e responsabili della diffusione nella corrente degli indirizzi di partito e per l’attivazione dei compagni”.

Pur accettando questa richiesta, il gruppo morandiano vi contrappone però “la strumentazione del partito nel settore di massa” in base all’affermazione già riportata che l'”azione di massa non si esaurisce nell’azione sindacale” e che tutte le lotte di massa devono risolversi nella lotta per la pace.

Vale a dire che anche il revisionismo dell’azione sindacale, mentre per Santi e gli autonomisti è inquadrato in una concezione revisionistica generale della strategia del movimento operaio, e da Gatto e dai morandiani accettato, purché contenuto entro i limiti della strategia “unitaria“, cioè della strategia comunista. Questo atteggiamento caratterizzerà in seguito tutta l’impostazione e l’azione nel PSI del gruppo morandiano che anche dopo la morte di Morandi resterà su posizioni “unitarie”: ed è l’atteggiamento che accetta solo il rinnovamento strumentale e funzionale dell’azione e della struttura politica e sindacale del partito, tentando di frenare ogni sviluppo revisionistico dell’ideologia e della strategia “unitaria”.

Nella “Risoluzione per il lavoro di massa” del XXX congresso viene pertanto accolta la richiesta della formazione dei comitati di corrente, che rappresentano la strutturazione organica della corrente sindacale socialista. “Essi – afferma la risoluzione – dovranno essere messi in atto in primo luogo nei settori sindacale e cooperativo e dovranno essere usati come mezzo per un più organico inquadramento e per il migliore indirizzo dei compagni socialisti che militano nelle organizzazioni, affinché assolvano ai compiti più avanzati che ad essi spettano nelle lotte e diano il massimo di attività per il rafforzamento delle organizzazioni popolari, allargandone l’influenza sugli strati di lavoratori non organizzati”.

C’è, come si vede, nella risoluzione una posizione di compromesso. Si accettano i comitati di corrente e si cerca di delimitarne la funzione ad una dimensione esclusivamente operativa, escludendo ogni possibilità di investire la politica sindacale, cioè gli obiettivi e le forme di lotta assunte dalla CGIL. Questo compito e affidato, invece, alle “commissioni di partito per il lavoro di massa“.

Queste commissioni sono costituite a livello federale. “Esse debbono essere strumento di un’attività pratica rivolta ad infondere in tutto il partito una più elevata coscienza dei fini preposti all’unità d’azione nell’attuale fase di lotta, i quali sono l’allargamento progressivo dell’unità dei lavoratori”. “Compete ad esse, in particolare, l’appropriata determinazione dei rapporti tra partito ed organizzazioni di massa, ciò che vuol dare il più chiaro orientamento ai militanti, indirizzando e guidando i socialisti, nel pieno rispetto dell’autonomia di queste, in una attività, che sarà tanto più efficace, in una misura in cui sarà meglio organizzata”.

Alle commissioni viene affidato, in sostanza, il controllo, la guida dell’azione del partito negli organismi di massa, a livello locale, così come la commissione nazionale del lavoro di massa esercita tale controllo a livello nazionale. È chiaro il proposito del gruppo dirigente morandiano di sviluppare da un lato organizzativamente la presenza del partito in questi organismi “unitari”; ma nello stesso tempo di controllare l’iniziativa dei comitati di corrente, nel sindacato e nelle altre organizzazioni di massa, ai quali vengono affidate le mansioni esecutive di un indirizzo politico dettato dall’apparato del partito, strettamente controllato dal gruppo morandiano. Questo proposito e il frutto di una dilagante tendenza revisionistica che ha la sua sede naturale in quegli organismi, come il sindacato, a diretto contatto con la nuova realtà economica e sociale del paese, e sui quali maggiormente pesano le conseguenze di una politica errata del movimento operaio.

La risoluzione impegna inoltre il partito “in concomitanza con le indicazioni e le direttive scaturite dal congresso circa la maggiore capillarizzazione delle strutture organizzative del partito, ed in particolare circa l’organizzazione sui luoghi di lavoro” a dare “la massima attuazione ed il massimo sostegno a tali direttive”: a sviluppare cioè l’organizzazione dei nuclei aziendali.

Ma ancora una volta l’impegno non esce dal campo delle generiche affermazioni, ed assume un valore esortativo, che nulla precisa circa la natura, la funzione, i compiti dei NAS.

Per l’elaborazione dei temi dell’azione di massa, la risoluzione indica il metodo di convegni differenziati, da promuovere sia in sede nazionale che in sede provinciale, “per approfondire i principali temi di lotta dei lavoratori” e “per recare a maggiore qualificazione i quadri socialisti nell’ambito delle organizzazioni democratiche”. La definizione di questi convegni come sede di approfondimento dei temi della lotta dei lavoratori assume un carattere positivo, perché essi finiscono per rappresentare l’unica sede di partito per una discussione aperta ed allargata sull’azione di massa del movimento socialista e delle organizzazioni “unitarie”.