IL CONGRESSO DI MILANO DEL 1961

Il XXXIV congresso discusse, con accuse reciproche tra le correnti, questi problemi; ma nulla riuscì a risolvere, non prendendo nessuna decisione in proposito, nonostante che nella “Piattaforma congressuale degli autonomisti” presentata insieme con la relazione del segretario del partito, fossero contenute alcune precise proposte di soluzione.

Riconoscendo che le correnti si sono “cristallizzate fino a dar vita a rigide organizzazioni verticali“, la “piattaforma congressuale” degli “autonomisti” indicava i pericoli di questa situazione nella conseguenza “fatale” della “conversione del partito di massa a partito d’opinione, rendendo impossibile l’assolvimento della sua funzione autonoma, la quale richiede che esso abbia una presenza e un peso crescenti nelle lotte politiche e sociali.

“Il XXXIV congresso – proseguiva il testo degli autonomisti – deve segnare il punto di partenza per l’assunzione da parte del partito di una pratica organizzativa, corredata da innovazioni delle regole corrispondenti, la quale abbia per scopo precipuo la salvaguardia e il potenziamento, al tempo stesso, dell’unità, dell’efficienza e della democrazia interna del partito. Per il raggiungimento di tali obiettivi è opportuno che il XXXIV congresso dia mandato agli organi che esso eleggerà di fissare le norme statutarie, necessarie a garantire l’attuazione dei seguenti princìpi:

Assicurare in ogni momento la libera circolazione delle idee che, da fatto di vertice, deve diventare fatto di base, sottoponendo alla discussione nelle assemblee di partito i temi di azione politica che possano essere motivo di diverse interpretazioni e soluzioni da parte degli organi dirigenti; una tale pratica abilitando il partito alla trattazione di temi specifici e concreti contribuirà ad impedire la crescente frattura esistente oggi fra partito e popolazione, particolarmente fra partito ed i giovani.

Formulare una linea e una pratica che faccia dell’organizzazione di partito e dei quadri che ad essa si dedicano, uno strumento in ogni momento garante, sia dell’esecuzione della politica del partito che della libertà di espressione, e quindi dei diritti delle minoranze; costituire gli organi dirigenti, direzione compresa, con tutte le correnti vietando al tempo stesso le frazioni. Una cura particolare deve essere dedicata all’apparato del partito ed al rinnovamento dei quadri. Bisogna sapere utilizzare tutte le energie ed in specie quelle giovanili assicurando così la continuità storica del partito, combattendo la costituzione di gruppi personali e le degenerazioni di carattere elettoralistico. Il lavoro del partito deve fondarsi essenzialmente sull’attività volontaria: i compagni funzionari hanno particolare responsabilità e, nel pieno rispetto delle singole opinioni, sono impegnati, al pari di tutti gli altri compagni, a seguire la politica decisa dal partito”.

La posizione della “sinistra” veniva invece espressa, in polemica con gli “autonomisti“, nei termini seguenti: “Dobbiamo dire con assoluta franchezza che oggi il Partito socialista non è, per la sua struttura organizzativa e per la situazione interna, all’altezza dei compiti che gli stanno di fronte nella lotta per la democrazia e per il socialismo. I suoi strumenti di elaborazione, di lavoro e di lotta son ancora quelli tradizionali, in sempre più chiara contraddizione con le esigenze più complesse delle lotte contemporanee; la sua divisione interna, e particolarmente il modo come essa si esplica, costituisce un serio freno alla espansione ideologica e politica del partito, alla necessità che si pone con carattere di urgenza, di un assai più vasto suo collegamento con le grandi masse popolari e coi nuovi problemi che esse esprimono.

“La cristallizzazione in correnti o frazioni finisce con l’accelerare pericolosamente un processo di involuzione in senso socialdemocratico. La divisione in correnti è stata imposta alla minoranza di sinistra dal modo come la maggioranza, dopo il congresso di Napoli, ha organizzato il lavoro di direzione politica del partito. La requisizione di ogni effettivo potere non solo di decisione, ma persino di effettiva elaborazione della linea politica, da parte della maggioranza, il funzionamento della direzione come comitato di corrente della maggioranza, la riduzione del comitato centrale a organo di registrazione e di ratifica delle posizioni politiche assunte dalla direzione e dalla segreteria del partito, la pratica impossibilità di discutere democraticamente, in termini di analisi di situazione e di elaborazione di una prospettiva politica, in seno al comitato centrale, e persino in seno alla stessa direzione maggioritaria, il fatale scadimento della partecipazione dei compagni alla costruzione della politica, essendo essi chiamati solo a dire sì o no a posizioni già prese al vertice del partito, tutto ciò ha imposto alla minoranza di sinistra di mantenere salvo, nei limiti del possibile, un centro di elaborazione e di vita democratica.

“Sotto questo aspetto la corrente di sinistra ha dato un importante contributo alla coesione e alla unità in una fase nella quale la sfiducia e la mancata partecipazione democratica di larghi settori del partito potevano trasformarsi in pericolosi e irreparabili distacchi.

“Ma questa situazione, che la minoranza di sinistra ha subito suo malgrado, è estremamente pericolosa, e si pone la necessità, nel pieno rispetto delle diverse posizioni interne di partito, di restituire agli organi di direzione, a ogni livello della organizzazione, il funzionamento attivo e collegiale, che sia democratico non solo nella forma ma anche nel contenuto, cioè nel fatto di impegnare tutte le forze del partito, pur nella disciplina delle decisioni maggioritarie, al comune lavoro di decisione e di attuazione”.

Quanto a Lelio Basso, ed alla sua piccola corrente di Alternativa democratica, nel documento preparato per il congresso si proponeva di sollecitare una discussione di fondo sui problemi del partito, auspicando la costituzione di un partito di “tipo nuovo”, ma non meglio precisato nelle sue strutture e nel suo meccanismo, tutto ciò essendo lasciato alla interpretazione di volenterosi lettori della prosa bassiana.

Si chiedeva infatti di creare un partito di tipo nuovo anche nelle sue strutture organizzative. E chiaro a chiunque che il partito ha oggi scarsi contatti con la vita reale, con l’esperienza quotidiana delle masse: l’assenteismo domina nelle sezioni, gli ingranaggi dell’azione quotidiana che dovrebbero collegare il partito alle masse sono arrugginiti. Non si tratta soltanto di tonificare le organizzazioni di base esistenti, oggi praticamente inefficienti, ma di creare organizzazioni nuove più agili, più articolate, più differenziate, capaci di tenere il passo con il ritmo sempre più vivace della vita del paese; di inserirsi in tutti i campi di attività, di lavoro, di studio; di affrontare, i problemi reali da cui dipende l’avvenire del paese e di interessare ed impegnare su questi problemi, a sostegno di soluzioni studiate e preparate in comune, i lavoratori delle fabbriche e la gioventù della scuola, la gente delle campagne e delle zone più arretrate ed insieme i tecnici dell’industria più moderna, promuovendo una circolazione continua di idee e propositi, di suggerimenti e di critiche, fra iscritti e rappresentanti, fra la base ed i dirigenti, fuori delle formule stantie di una organizzazione sclerotizzata.

Non è questa la sede per tracciare anche un piano organizzativo della vita di partito, ma dev’essere chiaro che una rinascita democratica in Italia non ci sarà se non ci sarà a promuoverla un partito fortemente democratico, non nelle sue enunciazioni verbali ma nella realtà della sua vita interna.

Primo compito di un partito democratico dev’essere quello di realizzare la partecipazione reale alla vita politica intesa nel suo senso più largo e l’impegno permanente dei suoi iscritti e possibilmente dei suoi simpatizzanti, sollecitandone la maturazione della coscienza, orientandone e dirigendone l’attività verso compiti che rispondano alla capacita di ciascuno“.

Al di là della polemica congressuale, si riscontra una valutazione sostanzialmente univoca tra le correnti sullo stato organizzativo del partito, sulla sua inadeguatezza alla realtà nuova della società italiana, ai compiti ed alle funzioni democratiche che esso deve assolvere nel paese. Ma alla diagnosi dei mali non corrisponde, nei fatti, alcuna cura radicale.

Le proposte concrete degli autonomisti vengono tutte respinte dal congresso: viene rinviata la costituzione del Consiglio nazionale con funzioni consultive; viene accantonata la proposta avanzata da De Martino di un ampliamento del numero dei membri del comitato centrale, diretto a inserire nuovi quadri nelle sedi decisionali del partito. L’unica proposta che trova attuazione dopo il congresso è quella della costituzione della Federazione giovanile socialista, sulla base di una reale autonomia funzionale del movimento nel quale sono organizzati i giovani socialisti.

Non affrontiamo in questa sede i problemi relativi all’organizzazione giovanile socialista, che investono senza alcun dubbio questioni fondamentali nel rapporto tra l’azione e il pensiero socialista e le esigenze più avanzate che per loro natura i giovani esprimono. Diciamo soltanto che la presenza del PSI tra le masse giovanili è troppo debole al pari di quella degli altri partiti di “massa“. Dai dati resi pubblici in occasione del convegno costitutivo della Federazione giovanile socialista (Reggio Emilia, novembre 1961) risultavano effettivamente iscritti al PSI non oltre 40.000 giovani sotto i 25 anni; vale a dire meno del 10 per cento.

Questi dati rendono abbastanza chiaramente l’idea dell’invecchiamento dei quadri militanti e dirigenti del partito: nel quale si registra il fenomeno conseguente del divario crescente tra le generazioni del primo dopoguerra e le generazioni degli anni Cinquanta. Il problema che tale situazione propone in forma acuta è quello dello svecchiamento dei quadri dirigenti locali e nazionali, ancorati in gran parte a vecchie concezioni organizzative, formatisi in un lavoro attivistico lodevole ma insufficiente ove non venga integrato da una formazione culturale-politica che sovente le stringenti necessità dell’azione impediscono oggettivamente di affrontare.