IL PARTITO SOCIALISTA NEGLI ANNI DELL’AUTONOMIA

Dal congresso di Venezia al congresso di Napoli

La valutazione critica dell’efficienza della politica “unitaria” a risolvere il problema dell’inserimento delle masse popolari nella direzione dello Stato; e, insieme, l’acquisizione del nesso inscindibile di socialismo con democrazia e libertà, sollecitata dall’esplodere della crisi dello “stalinismo“, sono a fondamento di un graduale quanto spregiudicato approfondimento della politica seguita dal 1949 in poi, e, con essa, della struttura organizzativa che il partito s’era data.

Così ad una scelta di fondo tra politica “unitaria” e politica di “autonomia”, corrisponde il ripensamento critico del “centralismo democratico” e della natura autoritaria, burocratica, insita in tale sistema. Dal congresso di Venezia (febbraio 1957), nel quale la volontà “autonomistica” del partito viene deformata nella selezione del gruppo dirigente dal permanere del sistema delle false unanimità, al congresso di Napoli (15-18 gennaio 1959), che vede l’affermazione della corrente autonomista, il PSI percorre la strada della demistificazione del monolitismo di partito, che riceve il più duro colpo dall’esplicito manifestarsi delle sue correnti interne.

“Il coraggio che ha comportato il sacrificare l’unanimità in parte fittizia degli ultimi anni alla ricerca della chiarezza ideologica, politica e di metodo – afferma Nenni nella relazione al XXXIII congresso – ha evitato al partito il peggiore dei rischi ai quali era esposto: la prevaricazione del burocratismo sulla libera formazione della volontà politica della massa dei nostri aderenti”.

La lotta per l’autonomia passava dunque per la denuncia del burocratismo e del “centralismo democratico“, che dell’autonomia sono la negazione. E Nenni, infatti, proseguiva:

“Noi non soffriamo nel nostro partito di elefantiasi burocratica, eppure un eminente studioso come il compagno Dal Prà ha colto in un acuto intervento nella Tribuna precongressuale uno degli aspetti delle nostre difficoltà interne quando ha constatato come si sia creato un diaframma fra gruppo dirigente e realtà politica e come sia necessario che lo spirito burocratico sia combattuto direttamente e frontalmente dallo stesso movimento socialista. In senso generale, la sua tesi che la scelta del congresso di Napoli sia tra socialismo burocratico, attendista e conformista, e socialismo costruttivo è valida per il nostro modo di essere all’interno del partito, per la nostra concezione del partito, non meno per l’indirizzo politico che intendiamo darci”.

Troviamo in questa relazione di Nenni la più acuta e spietata contestazione del “centralismo democratico” allorché egli ricorda che “il Partito socialista non è qualcosa di staccato e di sovrapposto alle masse, non è una scuola per agitatori professionali e per uomini politici che manipolano le masse come lo scultore manipola l’argilla, ma è l’espressione della classe lavoratrice organizzata per la sua emancipazione“.

Quali erano stati gli effetti del centralismo democratico? “Il partito – proseguiva il segretario del PSI – ha faticato a trovare la propria strada perché andava perdendo l’abitudine alla discussione, perché andava spoliticizzandosi, perché della vita democratica praticava più gli aspetti formali che quelli sostanziali; perché andava assuefacendosi ai miti, il mito delle parole e delle etichette, e alla più prestigiosa di esse nel nostro paese: “sinistra”, e al mito della personalità.

“Sono cose alle quali dobbiamo tutti fare attenzione nell’avvenire. Nella organizzazione occorre essere attenti a non sacrificare la democrazia al centralismo trasformando quest’ultimo in supercentralismo. Si finirebbe allora per realizzare, anche nel partito, ciò che Marx diceva della burocrazia, e cioè che essa fa dello Stato la sua proprietà privata”.

Il quadro che abbiamo innanzi tracciato del Partito socialista negli anni del centralismo democratico, ed i forti residui che esso ha lasciato nella vita dell’organizzazione, ci sembrano pienamente confermati da questa lucida testimonianza del segretario del PSI.

Il passaggio dalla unanimità “al regno o governo della maggioranza” è visto da Nenni nel contesto della acquistata consapevolezza del legame inscindibile tra democrazia e socialismo, susseguente alla presa d’atto della crisi del sistema stalinista nei paesi comunisti.

Cosicché, conclude Nenni, “è certo, in ogni caso, che una regola interna di organizzazione la quale ponga fortemente l’accento sulla formazione democratica che intende dare ai quadri ed ai militanti è in perfetta armonia con l’impegno democratico del nostro congresso di Venezia. Essa non ha niente a che vedere col partito cosiddetto d’opinione, ed esige al contrario un partito fortemente e modernamente organizzato al fine di elevare e dilatare la vita democratica di base facendo cadere ogni diaframma tra gruppo dirigente e realtà politica e sciogliendo i nodi burocratici, se ne esistano e dove esistano”.

In questi brani della relazione Nenni al congresso di Napoli sono in nuce tutti i problemi della crisi del centralismo democratico e della trasformazione del partito strutturato sulle regole del centralismo, in partito democratico moderno.

Tuttavia i temi prospettati da Nenni non vengono ripresi che marginalmente nella discussione congressuale, tutta impegnata sulla tematica della politica di autonomia e portata a disconoscere l’importanza dei problemi della struttura organizzativa, che a quelli della politica di autonomia sono invece strettamente connessi.

La stessa risoluzione della maggioranza non fa cenno alle questioni del partito, se non per ritornare sul tema dell'”unità socialista” per auspicarne l’attuazione non più mediante un processo di riunificazione tra i due partiti, come era stato deciso al congresso di Venezia, ma nell’interno del PSI come “unità dei socialisti nel PSI, e quindi confluenza nel PSI di forze e gruppi socialisti, su una piattaforma democratica, classista e internazionalista“.

Restano così irrisolti i problemi della trasformazione organizzativa; su tali questioni il dibattito tra le correnti si riduce alla schermaglia tra la “sinistra” che accusa gli “autonomisti” di trasformare il partito di “massa” in partito di “opinione” perseguendo una politica “socialdemocratica” di rottura dell’unità della classe operaia, e gli “autonomisti” che si limitano a confutare tali accuse.

Quello di Napoli fu il congresso della piena affermazione della linea nenniana; che sancì la conquista autonomistica del partito e pose le premesse per concretizzare il dialogo, già avviato, tra il PSI e le forze democratiche.

Vi furono al congresso tre posizioni: oltre a quella nenniana, che ebbe il 58,30%, ed alla “sinistra” (32,65%), ci fu una mozione di Basso che raccolse l’8,73%. Forti della maggioranza assoluta, gli autonomisti fecero eleggere dal comitato centrale (del quale, per la prima volta, faceva parte Craxi) una direzione monocolore, di 15 membri, con Nenni segretario e De Martino vicesegretario.

La nuova direzione si trovò ad operare politicamente in una situazione difficile, con la polemica comunista d’un lato, e la reazione delle destre che paventava un accordo DC-PSI, con l’ingresso del partito storico dei lavoratori Italiani nella direzione dello Stato, dall’altro.

La situazione divenne più grave e carica di rischi per la democrazia, con il governo Tambroni, il quale fu costretto a dimettersi per la reazione popolare, ma soprattutto per l’intesa tra i partiti democratici, cui il PSI prese parte, che fu detta da Moro delle “convergenze parallele”. Essa permise la costituzione del governo monocolore presieduto da Fanfani. Su di esso i socialisti danno la loro astensione.

Dopo le elezioni amministrative del 6 novembre 1960, s’avvia, a livello locale, l’esperienza degli accordi di centrosinistra tra PSI, DC, socialdemocratici e repubblicani. I primi grandi comuni nei quali si attua tale intesa sono Milano, Genova, Firenze.

La percezione esatta di questa situazione si trova, ancora una volta, nell’analisi dei problemi della vita interna e dello sviluppo organizzativo del partito, compiuta da Nenni nella sua relazione al XXXIV congresso del partito (Milano, 15-19 marzo 1961). “Il frazionismo è stato la malattia interna del partito da quattro anni in qua, in maniera subdola dal congresso di Venezia a quello di Napoli, aperta da Napoli in poi”, osserva Nenni, e prosegue: “Da Napoli in poi il fatto più impressionante è la rigidità delle correnti tramutatesi in frazioni. Non c’è stata sessione di lavoro del CC, non c’è stato un voto in cui le frazioni non si siano riconosciute quasi automaticamente come nel Parlamento i gruppi dei diversi partiti. In tali condizioni la maggioranza del CC ha finito per dover assumere da sola la responsabilità della direzione del partito. Quando si è posto il problema dell’integrazione della direzione non si è potuto ottenere che esso venisse subordinato al fine delle correnti organizzate”.

E qui Nenni cita una serie di episodi di aperta ribellione della minoranza alle decisioni congressuali, dall’ostilità nei confronti dell’adesione del MUIS (la sinistra socialdemocratica uscita dal PSDI nel 1959 e confluita nel PSI) alla lettera dei 44 parlamentari in occasione dell’astensione al governo Fanfani succeduto al governo Tambroni. “Tutti gli argomenti polemici contro il partito – dichiara Nenni – sono stati forniti dal partito stesso. Durante la campagna elettorale l’attacco al partito, sia da parte dei comunisti, sia da parte della Democrazia cristiana e della destra, ha potuto fondarsi su pezze di appoggio fornite a getto continuo dalla stampa di frazione”.

Di fronte a questi episodi la direzione autonomistica avrebbe potuto intervenire energicamente anche sul terreno disciplinare, in base all’art. 2 dello statuto che sancisce il divieto delle frazioni. “La direzione non se n’è avvalsa ed ha fatto bene, perché ha tenuto conto che un problema politico e di costume non si risolve soltanto con misure disciplinari. Il XXXIV congresso è la sede opportuna per discutere la questione e per risolverla nel solo modo possibile: quello di una franca ed aperta discussione di tutti i problemi, quello della disciplina nell’azione nel rispetto non soltanto formale delle decisioni dei congressi e del CC del partito”, conclude la relazione Nenni.