ALCUNI SPUNTI DELL’ATTIVITA’ PARLAMENTARE DI GIACOMO MATTEOTTI

di Domenico Argondizzo

Gli strumenti della politica – regolamenti parlamentari

Il 26 luglio 1920, nella prima tornata della Camera dei deputati, si svolse il seguito della discussione sulle modificazioni al Regolamento. Venne in discussione un articolo aggiuntivo Pio Donati – Matteotti:

“Quando cinque commissioni permanenti lo deliberino a maggioranza assoluta con l’intervento di almeno la metà dei rispettivi iscritti, o quando ne facciano richiesta collettiva due quinti almeno di commissari complessivamente appartenenti alle varie commissioni, la Presidenza della Camera dovrà convocare la Camera (non oltre il quindicesimo giorno dalla richiesta, o dalla comunicazione dei deliberati) per la discussione delle materie indicate nelle deliberazioni o nelle richieste di cui sopra”.

Matteotti: «Comincio dal rilievo aritmetico dell’onorevole Tovini. Esso non ha ragione d’essere, perché i commissari non sono deputati come gli altri, ma rappresentano un ufficio di 20 deputati, di guisa che quando si dice che 10 commissari deliberano, bisogna moltiplicare 10 per 20. Quanto alla questione statutaria, alla quale si riferiscono le osservazioni della Giunta, bisogna considerare due aspetti, quello positivo e quello negativo. La nostra proposta viola o modifica le disposizioni statutarie? O invece essa non viene forse ad integrare disposizioni statutarie?

Nessun articolo dello Statuto è violato. Gli articoli dello Statuto che hanno attinenza con la questione concernono le prerogative del Potere esecutivo. Ora queste prerogative non sono violate. Nulla è tolto al Potere esecutivo, al quale rimane la facoltà di convocare, prorogare e sciogliere la Camera. Né si viola la prerogativa del Senato, perché si tratta di sedute della Camera e non di sessioni: la Camera può sedere mentre il Senato non siede, purché sia contemporanea la sessione. Anche sotto questo aspetto dunque non si viola alcuna disposizione statutaria. Invece credo che la nostra proposta venga ad integrare le facoltà assegnate dallo Statuto alla Camera. Lo Statuto parla d’iniziativa della Camera per la proposizione delle leggi, la messa in stato d’accusa dei ministri, ecc.. Ora l’iniziativa delle leggi viene proprio dalle commissioni permanenti.

Che cosa avverrebbe se le commissioni che propongono le leggi non potessero far sì che queste venissero immediatamente discusse, sol perché il Governo tiene a casa la Camera? Inoltre la Camera ha facoltà di aggiornarsi, e quindi la stessa modificazione del regolamento non viene a dare che una configurazione più speciale a questa facoltà di iniziativa della Camera. In questo momento in cui si svolgono avvenimenti nazionali e internazionali per i quali vi è bisogno che la Camera funzioni almeno in potenza, dopo che si è deplorato che si siano verificati avvenimenti senza l’assistenza e il parere della Camera, non dubito che la maggioranza voterà questo articolo aggiuntivo, perché mi pare che esso venga veramente a rendere effettiva la funzione ed il diritto della Camera ed a sancire nel regolamento ciò che lo Statuto consente o almeno non proibisce, senza toccare neppure i privilegi del Senato e del Potere esecutivo».

Il Governo, attraverso il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Porzio, dichiarò trattarsi di questioni devolute esclusivamente alla volontà ed al valutazione dell’Assemblea, e che per ciò non aveva alcuna dichiarazione da fare ma si affidava alla Camera.

Nella seconda tornata della Camera dei deputati del 6 agosto 1920, vennero discusse le proposte della Giunta del regolamento, relative all’autoconvocazione delle commissioni permanenti e della Camera. L’art. 10 riguardava più specificamente la convocazione dell’Aula attraverso la richiesta congiunta di cinque commissioni permanenti.

Giolitti: «Parlo non come Presidente del Consiglio, perché in materia di regolamento della Camera, è la Camera che delibera, ma come semplice deputato. Credo che occorra riflettere molto prima di capovolgere il sistema parlamentare[1]. Ora il sistema parlamentare è di deliberazioni a maggioranza; e noi qui veniamo a capovolgerlo stabilendo che una minoranza ordini alla maggioranza ciò che essa crede di sua convenienza (Commenti). È la verità! Ripeto: questa è la mia opinione personale come deputato, non come Presidente del Consiglio; ma credo che occorra andare molto adagio prima di trasformare sostanzialmente, profondamente, gli ordinamenti parlamentari (ApprovazioniCommenti all’estrema sinistra)».

Modigliani: «Evidentemente io non posso svestirmi talmente delle mie opinioni personali da rispondere sulle proposte che sono state formulate. Alcune di queste sono le stesse precise proposte che non ho avuto la fortuna di vedere approvate dalla Giunta del regolamento; e mi vedo quindi costretto a pregare alcuno degli altri colleghi della Giunta a rispondere ai loro proponenti[2]. Profitto però del diritto di parlare per far osservare all’onorevole Giolitti che la questione è stata posta da lui, me lo consenta, in modo non perfettamente esatto. Non si tratta di consentire a una minoranza il diritto di sovrapporsi alla maggioranza; si tratta di consentire alla minoranza il diritto di far sentire la propria opinione e di sottoporla alla decisione della maggioranza, ogni qualvolta questa minoranza sia tanto notevole da doverle riconoscere questo diritto: potendosi presumere, dato il numero dei richiedenti la convocazione, che ci sia qualcosa che merita di essere sentita. Non si capovolge dunque l’Istituto parlamentare: lo si rende efficiente in tutti i casi nei quali questa sua efficienza appare doverosa e necessaria allo stesso corretto funzionamento dell’Istituto parlamentare (Approvazioni all’estrema sinistraCommenti)».

Giolitti: «Mi permetta, onorevole Modigliani, di osservare che se la maggioranza ha deliberato di riunirsi in un dato giorno e la minoranza invece le impone di convocarsi in un tempo diverso, si ha una sovrapposizione all’ordine dato dalla maggioranza [Modigliani: «Ma bisogna che fatti nuovi siano intervenuti!»]. Aggiungo che quando la minoranza esprime un desiderio che non trova consenziente la maggioranza dei deputati, vuol dire che la convocazione non è voluta dalla maggioranza. La maggioranza della Camera, senza aspettare il beneplacito del Governo, ha il diritto di convocarsi, ma delibera come maggioranza e non come minoranza. La revoca, da parte della minoranza, dell’ordine dato dalla maggioranza, obbliga quest’ultima a convocarsi quando invece non voleva riunirsi».

Matteotti: «La nostra[3] domanda di convocazione richiede la firma di 200 deputati: è una cifra rilevante, ed impedisce che un solo gruppo possa chiedere la convocazione della Camera, ma esige invece che su questa richiesta convengano le volontà di un numero abbastanza forte di deputati; 200 deputati, è quasi come dire la maggioranza della Camera. Le votazioni si affermano con una maggioranza che non è mai di 200 deputati[4], e 200 deputati che dimostrino una tale attività, rappresentano già virtualmente la maggioranza della Camera. In secondo luogo, quando l’onorevole Giolitti viene a dire che la minoranza verrebbe così a sovrapporsi alla volontà della maggioranza, dice una cosa, apparentemente giusta, ma sostanzialmente inesatta, perché tra la deliberazione di aggiornamento e la domanda sottoscritta da 200 deputati sarà trascorso del tempo, saranno avvenute circostanze tali da far chiedere la convocazione della Camera.

Tali circostanze nuove saranno fatti nuovi, che determinano questi 200 deputati a domandare la convocazione della Camera. Osservo poi, con l’onorevole Gallani, che la nostra proposta non è nuova. I consigli comunali si convocano su domanda di un terzo dei consiglieri[5], e si dice appunto un terzo perché non si vuole che sia la sola minoranza. Perciò noi non abbiamo proposto il numero di 150 deputati, quanti sono i deputati socialisti, ma bensì di 200. Se la maggioranza non vuole lasciarsi convocare, non ha che da non intervenire nella seduta provocata dalla richiesta di 200 deputati (CommentiInterruzioni).

Non c’è quindi nessuna soppressione della volontà della maggioranza, ma la sensibilità di 200 deputati i quali domandano la convocazione della Camera, in nome degli interessi del paese. Se gli altri deputati sentiranno egualmente questo bisogno, è naturale che interverranno alla seduta e la riunione avrà luogo utilmente. Ma 200 deputati non si sovrappongono a nessuna maggioranza; manifestano soltanto questa valutazione di una considerevole parte della rappresentanza nazionale».

Ruini: «L’onorevole relatore della Giunta ha già ricordato che ci troviamo di fronte ad una deliberazione alla quale non si oppose il rappresentante del Governo. La Camera cioè, in una seduta mattutina, affermò all’unanimità il suo diritto di autoconvocazione e demandò alla Giunta del regolamento di formulare una precisa proposta al riguardo. Noi questa proposta abbiamo ora dinanzi. Il relatore onorevole Modigliani ha accennato ad un dissidio in seno alla Giunta, dissidio che è stato nelle sue ultime parole adombrato nel concetto contemperato di un primo passo. Nella formula che ora ci è sottoposta, (io faccio mie le sue parole) è appunto il primo passo, lasciando poi all’avvenire di andare ancora più in là, se questo esperimento costituzionale darà, come io credo, buoni risultati. Nella seduta della Camera in cui fu presa questa deliberazione, io parlai a favore dell’autoconvocazione e non ho nulla d modificare a quello che dissi allora.

Sembra a me che in un momento come questo, in cui stiamo per abolire l’articolo 5 dello Statuto, in cui abbiamo, col nuovo istituto dei gruppi diventati uffici, introdotto nel funzionamento della Camera una modificazione di cui forse ancora non sappiamo valutare tutta la portata, sembra a me che in un momento in cui è necessario valorizzare il Parlamento e dare la sensazione che esso non si rifiuta ad alcuna democratizzazione dei suoi istituti, degli istituti fondamentali dello Stato, questo diritto di autoconvocazione debba essere affermato. La proposta che ora fa la Giunta all’articolo 10 concerne appunto il volere della maggioranza. Perché vero è che su 130 deputati, che costituiscono le cinque commissioni, basta la maggioranza assoluta dei deputati iscritti, cioè 66 deputati; ma bisogna tener conto che questi sono i rappresentanti dei gruppi.

Quindi è necessario che i gruppi diano questo mandato in maggioranza, perché la Camera sia convocata. E quindi nessun dubbio può esservi che questa formula (per quanto possa aver ragione l’amico Turati che difficilmente sarà attuata) rappresenti il volere della maggioranza. È stata qui dall’onorevole Turati e da altri prospettata l’altra ipotesi di non riconoscere il congegno delle commissioni e di accontentarsi della richiesta di un dato numero di deputati. Qui vi è disparità. È stato proposto in sostanza che potrebbero bastare i due quinti dell’Assemblea, cioè 200 deputati. Io osservo che in altri paesi si richiede un numero molto maggiore. In Francia occorrono i due terzi[6]. Signori vogliamo realizzare questa riforma? Vogliamo fare questo passo che ha una importanza grandissima? E allora dovremmo, per fare una proposta concreta, non limitarci per ora all’ipotesi dell’articolo 10, e prospettarne un’altra, cioè che vi sia la richiesta della metà più uno dei deputati in carica. In questo modo il principio della maggioranza è rispettato. Invece di 200 deputati, saranno 230 o 240, perché non tutti i deputati sono in carica. Così possiamo concordemente affermare questo principio e fare questo primo passo, secondo le idee che l’onorevole Modigliani ha esposto nel concludere le sue parole, come relatore. Quindi faccio formale proposta che all’articolo 10 si aggiunga un comma, il quale stabilisca che il diritto di autoconvocazione si esercita anche quando la convocazione sia richiesta al Presidente dalla metà più uno dei deputati in carica».

Dopo che venne respinto anche un emendamento Matteotti – Turati, venne approvato (l’articolo 10 proposto dalla Giunta, con) l’emendamento Ruini nel seguente testo:

“Il diritto di autoconvocazione si esercita anche quando la convocazione è richiesta al Presidente dalla metà più uno dei deputati in carica”.

 

Gli strumenti della politica – i rapporti tra poteri

Il 21 luglio 1921[7], durante la discussione sulla fiducia al Governo Bonomi, Matteotti illustrò il seguente ordine del giorno:

La Camera richiama il Governo al dovere di difendere l’interesse dei lavoratori contro l’assalto delle singole categorie, speculatori e profittatori della guerra, che cercano di scaricare sulla nazione tutte le più gravi conseguenze della guerra”.

Matteotti: «Il presidente del Consiglio ha riconosciuto nel suo discorso che “la situazione economica e finanziaria del paese deve costituire la massima preoccupazione del Governo” e che, su questo punto, il Governo doveva manifestare alla Camera i suoi propositi. Senonché, chi legga più innanzi nel documento governativo, trova che manca alcun programma, a meno che per programma finanziario del Governo non debba intendersi quello che si riassume nei due capitoli della nominatività e dei sopraprofitti, condannati a morte o all’ergastolo. In attesa della esposizione finanziaria dell’onorevole De Nava, l’onorevole Bonomi avrebbe dovuto dirci almeno quale sia la situazione, così che al paese fosse data l’esatta impressione e la misura dei doveri, dei sacrifici da compiere.

Oggi il debito italiano è di 107 miliardi dei quali dodici, o quasi, sono da accollarsi a quella amministrazione Giolitti che si è vantata di aver ridotto il disavanzo da 14 a 4 miliardi. L’anno Giolitti 1920-21 ha regalato anzi alla patria un debito nella forma più pericolosa, e fluttuante, di buoni del tesoro. Tanto più che dei 25 miliardi e più di buoni del tesoro cui oggi siamo arrivati, cifra, credo, che non avevamo mai raggiunta, 19 miliardi sono, buoni ordinari, cioè con scadenza entro l’anno. Non ripeteremo inoltre che i 107 miliardi sono nominali; poiché se convertissimo i 20 miliardi di lire oro dovute all’estero nella realtà della carta italiana, la somma salirebbe assai, e per quanto le vostre speranze possano essere grandi sulle riparazioni estere, queste non saranno mai superiori, come la Germania ha comunicato, in molti anni, a 13 miliardi di marchi oro.

Ricorderemo invece che ai miliardi di debito dello Stato, bisogna aggiungere i molti degli enti locali e opere pie che spesso sono dimenticati, ma che certamente fanno parte del debito pubblico e negli ultimi anni sono aumentatissimi. In questa situazione così grave il Governo non ha nulla da dire; non ha che la nominatività e i sopraprofitti da attenuare. Non c’è null’altro da dire? Ma la questione è più profonda ancora. Bisogna ricercare una visione sintetica della nostra situazione; bisognerebbe, se l’Italia non fosse infetta dalla tabe giolittiana di governo, che vuol vedere le cose giorno per giorno, bisognerebbe risalire alla sintesi, alle origini. La guerra e il periodo immediatamente dopo la guerra, che né è la sua immediata filiazione, hanno determinato due movimenti essenziali di spostamento della ricchezza nel paese. In questo doppio movimento la vittima principale non è stata la ricchezza privata.

La ricchezza privata, all’infuori delle disgraziate terre liberate e all’infuori di quelle molte migliaia di sventurati, mutilati, vedove, orfani, che hanno avuto veramente distrutta la ricchezza della loro esistenza, all’infuori di queste due categorie la ricchezza privata non ha subito danno dalla guerra. La ricchezza privata ha sostituito, forse, delle forme di beni, che aveva, con dei titoli di carta dallo Stato; ma ad ogni modo, come privato, il privato non ha perduto nulla. La sola che è diminuita, la sola che ha sofferto enormi danni è la ricchezza collettiva, la ricchezza dello Stato, la ricchezza della nazione come ente a sé, superiore alla somma dei privati. E quella è stata distrutta. Quanto agli spostamenti della ricchezza, che cosa è avvenuto ancora?

Che la ricchezza si è spostata in gran parte dai ceti rentiers, come dice la parola straniera, ai ceti speculatori, così che mentre la ricchezza collettiva diminuiva, una parte della ricchezza privata si spostava e presso alcuni aumentava, in parte fittiziamente, ma in parte anche realmente; cioè, mentre lo Stato e la collettività sacrificavano e perdevano per la patria, ci sono ceti che guadagnavano o, per lo meno, mantenevano, la loro ricchezza, di fronte all’enorme numero di coloro che combattendo, specialmente della classe lavoratrice, hanno dato alla patria la ricchezza della loro vita, la ricchezza delle loro esistenze. E allora, di fronte a questo spettacolo, che l’anima popolare non ha considerato nelle cifre ma ha intuito, è venuta la richiesta di provvedimenti, i quali compensassero questo danno, i quali ridonassero alla collettività quello che i privati in parte le avevano preso, quello che era stato distrutto. Di qui le idee fondamentali di quei due provvedimenti, che ebbero sotto l’onorevole Nitti il nome di imposta patrimoniale e sotto l’onorevole Giolitti il nome di confisca dei sopraprofitti di guerra.

Bisognava, cioè, togliere alla ricchezza privata aumentata, sia pure anche fittiziamente per il valore nominale della moneta, per ricostituire la ricchezza collettiva distrutta. Bisognava ai profittatori, agli arricchiti di guerra togliere il profitto di congiuntura, per ridare alla nazione i mezzi per ricostituire sé stessa. Questo era il fondamento morale e giuridico delle due imposte, che si erano studiate e volute. Ma mettete la migliore anima, mettete il migliore concetto in mano di chi non lo sente o non lo vuole applicare, mettetelo in mano di chi rappresenta in gran parte gli interessi medesimi, che da quel provvedimento sarebbero lesi, e avrete la distruzione letterale di quella legge e di quei provvedimenti, che dovevano ricostituire la ricchezza nazionale. Il Ministero Nitti ad esempio annunziò il prestito forzoso. Intervennero immediatamente i grandi rappresentanti delle banche e, in sedute memorabili qui a Roma, il Ministero fu indotto a rinunziare a quel prestito forzoso, che doveva ridonare alla nazione parte della sua ricchezza. E si arrivò all’imposta patrimoniale, che di patrimoniale non conservava che il titolo, non conservava che il rapporto in quanto era commisurato al patrimonio; ma anziché pagarsi col patrimonio, diveniva un’imposta da pagarsi col reddito: perdendo così il suo carattere di espropriazione della ricchezza privata, a favore della collettiva. Analogamente per i sopraprofitti di guerra, noi predicemmo da questi banchi l’anno scorso, quando appoggiammo la legge Giolitti sui sopraprofitti di guerra, che essa non sarebbe stata attuata.

La legge sui sopraprofitti di guerra non era che un annunzio demagogico, che Giolitti lanciava all’Italia, non poteva essere una realtà, in mano vostra. Certamente, quando si dice: “l’industria non può pagare i sopraprofitti, le aziende industriali si chiudono” e vengono le commissioni dal Governo e dimostrano i loro bilanci attivo e passivo, profitti e perdite, diminuzione dei prezzi, variazione nei costi delle materie prime ecc.: tutto ciò è vero. Se l’imposta sui sopraprofitti dovesse essere pagata non coi sopraprofitti del tempo di guerra, ma coi profitti del tempo di crisi, è logico che nessuno può pagare. Ma questo è un volgarissimo gioco! L’imposta sui sopraprofitti non voleva, non doveva essere l’imposta su quello che si guadagna in tempo di crisi, dove anzi dobbiamo scontare le conseguenze della guerra, ma doveva essere 1’imposta su quello che si era guadagnato nella congiuntura dipendente dalla guerra! […]

E quando l’onorevole Presidente del Consiglio dice che nell’applicazione della legge “non si dovrà prescindere dalla realtà dei fatti economici sopraggiunti” afferma una cosa che contraddice allo spirito fondamentale della legge sui sopraprofitti. Perché non si dovrebbe pagare sui fatti economici sopraggiunti, ma su quelli che si sono svolti allora! Non dico con questo che l’onorevole Bonomi sia peggiore dell’onorevole Giolitti, o ne voglia abolire una buona legge; tutt’altro! Siamo perfettamente convinti che Giolitti avrebbe fatto altrettanto, e solo più furbescamente. Infatti l’onorevole Giolitti continuò per lungo tempo a far finta di fare regolamenti, a far finta di lasciar fare gli accertamenti (si dice anzi che Ansaldo, per esempio, non li abbia ancora fatti!), ma certo l’onorevole Giolitti non ha concluso nulla di positivo. Anzi, quando egli ha abbandonato il Governo e poi ha insistito a non voler tornare, non fu certo per coerenza o per altezza, di uomo politico, ma per un’altra di quelle vergognose fughe del Governo che deliziano la storia dei governi dell’onorevole Giolitti.

Certi profittatori industriali erano ben abituati; durante la guerra essi pagavano le imposte normali sui profitti di guerra, non sui profitti, ma con la cassa dello Stato, perché ogni qualvolta lo Stato tassava, essi aumentavano i prezzi delle forniture. Così allora naturalmente pagavano e non protestavano! Protestano oggi perché realmente dovrebbero pagare del proprio! Ma la nazione deve sapere anche che la legge che si vuol oggi abolire, non è una legge che colpisca menomamente i piccoli proprietari o le piccole aziende, perché essendo queste esentate per la parte del sopraprofitto che sorpassa le 20.000 lire annue, oltre il profitto ordinario dell’8% non restano colpiti che coloro i quali durante la guerra guadagnarono centinaia di migliaia e centinaia di milioni di lire.

Ed è, purtroppo, quindi soltanto di costoro, onorevole Bonomi, che si preoccupa il vostro programma finanziario. Ah, lo so! Gli industriali dicono; non è per noi, è per quei poveri operai! (Commenti e rumori all’estrema destra) Perché tutto quello che fanno loro, lo fanno per i poveri operai, e quando si presentano al Governo si portano spesso dietro, legato alla catena, qualche miserello operaio che va a domandare che si tengano aperti gli stabilimenti. A questo la briciola, a loro il grosso pasto (Rumori all’estrema destra).

E passo ad un altro argomento… per non pestare, sembra, troppi interessati [Tofani: «Parli dell’aumento del valore delle sue terre!»]. Questo aumento dipende in gran parte da quell’artificio protezionistico che io qui combatto. Se la somma di distribuzione o di diminuzione della ricchezza pubblica collettiva italiana fosse cessata con la guerra o nell’immediato dopo guerra, se la cifra del debito si fosse cristallizzata in quella somma, beneficando oggi del diminuito valore della moneta (non so domani cosa succederebbe in un crollo generale dei valori: il debito dello Stato diventerebbe pericolossissimo in proporzione!), se, dico, la cifra fosse cristallizzata, il pericolo non sarebbe poi tanto grave; ma il male è che lo Stato italiano, di cui l’onorevole Giolitti è tipicamente rappresentante, anche quando è Presidente del Consiglio l’onorevole Bonomi, lo Stato continua a vivere distruggendo la ricchezza pubblica.

Questa è la condizione di oggi in Italia: c’è il disavanzo cronico, che si copre sempre con nuovi debiti, i quali debiti sono diminuzione della ricchezza della nazione, e gravano sulla vita nazionale anche dopo cessate le spese straordinarie di guerra! La nazione vive, cioè, distruggendo la tessitura, le fibre medesime della sua esistenza. L’onorevole Giolitti ha annunziato di aver ridotto il disavanzo da 14 a 4 miliardi: è un millantato credito del quale all’estero gli si potrebbe fare il processo; è una vanteria grandemente inesatta, degna del vergognoso sistema introdotto dell’onorevole Giolitti!

Ho già detto che durante il governo di Giolitti il debito è aumentato da 10 a 12 miliardi; e quanto ai bilanci da venire, al 1921-22 per lo meno, ancora è falso quel conto. Intanto il disavanzo del bilancio 1921-22 non era previsto in 14 miliardi, bensì in 10 miliardi. Togliete i 6 miliardi del conto pane, che si è estinto sì, in virtù della legge, ma che si sarebbe estinto ugualmente per la diminuzione dei costi all’estero, così che, se oggi fosse tolta quella bardatura pane conservata mediante un decreto Soleri, decreto illegale e che spero la Corte dei conti vorrà non registrare! (Voci: Li registra tutti la Corte dei conti!) [Soleri, Ministro delle finanze: «E allora si pagherà di più il pane!»].

Non credo; certamente invece si pagheranno gli agrari per tenere alto il valore di quelle terre di cui parlava l’onorevole Tofani! Tolti dunque i 6 miliardi, restano 4; ma i dieci come i quattro rappresentano una illusione. Anzitutto tra le entrate sono malamente comprese le centinaia di milioni, anzi i miliardi di recuperi, di riparazioni, di vendite di materiale di guerra, i quali entrano nel bilancio ordinario annuale per comodo del Governo del momento, ma non già per la nazione! Sono quelli che dovrebbero scontare il debito estero dei miliardi in oro. Se invece li mettete dentro il bilancio ordinario, quando sarà il momento di fare i conti, vi troverete ancora col debito, e nulla più della contro-partita. Non basta. L’onorevole Giolitti ha fatto il suo conto molto comodamente: col massimo di quello che ha incassato fino al 30 giugno, e col minimo di quello che dovrebbe spendere senza gli ultimi fatti, necessità e provvedimenti!

Egli ha già impegnato il bilancio per un aumento agli impiegati (poiché qualunque sia la decisione in proposito, esso si risolverà almeno inizialmente con un aumento di stipendi, e di indennità) e non computa però nel bilancio il corrispondente nuovo carico, di forse qualche centinaio di milioni. Poi vi è l’interesse dei nuovi prestiti, dei nuovi buoni che non è contemplato in bilancio; perché noi siamo abituati in Italia a presentare così i nostri bilanci, sulla base di quello che avveniva un anno prima che il bilancio entri in funzione [De Nava: «Vi sono 400 milioni in aumento nel bilancio»]. Ma non sono sufficienti, onorevole De Nava. È sempre la stessa storia! Se il bilancio fosse, come dovrebbe essere, una previsione, allora si provvederebbe sufficientemente. Ma voi fate la politica dello struzzo: nascondete la testa sotto le ali per non vedere!

E poi avete promesso, speriamo che non lo manteniate, centinaia di milioni alla marina mercantile. Il minimo dell’onorevole Alessio era di 250 milioni; ma l’appetito dell’onorevole Celesia arriva a 850 milioni, e non si sa quali altri appetiti vi saranno. Certo di centinaia di milioni. E anche questi non sono, computati. Poi le pensioni di guerra che aumentano e che cogli aumenti annunziati trovano stanziamenti insufficienti. […] Non parliamo poi delle ferrovie. Fra diminuzione di redditi e aumento di spese, nessuno di noi saprebbe precisare dove potremo arrivare in questa materia. […] Altre spese porterà la crisi e la disoccupazione. E i servizi pubblici? Gli stanziamenti in bilancio possono bastare, sì, ma a patto che i servizi pubblici non si facciano.

E lo Stato italiano non ha scuole, non ha maestri sufficienti; le poste e i telegrafi non funzionano; mancano le strade. In questo modo si possono forse avvicinare le cifre del bilancio, ma si nega all’Italia e al suo popolo quel minimo di civiltà che sarebbe necessario. Tutto calcolato, senza scendere a dettagli, le spese effettive non si possono oramai ridurre al disotto di una certa cifra altissima, di fronte alla quale non abbiamo che 10 miliardi e 900 milioni di imposte per il 1920-21…[De Nava: «Dodici miliardi e mezzo»].

Somma che voi avete realizzato, ma che probabilmente non vedrete mai più, perché, se le imposte hanno raggiunto i 10 miliardi e 900 milioni, oggi tendono inevitabilmente a diminuire. Nei mesi di maggio e giugno le imposte sugli affari e sul consumo, che rappresentano il più sensibile termometro dell’economia italiana, sono già diminuite di qualche decina di milioni. L’importazione e l’esportazione danno delle cifre tremende, onorevole De Nava, e lei lo sa, e se ne preoccupa certamente più di me [De Nava: «Moltissimo. È la più grande preoccupazione»]. Nel mese di maggio, perché non ho i dati per il mese di giugno, che non credo siano giunti nemmeno al Ministero, nel mese di maggio le cifre rappresentano un vero crollo nell’importazione e nell’esportazione. […] Tutti i segni, sono segni di crisi; segni di un tempo in cui la ricchezza che può essere colpita dall’imposta, diminuisce.

Quanto alle imposte dirette, già tutti i contributi eccezionali di guerra tendono a sparire; e insieme ad essi purtroppo anche alcuni altri annunciati dall’onorevole Bonomi, per gli impegni che il Governo ha preso recentemente, nella sua formazione, con gli industriali, attraverso il timbro dell’onorevole Belotti. E allora il disavanzo non è più di 4 miliardi. Credo che nessun membro del Governo voglia fermarsi a questa cifra. Certo il disavanzo sale per me, col valore attuale della moneta, dagli otto ai dieci miliardi. Le cifre sono molto ipotetiche certamente, la realtà la vedremo. In ogni caso le previsioni non sono liete né per la nostra finanza né per la nostra economia, e l’onorevole Bonomi non si propone rimedi. Anzi, quanto alla legge Meda, non so se l’onorevole Bonomi mantenga quelle parole molto gravi che l’onorevole Facta, rappresentante del solito sistema giolittiano, ha detto alla Commissione del Tesoro, e cioè che l’imposta Meda non si applica più non già, come c’è stato dato ad intendere qui dentro vergognosamente l’anno scorso, perché non sono pronti gli strumenti di accertamento, ma perché certi ceti la “ritengono un aggravio per la propria ricchezza”.

Quali sono codesti ceti? Sono i ceti di coloro che hanno grandi fortune e che non vogliono pagare l’imposta progressiva complementare; di coloro che sfuggono agli accertamenti col sistema di imposte mal fatte; sono specialmente gli agrari conduttori dei loro terreni, i grandi proprietari di miniere di zolfo o delle grandi tonnare, i quali non pagano un solo centesimo di ricchezza mobile allo Stato, mentre tutti i più miseri impiegati pagano pure la loro ricchezza mobile! Non applicare l’imposta Meda vuol dire cedere alle insistenze di codesti ceti capitalistici i quali non vogliono pagare il loro contributo allo Stato. La nominatività dei titoli è un altro pallone sgonfiato di cui parla l’onorevole Bonomi. L’onorevole Giolitti aveva quasi perso per istrada la nominatività dei titoli pubblici; l’onorevole Bonomi compie il resto, e abbandona la nominatività dei titoli privati. Anche qui accade precisamente quello che noi prevedemmo, noi distruttori della finanza dello Stato, noi che non capiamo nulla, noi avversari della nazione ecc., un anno fa: la nominatività dei titoli non è possibile in uno Stato capitalistico.

Dicemmo qui l’anno scorso che non era possibile applicare là nominatività dei titoli per le ragioni, tante volte ripetute, del capitale che dall’estero non verrebbe in Italia, del capitale che dall’Italia fuggirebbe, dei prestiti pubblici che non si potrebbero più lanciare, ecc.. Noi vi dicemmo l’anno scorso: una sola maniera vi è di applicare la nominatività dei titoli; fate un censimento di tutta la ricchezza privata in giorni determinati (è stato tentato anche altrove), stampigliando tutti i titoli pubblici. Questo solo potevate realmente fare come restaurazione della pubblica finanza ed economia, e anche per sgonfiare la ricchezza fittizia della guerra; ma per lasciare libertà subito di poi, non potendosi pretendere di avere la nominatività dei titoli in regime capitalistico, se non estinguendo le fonti medesime della ricchezza capitalistica, dalla quale trae potenza e forza il vostro Stato. E siamo stati facili profeti. Noi l’approvammo per non farci giocare dalla demagogia di quel grande demagogo che è l’onorevole Giolitti! E allora, onorevole Bonomi, dove sono le vostre visioni finanziarie? O siete anche voi della scuola dell’onorevole Giolitti?

Questo è il nostro dubbio: che voi cerchiate di vivere, giorno per giorno, incurante se domani farà buono o cattivo tempo, se qualcuno verrà a chiedere dei milioni, purché si viva, finché si può vivere, fino al giorno in cui la nazione si sveglierà più vicina al disastro. Voi dite che volete considerare soprattutto l’economia della nazione, e avete detto che le finanze devono essere messe in rapporto con l’economia della nazione perché questa influisce su quelle. Fosse vero! Sentiste davvero così profondamente! Anzi nel vostro discorso, avete qualche parola veramente buona là dove dite che la crisi va combattuta con l’esecuzione di opere pubbliche, le quali creano una maggiore ricchezza e condizioni migliori di lavoro ecc. ecc.. Ottime parole senza dubbio che contrastano col vostro buddismo di qualche tempo fa, quando eravate ministro di Giolitti.

Speriamo che essendo diventato Presidente del Consiglio dei ministri siate mutato. Ottime parole se attuate con ardore, con costanza e con fede; ma di voi dicono che siete un uomo debole. La funzione dello Stato, in questo momento, dovrebbe essere quella, ripeto, di ricostruire la ricchezza pubblica danneggiata dalla guerra, ma temiamo e prevediamo, nei fatti, il contrario. La crisi, anche qui avete ragione, è in gran parte determinata dall’economia fittizia di guerra e del dopo guerra, dal ribasso dei prezzi, dalla restrizione dei consumi, dal sotto costo, ecc.. Mentre alcun tempo fa tutti i ceti erano all’assalto degli alti prezzi, oggi accade l’inverso: tutti i ceti cercano di sfuggire alla crisi. Una lotta furibonda si è scatenata presso di noi come negli Stati esteri. Ogni categoria cerca di non subire la crisi, e di ricacciarla sull’altra categoria, industriali su grossisti, grossisti sui rivenditori, rivenditori sui mediatori, e così via. È una lotta furibonda di tutti gli strati, della quale purtroppo l’ultimo strato non risente che l’ultima conseguenza, quando viene a pagarsi il consumo, quando resta sul lastrico, perché le fabbriche si chiudono, quando ne diviene l’ultima vittima.

Le categorie in conflitto trovano però talvolta anche il modo di accomodarsi tra di loro, facendo pagare allo Stato, alla nazione il prezzo del loro mercato vergognoso onde poter sfuggire alla crisi! Eccoli: tutti all’arrembaggio, tutti all’assalto, tutti nei vostri gabinetti! Vengono tutte le categorie, le più scaltre, vengono gli armatori, gli agrari, gli zolfieri, gli industriali di tutte le specie, e sono tutti all’assalto dello Stato, delle casse della nazione, tutti questi patrioti che ieri hanno speculato sulla guerra, che oggi vogliono speculare sulla crisi, e farla pagare alla nazione. È questo forse il disastro più grave, la vergogna più grande, che si sta preparando ai danni dell’Italia. Lo Stato non ha un suo programma, non ci dice niente, ma da ciò è appunto il peggiore programma, giolittiano, quello cioè di cedere giorno per giorno alle categorie che con maggior scaltrezza e con più forza vanno all’assalto. I nostri governanti non voglio avere principi. Dicono: noi siamo qui come la Croce Rossa, mi pare che sia anche questa una frase dell’onorevole Bonomi, che raccoglie i feriti lungo la strada.

Ma invece è molto tragico non avere principi, poiché non i feriti si raccolgono, ma si subisce l’assalto di tutti i banditi che vogliono il danno della nazione. Veramente c’è qui una parte della Camera che ha professato una teoria in proposito. La destra, per bocca dei suoi rappresentanti maggiori, ha detto che essa vuole sgomberare lo Stato da tutte le funzioni, che lo vuole ridotto alla funzione di sicurezza interna ed esterna, perché gli interventi economici dello Stato sono essenzialmente dannosi, creano la burocrazia, danneggiano la nazione. Bellissima teoria. Peccato che la destra la voglia applicare soltanto quando le provvidenze dello Stato sono a favore delle classi lavoratrici; ma quando esse provvidenze dello Stato si reclamano a favore degli speculatori, allora gli uomini della destra sono i primi all’assalto dello Stato! Infatti, per esempio, quando si tratta degli armatori, si presenta il più giovane degli uomini di destra, il più baldo dei fascisti, l’onorevole Celesia, il segretario dell’onorevole Salandra… [Celesia: «Me ne onoro!»].

Non ve ne onoravate la sera avanti dell’assunzione dell’onorevole Giolitti, quando, per paura, rinnegavate ogni vostra corresponsabilità con tutto ciò che aveva fatto il Gabinetto Salandra, e scaricavate la colpa sugli altri! […] Quando si tratta degli armatori, ai quali, con la cessazione della legge De Nava viene a cessare la biada dello Stato, l’onorevole Celesia si presenta e in nome del… non intervento dello Stato nella economia… […] si presenta l’onorevole Celesia e domanda: “noi avevamo la legge De Nava, ma abbiamo anche iniziati degli altri bastimenti, perché speravamo di guadagnarci molto…” [Celesia: «Non l’ho detto questo!»]. Si capisce! (Viva ilarità) [Celesia: «Non conosce la questione. La tratta con argomenti demagogici»]. “Ci sono sullo scalo delle navi che abbiamo iniziato, sperando di speculare e di guadagnarci, perché lo Stato italiano, bono taliano!, paga molto e i noli e le costruzioni.

Oggi invece è sopravvenuta la crisi; quei maledetti inglesi ed americani vendono a rotta di collo, e noi ci perdiamo. Possibile mai che ci possano perdere gli armatori, una categoria così patriotticamente benemerita dello Stato?! È mai possibile che uomini così disinteressati, che durante la guerra hanno dato tutte le loro navi alla nazione gratis, è mai possibile che essi, che hanno reso tanti servizi alla nazione, abbiano a perdere? No! E chi deve pagare? Pantalone! Deve pagare la nazione. Anzi lo Stato, per ognuna delle navi che abbiamo in cantiere, ci paghi più di quanto spenderebbe per comprarsele nuove per conto suo!…[8]”. Codesta è l’onestà, codesto è il non intervento dei destri!… Volevo ben dire che anche l’onorevole Coda non protestasse!…[Coda: «… in difesa della verità!»]. […] So di certi cantieri (ne tengano nota i signori del Governo!) nei quali, scadendo il 30 giugno, e avendosi speranza sì nel vecchio che nel nuovo Gabinetto, si sono presi tre pezzi di lamiera, e vi si è scritto sopra “Navi nuove in fabbricazione”. E su quelli si aspetta di succhiare i milioni dello Stato! (Voci all’estrema destra: I nomi!).

Perché protestate tanto? Siete forse voi quelli delle lamiere? E potremo fare anche i nomi. “Non intervento dello Stato” ma “libertà” gridava anche tre o quattro mesi fa quella più sinistra propagine della destra che si chiama l’Agraria. […] Ebbene, quando i prezzi erano alti, quando il frumento costava caro, allora gli agrari gridavano libertà. Ma è bastato che i prezzi dell’estero diminuissero, perché prendessero per il cravattino l’onorevole Soleri! […] L’onorevole Soleri dice, anticipando il ragionamento con la solita acutezza, che i prezzi erano già fissati l’anno scorso. Richiamo l’onorevole Soleri al rispetto della legge, perché il decreto diceva: questi sono i massimi prezzi. Non dice in nessuna parte che lo Stato abbia l’obbligo di requisire a quei prezzi! [Soleri, Ministro delle finanze: «Questo sarebbe un argomento di mala fede, perché i prezzi massimi si riferiscono alla qualità del grano, nel senso che il grano che ha 78 chilogrammi di peso specifico è pagato 125; se è inferiore, il prezzo è pure inferiore.

Ma addurre questo argomento, contrario allo spirito di quel decreto quando fu fatto, sarebbe mala fede»]. Rispondo immediatamente. Anzitutto la lettera della legge dice precisamente prezzi massimi in genere e, senza dire a che scopo, e non parla di impegno dello Stato. Se poi lei si richiama allo spirito della legge, io mi ci richiamo anche di più. La legge, fu fatta per un tempo in cui il prezzo estero era maggiore, cioè fu fatta per dare un limite massimo contro gli agrari, e non perché dovesse rappresentare una garanzia di minimo per essi. […] L’onorevole collega che mi interrompe domanda che cosa costa produrre il frumento. Quando sui prodotti guadagnavate il triplo del costo, codesti conti non ce li facevate. Il fatto è che alla fine di giugno i prezzi erano discesi all’estero a cento lire o quasi, e a quel prezzo si sarebbe potuto importare e avere il pane al prezzo minore corrispondente. Poi è cresciuto il prezzo, e forse crescerà ancora per certi accaparramenti.

Se fossi in altra sede ne parlerei a lungo, perché la vostra legge si presta a tutte le frodi degli accaparratori a danno della collettività. Qui mi basta affermare che, mentre avete tanto protestato contro il prezzo politico del pane a favore delle classi lavoratrici, quando si presentò l’occasione di togliere la bardatura di guerra, la Commissione per i cereali (di cui, onorevole Soleri, non ci presenterete mai il conto!) allora invece l’avete voluta mantenere, ma inversamente, a favore degli agrari, per modo che il consumatore paghi ad essi i milioni o i miliardi di differenza, che li lasci salvi dalla crisi! Naturalmente gli industriali non sono secondi. Il mercato fra le due categorie continua in Italia; l’una protesta contro l’altra; ma tutt’e due cercano di frodare la nazione. Gli industriali hanno chiesto allo Stato 750 milioni che avranno. Perché? Forse per sviluppare nuovi lavori o industrie più vantaggiose alla nazione? Non credo, o per lo meno non sono state date garanzie.

Credo preferibilmente per mantenere lo stock nei magazzini, e cercare di sottrarsi alle conseguenze della crisi e al ribasso. Così il danaro è sottratto alle casse della nazione ai danni della nazione medesima. Non parliamo di quell’altra categoria che ha i suoi egregi rappresentanti ancora e sempre nella destra non interventista, non parliamo degli zolfieri, i quali sono anch’essi riuniti in consorzio, e con la scusa dei poveri carusi, domandano anch’essi 100 milioni per mantenere i depositi nei magazzini con la speranza di ostacolare i bassi prezzi, mentre evidentemente tutto all’estero ribassa precipitosamente in questa materia. Non parliamo di quelle benemerite categorie che sono i bieticoltori e gli zuccherieri, che per risolvere una questione di prezzi che era tra di loro, poiché al momento della crisi si trattava di vedere quali delle due categorie ci avrebbe rimesso, si conciliarono magnificamente avanti all’onorevole Soleri, perché misero tutto quanto il danno a carico della nazione. La nazione pagherà le sedici o diciassette lire al quintale per i bieticoltori in un momento in cui tutti gli altri prodotti concorrenti diminuiscono di prezzo, e continuerà a pagare il coefficiente riservato agli zuccherieri; più infine quegli altri margini che servono all’onorevole Soleri per tappare i buchi della sua gestione.

I consumatori possono stare allegri: cinquecentottanta lire al quintale, quando non più seicento ed ottocento, e quando all’estero si era arrivati (oltre le 214 lire di tassa fabbricazione) fino a 200 lire il quintale. Ma i consumatori, la classe innominata dei lavoratori consumatori, non va mai al gabinetto del ministro naturalmente; ci vanno le categorie interessate, per trafficare ai danni della nazione. Quando infine non c’è altra risorsa, c’è la tariffa doganale. L’avete vista? Tariffa in oro o in dollari d’oro anzi credo la applichino; ma non più soltanto quella della Commissione, poiché c’è un coefficiente di maggiorazione, nuova trappola burocratica imparata dalla Francia. Coefficiente di maggiorazione, che raddoppia o che aumenta della metà o di qualunque altra quota la tariffa e dà in mano al Governo, a quel Governo che così bene difende i consumatori e la nazione, la chiave per aumentare il danno dei consumatori, secondo la volontà delle classi speculatrici, per decreto.

Il Governo dell’onorevole Giolitti (parlo del Governo dell’onorevole Giolitti, perché se egli è assente, ha però sempre presenti i suoi metodi e i suoi uomini) aveva promesso di non far nulla per decreto, ma per decreto ha compromesso tutti gli interessi più vitali della nazione. Così i decreti commissariali sui consumi. Così i decreti sulle tariffe doganali, che sono stati pubblicati senza udire la commissione parlamentare, anzi senza neppure mai convocarla. Una sola volta appunto fummo convocati per una bagatella senza importanza. Ecco il rispetto per le commissioni e per il Parlamento! Quelle tariffe si combinano nel gabinetto del ministro, in contraddittorio fra i funzionari del ministero ed i grandi interessati, i grandi industriali, i grandi speculatori ed il fisco; unico assente il lavoratore, il consumatore! Non sono un professionista di liberismo come qualcuno dell’altra Camera, che poi, ad un certo momento sa anche tacere[9].

Non sono liberista di professione, e perciò dico che anche una tariffa alta potrebbe in determinati momenti giovare come arma di difesa contro altri Stati che oggi purtroppo, dopo la guerra di liberazione, elevando più alte che mai le barriere, credono così di superare la crisi. Comprendo cioè tariffa e coefficienti, se fosse per giocare in mezzo alle nazioni e per portarvi lo spirito nostro di libertà, perché anche in questo campo, come abbiamo tante volte invocato nel campo dell’internazionalismo politico, l’Italia si facesse campione, essa che ha tanta necessità di materie prime, essa che è tanto interessata alle larghissime importazioni, si facesse campione della libertà degli scambi; perché essa avvincesse le diverse nazioni in quest’opera che è opera profonda di pace, perché tanto più le nazioni saranno legate da interessi, tanto meno sentiranno la tentazione della guerra[10]. Ma in mano del Governo, con questi esempi, non c’è nulla da sperare.

Si preferirà anche nelle singole trattative il consiglio esclusivo degli industriali, rappresentati dagli onorevoli liberisti di destra, più i soliti capi di gabinetto o direttori generali ed il fisco: questo sarà il contraddittorio che si svolgerà; si porrà ancora una volta il sigillo del decreto, e la nazione e la Camera saranno informate a cose fatte, quando i danni saranno continuati e diventati massimi. Così tutti vanno all’assalto, così tutti vanno all’arrembaggio dello Stato, perché il Governo, non ha un programma. Un collega ha interrotto, e io mi sono [posto] per il primo la questione. Ci vanno anche dei lavoratori, è vero: ci vanno spesso accodati agli industriali a domandare la stessa cosa. Ci vanno purtroppo perché i poveri operai, che sono sotto lo stimolo immediato della chiusura dello stabilimento e della fame per le loro famiglie, è troppo naturale, troppo umano che vadano, e che credano di sollevare sé stessi da quell’imminente pericolo andando anche essi al ministero, chiudendosi in tal modo anche essi dentro questa maniera di concepire lo Stato.

È troppo naturale che ciò avvenga, ma anche per questo noi leviamo la nostra parola, perché queste categorie, le quali possono illudersi momentaneamente di aver fatto il proprio interesse, capiscano che spesso possono invece aggravare il danno di tutti i loro compagni, capiscano che la lotta cainesca, che in apparenza si svolge tra gli speculatori, in sostanza si rovescia sulla nazione, cioè sulla massa; perché capiscano gli operai che tutto ciò può andare proprio a danno loro, a danno di tutti i lavoratori, impiegati, professionisti, ecc.. Noi vogliamo illuminare gli operai su questo punto e, anche se ci fossero tra noi degli egoismi, essi dorranno essere eliminati. Noi sentiamo tutto questo. Ma comprendiamo anche quei lavoratori, che hanno davanti a sé lo spettro della fame. In certi casi si domanda loro un eroismo! Perciò anzitutto ci rivolgiamo qui dentro al Governo, a chi ha il dovere di difendere gli interessi della nazione! L’Italia ha bisogno di un Governo che sappia e che voglia.

Il paese non può ricostituirsi quando tende a mantenere o aumentare invece esclusivamente le fortune degli speculatori e dei profittatori. Bisogna ricostituire la ricchezza nazionale distrutta. E se vogliamo salvare la nostra economia, tutta l’economia fittizia di guerra deve cedere il posto ad una nuova economia, che aumenti realmente la ricchezza collettiva. Tutta qui è la questione fondamentale. Sono due le vie: o ricostituire la ricchezza nazionale anche a danno dei profittatori e degli speculatori, che durante la guerra e dopo hanno dissanguato la nazione, anche a danno di tutti gli egoismi; o invece sacrificare gli interessi della nazione a quelli degli speculatori, che sono all’arrembaggio dello Stato. Se voi continuate la tradizione giolittiana, che vive giorno per giorno cedendo ai singoli assalti dei più forti o dei più scaltri, allora non vi può essere concordia tra di noi, e non vi può essere nessuna specie, neppure la più lontana, di collaborazione[11]. Questo è il punto da decidere: o per la ricchezza nazionale al di sopra della speculazione privata; o per la speculazione privata contro la nazione. In questo crediamo, noi socialisti, di essere i veri rappresentanti della nazione».

Matteotti ebbe modo di pubblicare su la «Critica Sociale» del 16-31 marzo 1922[12], il seguente articolo:

«Alla Camera hanno deliberato di iniziare la discussione dei bilanci. Sono anni e anni che se ne parla, che si aspetta. Dalla guerra in qua si è proceduto di esercizio provvisorio in esercizio provvisorio; la Camera ha parlato di tutto e non si è concluso nulla; e tutti, fuori e dentro il Parlamento, hanno detto che le cose andavano male perché non si discutevano più i bilanci. Hanno detto che il Governo procedeva per decreti, perché la Camera non discuteva più i bilanci; hanno detto che la dittatura governativa dipendeva dalla incapacità funzionale del Parlamento. Peggio ancora: non si tratta solo della dittatura governativa sostituita al Potere legislativo parlamentare; ma, poiché a loro volta gli uomini di governo sono in gran parte mancanti di direttive politiche e deficienti di competenza tecnica, la dittatura sulla nazione è in effetto esercitata dall’alta burocrazia in parte, e, in parte ancora più effettiva, da gruppi ristretti e forti di interessi privati, che hanno l’abitudine e conoscono la via di imporsi ai diversi organi dello Stato.

Chi però pensa che tutto questo potrà cessare quando la Camera inizierà la discussione dei bilanci, coltiva una grande e vana illusione. La discussione del bilancio sarà, in minore proporzione ma con maggiore disattenzione, quello stesso che è stata fino ad oggi la discussione generale sulle comunicazioni del governo. Quando si apriranno le cateratte dell’eloquenza sul bilancio dell’Interno, per esempio, voi avrete di seguito un discorso sulle carceri e un altro sulle violenze fasciste, un discorso sulla tubercolosi e uno sul Comune di Milano, un discorso sull’abigeato e uno sull’ordinamento burocratico, ecc.. Il Ministro distribuirà, rispondendo, assicurazioni a destra e a sinistra: e tutto, finirà li. Quindi si verrà alla discussione degli articoli, ma qui nessuna questione concreta, neppure delle maggiori, sarà seriamente discussa o risoluta, ne in linea di principio, né nell’applicazione pratica. Il deputato che lo tentasse fuor della vana mostra retorica, urterebbe irrimediabilmente contro il cliché ministeriale apprestato dalla burocrazia o dall’incomprensione dello stesso Ministro, e contro l’indifferenza della rimanente Camera, che giudicherebbe sempre secondo il pregiudizio ministeriale, quando non riuscisse a montarla il tono singolarmente caldo della voce del preopinante. E dopo qualche giorno di vana accademia, ogni bilancio sarà approvato, lasciando le cose al punto di prima.

Né l’approvazione dei bilanci da parte della Camera distoglierà il Governo dalla ulteriore emanazione di decreti-legge, dalle maggiori assegnazioni, dalle inesecuzioni ecc.. Tutto seguirà nell’identico modo. Se ciò avviene oggi con bilanci che già sono stati variati e sono approvati mediante l’esercizio provvisorio, in corso quindi di esercizio, tanto più avverrà con bilanci proposti e approvati regolarmente molti mesi prima dell’entrata in vigore. Le consuetudini burocratiche e i ristretti gruppi di interessi privati rimarranno i soli determinanti della esecuzione e delle variazioni, aggravati dal maggiore scatenamento di demagogie locali che hanno la loro rappresentanza nei gruppi politici formanti la maggioranza ministeriale. Io non so se il rimedio possa essere quello di trasportare nella quiete delle commissioni tutto il lavoro di legislazione e di controllo, lasciando alla Camera le sole grandi discussioni generali, e l’appello dai dissensi fondamentali manifestati nelle commissioni. Certo la Camera, com’è oggi, non è più adatta a compiere la sua funzione.

Ma non tanto per sua colpa. La Camera riflette come in uno specchio il difetto di capacità e di produttività del paese. Tutti i cittadini sembrano, potrei dire con un paradosso, lieti che le cose vadano male, per potere esercitare con più acre piacere la funzione più inerte della critica contraddittoria. E gli uomini di governo sembrano i più lieti di tutti di disfare oggi quello che hanno proposto ieri, di cancellare con una toccatina a destra il ricordo dei loro amoreggiamenti a sinistra, o viceversa. La realtà maggiore (accanto a quella di una accresciuta ignoranza degli uomini e di una minore capacità di sforzo e di studio dopo la guerra) è che ormai agli enti pubblici, e allo Stato in particolare, oggi arriva una più enorme quantità di funzioni e di attribuzioni economiche, culturali, morali ecc., le quali domandano di essere coordinate, regolate, distribuite: appunto così come ormai gli interessi nazionali divengono ogni giorno più internazionali o bisognosi di essere discussi e accordati internazionalmente. Ora non è, come alcuno pretende, che lo Stato non possa e non debba, in teoria, assumere quelle funzioni; è che l’antico ordinamento e i vecchi organi dello Stato, altrimenti abituati, non sono capaci di comprenderle e di regolarle.

Tra essi, in prima linea, molti dei più alti burocrati e dei deputati, avvocati nella massima parte, mancanti di cultura tecnica; e quindi i ministri, che assumono i dicasteri delle Comunicazioni, dei Lavori, della Guerra ecc., con la stessa leggerezza con la quale assumerebbero la difesa di una causa in tribunale. Non è che lo Stato possa ritornare alle primitive elementari funzioni della giustizia, dell’ordine pubblico e della difesa, come alcuno anacronisticamente pretende. È vero solo che, se i vecchi organi sono solo adatti a compiere quelle antiche funzioni, nuovi organi, altrimenti selezionati, dovrebbero attendere alle nuove funzioni d’indole sociale. Allora forse soltanto, e non con le recriminazioni quotidiane di coloro che il giorno dopo diventano ministri per ripetere lo stesso sconcio, e non con le mozioni del Senato affetto dalla stessa malattia della Camera e da stitichezza senile, si potrebbe mettere fine alle accademie dei retori e all’arbitrio dei decreti-legge».

 

Le ragioni della politica

Il 24 marzo 1922, durante la discussione dello stato di previsione del Ministero dell’interno per l’esercizio finanziario 1921-22 e 1922-23, intervenne Matteotti: «Ho scritto giorni fa[13] che la discussione dei bilanci si sarebbe risoluta in una vana accademia, di poco differente da quella sulle comunicazioni del Governo, i fatti stanno dimostrando la verità dell’asserto e la discussione degli articoli ne darà una riprova anche maggiore. Non è qui il luogo per ricercare quali ne sono le cause profonde. Piuttosto vorrei qui notare perché la discussione sul bilancio dell’Interno possa sembrare anche più vana di altri bilanci. […] Perché il Ministero dell’interno, che dovrebbe essere e che è anche in alcune nazioni, il ministero dell’assistenza sociale, è in realtà invece, in Italia, l’appannaggio politico, lo strumento politico che il Presidente del Consiglio appetisce per sé, e vuol tenere per sé, come strumento di potere, unicamente.

Il Presidente del Consiglio, non richiede il Ministero del tesoro o il Ministero degli esteri, che meglio gli permetterebbero di dominare la situazione economica e internazionale del paese. In Italia la tradizione, da Depretis a Giolitti, preferisce il Ministero dell’interno, non per raggiungere quei fini di assistenza sociale che al Ministero dell’interno dovrebbero essere collegati (carceri, beneficenza, sanità, asili, ecc.), ma unicamente perché si hanno i prefetti, e la forza come mezzo di dominazione locale, e come strumento politico! Di qui la ragione fondamentale della sfiducia diffusa in tutte le persone di chiedere, in sede di discussione del bilancio dell’Interno, non questa vana accademia, ma la trattazione tecnica e precisa dei problemi interni di assistenza sociale. […] La questione va posta però in tesi: consentite o non sulla inefficienza del ministero politico ad adempiere questa funzione, di distribuzione e di assistenza sociale? Ancora vorrei domandare al Governo se intende presentare alla Camera il progetto di legge sull’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia, che è stato preparato e redatto in tutti i minimi particolari. Intende insomma il Ministro esercitare la funzione di assistenza sociale? Sì, o no? Qui la questione.

Ed è la questione della democrazia[14]. Perché è stato detto da alcuni elementi di destra che lo Stato non deve esercitare funzioni sociali; lo Stato dovrebbe esercitare le cinque originarie funzioni di difesa dell’ordine pubblico, difesa interna, giustizia, ecc., e nessun’altra. Dicono, naturalmente, salvo poi singolarmente, come persone, andare a richiedere la funzione sociale dello Stato; a domandare, per esempio, perfino il monopolio degli zuccheri, com’è avvenuto a qualche gruppo della destra! Ma la democrazia, la quale invece professa la teoria dell’assistenza sociale, e che si chiama democrazia sociale, in quanto vuole che gli organi pubblici integrino lo sforzo individuale del popolo, deve dirci se in realtà vuole perseguire questi scopi sociali. I governi, che dalla democrazia emanano, devono dire se in realtà vogliono perseguirli, senza lasciarci sospettare che si vogliano professare per avere i voti del popolo; invece poi, giunti al governo, si lasciano perire nel disordine e nell’insufficienza tutti gli strumenti d’assistenza sociale; così che altri possa dire: vedete che tutti quegli organi non servono a niente. A questo stesso punto si riconnette la questione degli enti locali e dei comuni, della quale si è parlato ieri e ieri l’altro qui alla Camera.

È stato detto da qualcuno che i comuni in genere, e i comuni socialisti in specie, dilapidano le sostanze, assalgono i contribuenti, spendono malamente. Io vorrei che quelli che hanno parlato e vorrei che il Governo e l’opinione pubblica considerassero questo problema nella sua realtà concreta, nei suoi veri termini, nelle sue cifre, e non per chiacchiere di singoli interessati. Risulta, per esempio, da dati ufficiali, ministeriali, che le imposte prelevate da comuni e province nel 1914 hanno dato 756 milioni e nel 1921 2.350 milioni. Cioè le imposte degli enti locali dal 1914 al 1921 sono appena triplicate. Ora qual è il valore della moneta oggi in confronto di quella dell’anteguerra? Qual è il potere di acquisto della lira italiana oggi in confronto del 1914? Ciascuno di voi può rispondere, se è ottimista quattro volte; se è pessimista, dieci volte e più. Dunque l’aumento della complessiva pressione tributaria locale è minore in proporzione della svalutazione della moneta italiana. Se confrontiamo con lo Stato, questo nel 1914 ha percepito dai cittadini 2.000 milioni d’imposte, e nel 1921 oltre 11.300 milioni; cioè lo Stato per conto suo, pur avendo ancora un disavanzo di dieci milioni nel 1921 e di cinque o sei nell’anno venturo, ha avuto un incremento d’imposte di cinque o quasi sei volte [Gray: «Ma deve aggiungere ai tributi i debiti»].

Vengo subito anche a questo, egregio contradditore; mi lasci svolgere il pensiero. Voglio prima richiamare un altro confronto: dal 1907 al 1914, quando erano pochissimi i comuni socialisti, i comuni hanno ugualmente raddoppiati i loro bilanci, pur senza che concorresse l’elemento dello svilimento della moneta. Così che, ripetendo un identico sviluppo dal 1914 al 1921 e aggiungendovi la riduzione della lira a venti o venticinque centesimi, si sarebbe dovuto avere nell’ultimo sessennio un aumento di entrate di almeno otto volte, anziché di tre come è stato in effetti. Dallo sviluppo insufficiente delle entrate ordinarie è conseguita naturalmente la insufficienza dei servizi cui poi accennerò e la politica dei debiti a cui accennava il contraddittore. Politica di indebitamento, la quale è essenzialmente dannosa alla finanza dei comuni e all’economia nazionale; ma politica di debiti che fu perseguita come dalle nostre, più anzi che dalle nostre amministrazioni, dalle vostre, dalle più conservatici. Se esaminate il periodo di guerra fino alle elezioni amministrative del 1920, la politica di coprire il disavanzo dei bilanci con debiti, fu perseguita specialmente dai comuni conservatori. Talché quando noi abbiamo conquistate molte amministrazioni locali nel 1920, non solo abbiamo trovato che la somma dei tributi non corrispondeva neppure lontanamente alla somma delle spese conservate o già accresciute dagli avversari, ma abbiamo dovuto anche provvedere all’enorme cumulo di debiti da essi lasciato.

È difficile avere dati precisi e completi in materia, nel disordine tipicamente italiano che lascia mancare una facile statistica che potrebbe dare alle nostre discussioni fondamento di fatti e non di chiacchiere. Ma anche limitandoci a quei pochi dati ufficiali che ci sono, troviamo, per esempio, debiti per deficienze del bilancio e per pagamento di personale (non per costruzione di opere, che allora il debito è compensato da una nuova ricchezza patrimoniale e utile), contratti presso la Cassa depositi e prestiti: Roma per 105 milioni, Milano per 76 milioni, Napoli per 67, Torino per 33, ecc.. Come vedete le proporzioni non sono a danno del comune socialista. È il sistema, che è stato cattivo: quello di consentire da parte dello Stato come si consente ancor oggi, di riparare alle deficienze di bilancio con debiti anziché con l’imposte. E son queste che premono ai signori di quella parte, i quali protestano non contro i debiti ma contro le imposte [Gray: «No, contro la ripartizione delle imposte»]. Arriverò anche a questo; un passo alla volta [Gray: «È una università popolare»].

Dovete prima rispondere e decidervi, voi e il Governo, sul dilemma: imposte o debiti? E passo subito alla distribuzione delle imposte. Tutto il canaio viene per la sovraimposta. Si fanno delle affermazioni sbalorditive. L’altro giorno l’onorevole Piatti, che mi dispiace di non vedere presente, ha affermato (ai banchi di sinistra) che nella provincia di Piacenza la media delle imposte sui terreni è di 325 lire per ettaro. Ieri dalla destra l’onorevole Gray ci ha portato il lacrimoso esempio della titolare di lire 4,50 di reddito catastale imponibile, la quale ha dovuto pagare sette od otto lire di imposte, e ci ha raccontato che in provincia di Novara si paga sette volte di più dell’imposta erariale, sicché si supererebbe il reddito reale dei beni. Cerchiamo di mettere le cose a posto. Anzitutto la imposta sui terreni è basata o su redditi antichi, che non trovano nessun corrispettivo nel valore dei terreni di oggi, o sul nuovo catasto 1874-1885 anch’esso inadeguato non dico ai valori attuali, ma neppure al valore ed al reddito dei terreni nel 1914. Di tal che il capitale italiano terra, che dal Gini era calcolato nel 1914 avere un valore di 44 miliardi, pagava nel 1914 allo Stato solamente 81 milioni, cioè appena il 4 per cento del reddito, e nessuno allora di quella parte della Camera insorgeva a protestare! [Gray: «Non ci eravamo»].

Scribacchiavate anche allora e vi erano lì vostri maggiori (Si ride).

Alla imposta erariale si aggiungevano le imposte locali con altri 200 milioni; cosicché la terra pagava prima della guerra circa il 14 per cento del reddito, aliquota inferiore a quella di altri redditi o beni. Oggi il capitale della terra è inalterato; è variato soltanto il valore nominale, quadruplicato o quintuplicato rispetto alla lira; e l’imposta erariale dà allo Stato 115 milioni con lievissimo aumento, mentre la sovraimposta comunale e provinciale è triplicata. Così che, se omettiamo di considerare le imposte personali, patrimoniale e complementare, la pressione attuale delle imposte reali sulla terra, rispetto ai valori attuali della moneta, è diminuita anziché aumentata. Insomma i tanto maledetti enti locali, per conto proprio, non hanno invece nella loro somma neppure tenuto dietro alla svalutazione della moneta; mentre pure conforme a questa sono aumentate le spese, e anzi aumentate le necessità in conseguenza della guerra [Buttafochi: «Ma i fitti sono aumentati?»].

Vengo ai fitti; ma non dimostratevi così preoccupati dei proprietari terrieri; si direbbe che ne siete diretta emanazione! [Buttafochi: «Allora siamo una emanazione, sua; perché lei è un proprietario terriero»].

Sì; ma io dimostro qui di posporre il mio interesse personale all’interesse pubblico; mentre voi operate nel senso contrario. Nei nostri comuni e nei comuni popolari – perché questi sono accusati, insieme con i nostri dal professore Einaudi e da altri simili senatori – nei nostri comuni certamente noi spendiamo di più e abbiamo maggiormente gravata la mano [Alfredo Rocco: «Male!»].

Spendiamo, di più, perché desideriamo lo sviluppo di quei servizi pubblici che debbono integrare le necessità delle popolazioni lavoratrici, quelle necessità che i conservatori avversano [Gray: «Oh! Li avete sviluppati bene i servizi pubblici!»].

Ammetto, ripeto, che noi imponiamo di più. Ma le cifre che sono state portate dai nostri avversari sano esatte? Quale valore hanno? L’onorevole Piatti ha detto che la provincia di Piacenza paga in media 325 lire, per ettaro. O è un errore o è un falso. La provincia di Piacenza, ha pagato, secondo i dati ufficiali, per le sovrimposte, comunale e provinciale, nel 1921, lire 8.198.787 e per imposta erariale lire 2.077.536. In totale: lire 10.276.323. Questa cifra, divisa per ettari 250.546 da una media per ettaro di 40 lire e non 325. C’è un piccolo errore di 8 volte in meno! Sono d’accordo che non tutti i terreni sono egualmente produttivi, che vi sono quelli coperti di strade, case, fiumi, ecc., che vi sono terreni di montagna, di pianura, che vi sono i fitti, ecc..

Quello che importa è di fermare intanto che la affermata media generale di 325 per ettaro, è fantastica. Nella provincia di Novara addotta come esempio dall’onorevole Gray le sovrimposte comunale e provinciale sui terreni sono nel 1921 di lire 8.310.736; l’imposta erariale di lire 4.504.374; e ciò vuol dire intanto che la sovraimposta in media non arriva neppure ai 200 centesimi tra comunale e provinciale. Sono in totale neppure 13 milioni, che divisi per i 660 mila ettari di terreno della provincia danno 20 lire per ettaro. Ci sono anche là terreni improduttivi di montagna, ecc.. Io ammetto che solo la metà dei terreni della provincia di Novara sia produttiva. Ammetto che solo la metà sia amministrata da quelle canaglie di socialisti: sarebbero ancora lire 40 per ettaro. Ora quanto rende oggi un ettaro di terra in provincia di Novara? 200 oppure 400 lire per ettaro?

Ciò vorrebbe dire ancora che si paga appena il 10 per cento o il 20 per cento del reddito. Ma il collega ha fatto accenno alla legge sui fitti. Noi stiamo scontando forse l’ultimo anno o gli ultimi anni della legge sui fitti e allora io domando all’egregio contradditore… (Interruzione a destra).

Mi lasci dire, si inscriva a parlare. Siamo cioè nell’anno del reddito effettivo più piccolo, mentre siamo già arrivati alla più alta imposizione. Ma, egregio contraddittore, per essere equi allora noi non dobbiamo mettere in conto un anno isolato, mettiamo invece da una parte la somma di tutti i redditi effettivi degli anni dal 1914 al 1921, degli anni cioè di guerra, nei quali pochissima imposta pagarono i terreni, mentre i comuni si caricavano di debiti; e allora ella ritroverà ancora che il gravame complessivo non supera il 20 o 25 per cento. Tanto meno ancora poi se ella farà la media con tutti i terreni liberi dal vincolo dei fitti, o con i redditi liberi che la terra avrà nei prossimi anni. Certo voi siete abituati a questo: che tutte le leggi di imposta, di gravame, possano immediatamente scaricarsi dal proprietario sulle classi lavoratrici e quindi vi lagnate che la legge sui fitti abbia colpito i proprietari di terreni, senza che questi potessero scaricarne i danni sui lavoratori o sui consumatori o sugli enti pubblici!

Del resto non vi è da meravigliarsi se i signori Piatti, Gray e simili portano dati così sbagliati alla Camera, se professori, come il Masè-Dari, scrivono su di una rivista molto stimata: «La riforma sociale», e professori, senatori come Einaudi, ripetono sul «Corriere della Sera» spropositi non meno gravi. Scrive il professore Masè-Dari anzitutto che i nostri comuni hanno imposto sulla proprietà terriera la sovrimposta progressiva, cosicché in provincia di Mantova i piccoli terreni pagano soltanto il 300 per cento, mentre i grossi terreni pagano il 500 per cento dell’imponibile, con grave danno e quasi con la espropriazione dei grossi proprietari agrari rappresentati dalla federazione agraria e da quella parte della Camera. Ora tutto ciò non è vero. Il decreto del settembre 1917, all’articolo 5 dice che i comuni non sono autorizzati a questo.

Purtroppo in materia di sovrimposta le nostre amministrazioni sono costrette a tenere per base le norme statali che non consentono nessuna distinzione di grande e di piccola proprietà e che anzi ci impongono di mantenere le più gravi sperequazioni da terreno a terreno. Scrive inoltre il professore Masè-Dari che in provincia di Mantova si pagano 133 lire per ettaro, in media, di imposta e sovrimposta, mentre il reddito catastale è di 68 e il fitto è di lire 179 per ettaro. Anzi, aggiunge il professore, aggiungendo i carichi di bonifica, il carico di assicurazione incendi, ecc., il reddito netto medio nella provincia di Mantova per il solo fatto delle imposte reali sui terreni è di sole 6 lire per ettaro. Poveri proprietari della provincia di Mantova, sole 6 lire di reddito per ettaro! Anzi, ripete il professore Einaudi: “133 lire per ettaro di imposta contro lire 179 di affitto effettivo medio; e si arriva fino a 253 di imposta contro 150 di fitto”.

Poveri proprietari costretti a vendere le loro terre per pagare le imposte! Rivediamo i dati: le 179 lire di affitto medio sono calcolate non so come, ma risulta ad ogni modo con certezza che esse si riferiscono non all’anno 1921 preso come base per il calcolo delle imposte, ma… al 1914, cioè a otto anni fa! Ma provino i sullodati professori a confrontare il valore e il reddito delle terre raggiunto nel 1921, con le imposte dello stesso anno; oppure provino a confrontare la somma dei redditi dal 1914 al 1921 con la somma delle imposte dal 1914 al 1921, siccome deve farsi una statistica onesta, di gente che vuole rialzare il vero e non difendere l’interesse di una classe; e allora mi dicano quali altri e ben differenti siano i risultati!? Nelle terre della provincia di Mantova, dove si fissano oggi nuovi contratti, si arrivano a percepire anche 500 e 600 lire per ettaro, e la media delle 133 lire dell’imposta per ettaro non è più allora una media gravosa, per una nazione come la nostra che ha fatto la guerra… […] e che deve pagare le conseguenze della guerra.

Le classi dominanti, che hanno voluto la guerra e non vogliono pagare, e che hanno organizzato in Italia il primo esempio, esse assai più rivoluzionarie e disordinate delle classi lavoratrici, di scioperi dei contribuenti, si sono rese indegne di appartenere alla nazione italiana. Del resto non sono soltanto i socialisti che tassano, sono tutti i comuni. Io sono andato pochi giorni fa, per le elezioni amministrative, nel comune di Novi Ligure. Le imposte, avanti la guerra, sommavano a 133 mila lire. L’amministrazione social-comunista, questo terribile odio di tutti, aveva elevato nel 1921 le imposte a 400 mila lire circa; ma l’amministrazione social-comunista dopo pochi mesi fu sciolta; venne il commissario regio e innalzò le imposte a 800 mila lire nello stesso 1921, per non seguire la politica dei debiti. Cioè dunque la causa dell’aumento non era dell’amministrazione socialista, che è restata per tre mesi e non ha potuto fare il bilancio; ma delle circostanze oggettive e generali; dell’aumento delle spese proporzionate alla discesa del valore della lira, ecc.. Un altro esempio. Il commissario regio di Rovigo, dove mai avevano prima amministrato i socialisti portò spontaneamente la sovrimposta, non ricordo se a 15 o 16 lire per ogni lira di imposta erariale! [Gray: «Non protestiamo contro i tributi, protestiamo contro le vostre spese che poi si debbono pagare con i tributi. Voi non date i servizi pubblici ed arricchite la vostra clientela.

Sono i servizi privati che costano, non i pubblici»]. Onorevole Gray, arrivo anche a quello. Abbia un po’ di pazienza. L’onorevole Gray ha citato un altro esempio di un comune che ha posto il 7 per cento di imposta di famiglia a chi ha un reddito di 20 mila lire. Ma egli non deve farne rimprovero a noi. Si rivolga a quel Governo Giolitti che l’ha fatto riuscire deputato e a quel Governo Bonomi per il quale ella votava nel dicembre 1921; i quali governi hanno emanato i due decreti dell’aprile e del novembre 1921 per imporre che il massimo del 7 per cento si applichi ai redditi empiricamente fissati nell’anno precedente. Quando verremo innanzi con la conversione in legge, e con l’emendamento nostro di quei decreti, speriamo di avere fin d’ora il voto favorevole dell’onorevole Gray (Si ride).

La destra si preoccupa dei nostri eccessi in materia di tassa di famiglia; ma non si è mai preoccupata, anzi ha appoggiate quelle amministrazioni conservatrici, che applicavano e applicano ancora, specialmente nel Meridione, l’imposta di famiglia come un’imposta di testatico, così che un impiegato o un operaio paga, per esempio, 10 lire e il ricco latifondista paga 25 o al massimo 50 lire. Io domando all’onorevole Gray perché altrettanta indignazione non ha manifestato nel suo discorso… [Gray: «Perché io parlo delle cose che conosco…»].

Ma ella è deputato nazionale, e dovrebbe interessarsi di conoscere anche questo! [Gray: «E allora, lei s’interessi della nostra provincia prima di smentire delle cifre!…»]. Prego, io ho parlato poc’anzi proprio della sua provincia di Novara. Concludendo in materia di imposte, noi riaffermiamo il nostro programma preciso: le spese dei comuni devono essere pagate, con imposte, e queste imposte devono essere pagate progressivamente, e devono gravare sul capitale più che sul lavoro, e più sul capitale improduttivo ed inerte che sul capitale produttivo [Gray: «Giustissimo!»].

E allora se siete d’accordo, speriamo di trovarvi favorevoli anche nelle nostre proposte concrete. Ma i contraddittori ci hanno anche accusati di spendere troppo. Ho detto che anzitutto le nostre amministrazioni hanno avuto una disgrazia: quella di trovarsi di fronte a debiti contratti durante la guerra e non pagati, e per cui non erano state stanziate neppure le quote di ammortamento. Io ricordo di avere visitati nel 1920 i comuni di Ferrara, di Padova, di Rovigo, ecc., tutti amministrati fin’allora dai conservatori, e tutti avevano accumulato una massa di debiti ai quali le nuove amministrazioni hanno dovuto provvedere…[Gray: «Sanandoli con le indennità…»].

Vengo anche a quello. Un po’ di pazienza, onorevole Gray. Noi trovammo dei comuni (io parlo specialmente dei comuni rurali contro i quali si è maggiormente scatenata la violenza e la reazione) dei comuni rurali senza un fanale solo per la strada. Noi trovammo dei comuni quasi senza scuole… trovammo dei comuni che avevano cento bambini affollati in una cantina. E allora noi abbiamo speso e abbiamo cominciato a fare tutto il possibile (se avessimo potuto di più!), perché noi crediamo che per l’educazione dei lavoratori nulla si dovrebbe risparmiare…[Gray: «Ma non sono quelle le spese che mandano in rovina»].

Ma sono quelle che contribuiscono a innalzare le quote di sovrimposta che vi infastidiscono. Plaghe intere, anche dell’Alta Italia, deficienti di scuole. Nella mia provincia si contano ancora dal trenta al quaranta per cento di analfabeti. È naturale che le classi conservatrici, che prima erano al potere, non abbiano provveduto a questo e quindi abbiano risparmiato le tasse. Noi abbiamo cominciato a provvedere; e, naturalmente, ad imporre le tasse relative [Gray: «Nella provincia di Novara c’è il 6 per cento!…»]. Ai servizi sanitari non si era provveduto, le strade erano lasciate in disordine, all’igiene del popolo, all’acqua, alla sanità non si era provveduto, come purtroppo non si è ancora provveduto in gran parte dei comuni rurali dell’Italia meridionale. E ancora questo è da notare, egregi colleghi, che noi siamo naturalmente diventati amministratori non dei comuni dove sono masse di proprietari, ma di comuni dove erano maggiori le masse proletarie, e quindi maggiori i bisogni e le necessità di assistenza.

Certo l’amministrazione conservatrice di quei fortunati paesi degli onorevoli Giolitti o Falcioni, dove i comuni posseggono dei boschi, non ha bisogno di imposte; e non ha il pensiero di grandi masse proletarie. Avete detto che noi proteggiamo le nostre clientele! Se la nostra clientela è la classe lavoratrice, sì, abbiamo protetto la nostra clientela, e abbiamo creduto bene di proteggerla perché è la classe che lavora e produce. Noi alle amministrazioni siamo andati apposta, per provvedere ai bisogni della classe lavoratrice. Abbiate voi il coraggio di dire altrettanto, che proteggete la classe dei grossi proprietari. Voi non volete pagare perché avete le vostre comodità in casa; noi abbiamo imposto delle tasse ai signori per sviluppare l’assistenza igienica e sanitaria sociale, per dare lavoro, per sistemare i servizi pubblici, per dare istruzione alle plebi che nulla hanno del proprio. Riconosciamo che qualche volta gli operai e i contadini componenti i nostri consigli comunali possono avere sbagliato. Ma che vuol dir questo? Essi avrebbero imparato; mentre da diecine di anni le vostre amministrazioni conservatrici sgovernavano senza speranza; e il caso dei singoli non infirma le nostre direttive di partito espresse nei nostri congressi che hanno dato norme sulle quali domandiamo a qualunque, conservatore o democratico, con precisione il suo giudizio. L’onorevole Gray si meraviglia, per esempio, che si siano iscritti negli elenchi dei poveri, capi di famiglia che avevano 10 mila lire di reddito.

Ma poniamo l’eventualità di un padre il quale abbia una serie di figli e i genitori da mantenere, il quale guadagni pure venti o trenta lire al giorno, ma che nel giorno della malattia o della invalidità non guadagni più nulla: orbene! in quel giorno deve egli o non deve avere l’assistenza sanitaria gratuita? Questo io domando e a questo si deve rispondere! Se sì, e allora questo padre di famiglia sarà bene iscritto nell’elenco dei poveri; poiché l’inscrizione in quell’elenco non significa per noi il sussidio della carità, ma l’assistenza sanitaria ed igienica pubblica. Possono essere avvenuti degli incidenti inevitabili per incapacità dei nostri operai amministratori; può darsi. Raccoglievamo nel 1919 e nel 1920 una enorme massa di disgraziati venuti dalla guerra, con poca conoscenza e con poca educazione, lavoratori che avevano tutto l’interesse di assumere le amministrazioni contro le camarille che vi erano state fin allora, ma che non avevano sufficiente capacità…

Abbiamo cercato di aiutarli, di istruirli, di renderli capaci, soddisfacendo intanto il loro insopprimibile desiderio di rimuovere dal governo del loro paese i padroni imboscati, e darlo ai lavoratori [Gray: «Ma lei non risponde su Serravalle Sesia!»].

Io non posso avere conoscenza particolare del suo campanile di Serravalle Sesia, ma so che anche altre amministrazioni, anche delle più grandi, come Padova, Roma, Palermo, ecc., che non sono amministrate da socialisti, si sono pure trovate in difficoltà e disordini contabili. […] Ora noi abbiamo cercato con tutti i mezzi e con appositi uffici di educare i lavoratori che andavano ad amministrare. Ma contro quegli uffici, e contro quelle leghe dei comuni, che avevano per iscopo l’istruzione, si sono scagliati gli avversari, i prefetti, i proprietari. Ieri infatti avete protestato, perché si concedevano sussidi alla lega dei comuni! Io domando: perché non vi siete altrettanto opposti ai sussidi dati alla vostra associazione dei comuni? Forse deve essere permesso soltanto alle associazioni di comuni non socialisti?

Ci si accusa ancora di avere pagato troppo lautamente gli impiegati comunali. Ci accusano tutti: la destra, i fascisti, i soliti senatori, ecc.. Ebbene con tutte codeste accuse si è visto che alla prima occasione, quando una categoria d’impiegati del municipio socialista di Milano, si mise in sciopero, il «Corriere della Sera», che aveva protestato contro i socialisti, perché avevano troppo aumentato gli stipendi, ha immediatamente appoggiato a scopo politico la categoria degli impiegati in sciopero, contro il Comune! Evidentemente non è codesto il modo di conferire serietà alle opinioni. Altri giornali fascisti ci hanno rimproverato di avere troppo concesso agli impiegati, salvo poi per esempio, per demagogica politica locale, deplorare in una certa provincia che noi avessimo concesso solo il 35 per cento di aumento anziché il 50 come era stato richiesto! Meravigliosa coerenza. Il trucco si ripete ora col progetto di legge sulla seconda indennità di caro-viveri agli impiegati. Il Governo conservatore di Giolitti, dieci giorni prima delle elezioni, cioè il 5 di maggio 1921, emanava una circolare per imporre ai comuni che pagassero immediatamente la seconda indennità caro-viveri agli impiegati, stabilendo che il Governo avrebbe provveduto con mutui. Ora, a pochi mesi di distanza i senatori giolittiani respingono la legge, che il Governo di Giolitti aveva fatto eseguire senza che essa fosse legge!

Un po’ di coerenza, egregi signori! Non si può avere la botte piena e la serva ubriaca: bisogna decidersi. O siete per l’economia assoluta e bisogna smetterla di fare la demagogia, o siete per le dovute concessioni agli impiegati e allora dovete smettere di farne accusa ai socialisti. Bisogna decidersi. Anzi noi domandiamo in proposito una specifica decisione al Governo. Per abbandonare alla ire del Senato il progetto del secondo caro-viveri, voi avevate la facile scusa che si trattava di un provvedimento del Governo passato. Ma voi avete ottenuto pochi giorni fa l’unanimità di fiducia dal Senato: quindi, o voi siete concordi col Senato nel respingere il progetto del secondo caro-viveri, o a voi deve riuscirvi ben facile di farlo approvare anche dai vostri amici senatori renitenti. Il Governo crede o no che quel progetto per la seconda indennità sia giusto? Se sì, doveva porre al Senato la questione di fiducia. Se no, deve confessarlo recisamente.

Noi dobbiamo essere informati. Dobbiamo discutere su fatti. Bisogna decidersi affinché il popolo italiano possa giudicare tra quelli che sono i democratici, i socialisti, la destra, e sappia quale sia la realtà, e non continui l’eterno gioco delle ombre. Ci hanno anche rimproverato le indennità agli amministratori. Deputati che hanno votato, a sé stessi l’indennità di 15 mila lire, non hanno ritenuto nella passata legislatura inopportuno di concedere l’indennità anche agli amministratori locali. La Camera ha votato a maggioranza la proposta e i nostri comuni non fecero che proporne in bilancio l’applicazione. I senatori invece, che si sono votati cento lire di indennità per ogni seduta, hanno affermato che nessuna indennità deve esser data agli amministratori locali, finché non avranno posto a pareggio le finanze comunali! Forse che i signori senatori hanno posto a pareggio le finanze statali, prima di percepire le loro cento lire per seduta? (IlaritàApplausi).

Il trattamento deve esser pari ed io credo che lavori più il sindaco di un comune che quei senatori i quali si fanno trasportare in quasi tutte le sedute, da quando vi si prendono le cento lire di indennità! Noi siamo per l’indennità agli amministratori; la classe dominante, i proprietari non sono per l’indennità. Naturale. Il proprietario non ne ha bisogno; ne ha bisogno l’operaio, il semplice professionista che quando attende al comune non guadagna. Del resto il proprietario che fa il sindaco o l’assessore, anzi con lui tutta la sua classe, percepiscono già una indennità assai più larga di quello che potrebbe avere il lavoratore, risparmiandosi le imposte che dovrebbero servire per dare scuole e servizi al popolo! Quanto alle irregolarità contabili o legali, sono perfettamente d’accordo; si provveda e si colpisca: non abbiamo su ciò nessuna eccezione da fare. Quando abbiamo potuto, abbiamo indagato e provveduto direttamente. Perciò se il sottosegretario agli interni, il quale nella sua relazione ha benissimo rilevato tutti gli ingombri, le remore e gli impedimenti dell’autorità tutoria contro le amministrazioni locali, vorrà una riforma che garantisca e controlli effettivamente la legalità e la contabilità dell’amministrazione, egli avrà il nostro appoggio; saremo per ogni metodo, per ogni disposizione che senza essere ingombrante, garantisca la legalità e l’onestà dei conti.

Ma quando si tratta di arbitrio politico, quando si insinua la tutela e l’arbitrio politico, allora non possiamo più essere d’accordo […]. Ieri un deputato della destra invocò i fulmini dei prefetti e dello Stato contro i comuni; oggi un altro deputato della stessa parte (il che denota la grande confusione in cui sono ancora certi partiti in Italia) è venuto a dire: diffidiamo dei vostri prefetti, essi non fanno che appoggiare questa o quella frazione politica, sono strumenti delle camorre locali. Onorevoli della destra decidetevi! […] Tra l’onorevole D’Ayala, che ha affermato che i prefetti “non hanno mai fatto il loro dovere, che sono partigiani e pericolosi perché legati a clientele locali” e il parere del deputato Gray che invocava l’intervento tutorio dei prefetti sulle amministrazioni locali, v’è contraddizione. A meno che… non vogliate l’intervento dello Stato, e l’arbitrio del prefetto, solo quando si tratta… di amministrazioni socialiste! Noi abbiamo in materia una posizione precisa. Domandiamo a voi altrettanto. Noi siamo per il controllo pieno della contabilità e della legalità assoluta in tutte le forme; ma siamo contro l’invasione e l’arbitrio politico del Ministero dell’interno e del prefetto, i quali sono organi esclusivamente politici, quando vogliono intervenire nella vita comunale a impedire che si attui questo o quel programma approvato dagli elettori. Noi domandiamo che i comuni si possano associare, federare, che si costituisca magari un corpo superiore degli enti locali, anche con qualche controllo in materia economica, ma non vogliamo l’intervento, l’arbitrio di organi partigiani e politici. Siete d’accordo su questo? E il Governo che cosa pensa?

Attendiamo le vostre risposte. Frattanto i nostri comuni hanno contro di sé da una parte l’ostruzionismo governativo, la sopraffazione dei prefetti, che è stata deplorata dalla stessa relazione Casertano […] abbiamo avuto scioglimenti politici dei nostri comuni, l’intervento spesso inutile ingombrante e arbitrario delle autorità nelle amministrazioni comunali; abbiamo avuto l’ostruzionismo dei grossi proprietari che, sollecitati dagli stessi prefetti hanno scioperato contro l’esattore. Di fronte a tante difficoltà i lavoratori non possono spesso amministrare. Ricordatevi però che durante la guerra, quando le amministrazioni socialiste amministravano per il bene del popolo lavoratore, quando le amministrazioni comunali di Milano e di Bologna avevano le lodi del Presidente del Consiglio Orlando ed erano citate a modello anche dai giornali conservatori, ciò avveniva perché una politica favorevole alle classi lavoratrici era allora considerata essenziale a mantenere quella concordia nazionale che in quel tempo al Governo occorreva.

Oggi voi credete che quella concordia non occorra più, e sferrate la violenza contro le classi lavoratrici, le cacciate dalle loro amministrazioni. Voi potrete vincere in questo; ma ricordatevi che i momenti terribili della nazione non sono uno solo, ma si ripetono; badate che non avvenga ancora una volta che abbiate bisogno, voi specialmente che siete nazionalisti, e vorreste andare alla conquista di sempre nuove terre, badate che in altra occasione potrete avere bisogno della solidarietà dei lavoratori; e giorni tristi verranno se invece li avrete tenuti oppressi, lontani dalla capacità di amministrarsi da sé, e di soddisfare quei bisogni e quei servizi di istruzione e di civiltà che sono la gloria del comune italiano. Ognuno assuma le proprie responsabilità».

Nella seduta del 1° aprile 1922,

Matteotti: «Il gruppo socialista non è favorevole alla chiusura dei lavori per così lungo tempo[15]. Noi crediamo che la Camera, e specialmente il nostro gruppo, dovrebbe restare qui per svolgere i suoi lavori su questioni urgenti che attendono di essere risolute. Noi possiamo comprendere la ragione che il Governo ha di aggiornare la Camera per preparare la Conferenza di Genova – preparare per conto proprio – per assolvere il suo dovere; ma allora bisognerebbe che da parte del Governo si riconoscesse anche il diritto della Camera di sedere e continuare i propri lavori. Se non si può far questo in vista delle vacanze di Pasqua, e per la preparazione della Conferenza di Genova, è evidente che immediatamente dopo Pasqua i lavori potrebbero essere ripresi. C’è una quantità di disegni di legge e di bilanci che possono essere discussi benissimo, anche con la presenza di una parte sola del Governo. Ma, anche se volessimo rimandare la data di riapertura per esempio al 24 aprile, vi sarebbe sempre modo di conciliare gli interessi del Governo, che vuole andare a Genova, con gli interessi della Camera, che vuole lavorare (Rumori).

È stranissimo che brontolino proprio coloro che poi ispirano quella stampa che lancia contro la Camera ed il far nulla della Camera i più acuti strali. La cosa è veramente strana e significa che si compie qui un doppio giuoco: si svaluta l’Istituto in quanto ciò possa far comodo, salvo a giovarsene in altro momento, quando il giovarsene fa pure comodo. Ora bisogna ben eliminare questo equivoco. Se siete voi costituzionali che intendete assumervi la difesa dell’Istituto parlamentare, allora dovete esser con noi perché al più presto avvenga la ripresa dei lavori. Noi siamo persuasi che le discussioni del bilancio siano ormai diventate una accademia inutile, perché i fatti dimostrano che i capitoli e gli stanziamenti restano immutabili. Ma non per questo soltanto la Camera deve lavorare, e noi intendiamo che si riprendano al più presto i lavori, perché vi sono dei progetti che a noi particolarmente interessano, e che interessano del resto lo stesso ordine pubblico, in quanto sono a difesa delle organizzazioni dei nostri lavoratori. Noi domandiamo, quindi, che, se la Camera vuole prendere questa sera le vacanze, si riapra poi il 24 di aprile; se non si accede alla proposta di riaprirla al 24 di aprile, noi ci dichiariamo contrari al suo aggiornamento, da questa sera».

Il 17 novembre 1922, il Presidente del Consiglio Mussolini presentò, tra gli altri, il disegno di legge n. 1810, avente carattere di urgenza, Delegazione di pieni poteri al governo del Re per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione. Per l’esame di questo di segno di legge, fu nominata dal Presidente della Camera De Nicola una Commissione speciale[16] che presentò alla Presidenza la sua relazione (1810-A) il 21 novembre.

Quella che segue è la relazione di minoranza di Matteotti[17]:

«La minoranza della Commissione si sarebbe potuta limitare a una pregiudiziale generica avversa a una delega di pieni poteri, o specifica contro il Governo, cui i pieni poteri si propongono affidati, sotto l’aspetto politico o sotto l’aspetto della capacità di attuazione. In tale caso non avrebbe neppure redatta una relazione di minoranza, affidando piuttosto le ragioni intuitive della sua opposizione alla stessa relazione della maggioranza. Ma, contro il progetto che ci è presentato, stanno tante altre e tutte fondamentali ragioni, che non ci possiamo esimere dal darne esposizione più larga al Parlamento. Anzitutto, da un punto di vista più generale, quali sono le ragioni che possono indurre il Potere legislativo a rimettere i pieni poteri al Potere esecutivo?

Per “la crisi dello Stato” afferma la relazione del Governo, perché “l’autorità dello Stato si era ormai progressivamente indebolita”. Ma sarebbe facile obiettare che la ragione cade nel momento stesso in cui il nuovo Governo sale al potere, con la presunzione di riaffermare, per ciò solo, l’autorità dello Stato, fino al punto di ritenere di poter governare anche contro la Camera e contro ogni diversa opinione o corrente politica. Altri avverte piuttosto che la delegazione dei pieni poteri “discende come conseguenza dal modo quasi rivoluzionario per il quale una parte si è impadronita del Governo”. Ma anche sotto tale aspetto, o la rivoluzione continua e non ha bisogno di chiedere i pieni poteri[18], o la rivoluzione è già legalizzata e consentita dalla maggioranza della Camera, e non vi è più bisogno di una legge eccezionale. Si dice anche che “la Camera si è dimostrata incapace di risolvere i problemi più gravi dell’economia e della finanza”.

Ma o la incapacità è ritenuta costituzionale, organica, dipendente dallo stesso modo di funzionamento dei parlamenti moderni, e allora la vera legge attendibile sarebbe quella che ne riformasse la costituzione o il modo di funzionare[19]; o la incapacità è di questa sola Camera, e, a parte la dimostrazione che manca, l’unica risoluzione da prendere sarebbe quella che la Camera fosse immediatamente sciolta e sostituita da un’altra capace di riprendere subito ed esercitare il suo potere e la sua funzione. La verità è che il disordine amministrativo ed economico attuale non tanto dipendono da difetti del Parlamento, ma traggono inizio proprio dal momento in cui il Parlamento cessò di funzionare normalmente, e la legislazione, anziché conforme alle norme costituzionali, fu tutta affidata, dalla dichiarazione di guerra in poi, al Potere esecutivo, all’alta burocrazia e alle altre forze che sulle prime due hanno agito[20]. La farragine dei decreti sovrapposti, l’abitudine degli organi esecutivi ad agire ormai senza controllo né preventivo, né consuntivo, la protratta liquidazione delle gestioni straordinarie di guerra, costituivano tanti ostacoli alla ripresa della normale funzione legislativa e al riassetto amministrativo dello Stato.

Ma è allora più che mai strano che, proprio nel momento in cui il Parlamento ha ripreso in parte il suo funzionamento, ricominciata la discussione dei bilanci, ristabilito il severo controllo della sua Commissione di finanza[21], proprio ora il Governo arresti il ritorno alla normalità e ci riporti alla nefasta legislazione per decreto. Non saremo certamente noi che vorremo negare i difetti delle ultime tre legislature, delle maggioranze e dei governi che le hanno presiedute. Non saremo noi che in tutto questo tempo siamo stati costantemente all’opposizione, abbiamo rilevati e descritti i mali dell’Amministrazione, dell’economia, della finanza statale, contro coloro che di quei mali furono allora la causa o gli autori o i sostenitori e che oggi nella Commissione[22] e nel Parlamento, si dispongono invece a deplorarli invocando dal nuovo Governo il rimedio straordinario. Ma è anche vero che i difetti della Camera sono anche i più soggetti a controllo pubblico, i più facili a rilevare, e perciò solo sembrano i più gravi. La democrazia anche migliore mostra tutte le sue infermità, anche le più piccole; la dittatura più nefanda nasconde al popolo anche le più gravi.

D’altra parte, se la Camera attuale è disposta nella sua maggioranza a riconoscersi incapace, ad abdicare ai suoi diritti e ai suoi doveri, che le furono deferiti liberamente dagli elettori, essa non può e non dovrebbe assolutamente cedere al Potere esecutivo anche i diritti della Camera futura, e implicitamente quelli degli elettori e del Parlamento in genere. Quando il Governo chiede i pieni poteri fino al 31 dicembre 1923, si riserva di darne conto solo entro il 31 marzo 1924, e minaccia frattanto il prossimo scioglimento della Camera, esso non usurpa soltanto il potere della Camera attuale, che può piegarsi e consentirglielo anche per timore del dissenso e in vista della minaccia; ma usurperebbe, con la complicità della Camera attuale, anche il potere della Camera futura e del Parlamento[23]. Noi non sappiamo neppure comprendere come mai soltanto nel 1924 la Camera ridiventerà capace di compiere le funzioni che oggi le sono tolte. Non sappiamo neppure intuire quale sarà per essere la condizione, la dignità, la funzione del Parlamento, cioè della Camera e del Senato, da oggi a quella data.

Il Parlamento non dovrebbe più discutere bilanci, poiché essi potrebbero quandochesia essere mutati ad arbitrio del Governo; non potrebbe votare leggi che il Governo può sostituire a sua posta con altre; non potrebbe accingersi ad esercitare il controllo, poiché questo è sotto la raffica dei decreti che ne possono mutare l’essenza o quanto meno inficiarlo. Il Parlamento sarebbe per un anno e mezzo ridotto a miserabile giocattolo, di cui il popolo italiano dovrebbe anzitutto chiedersi se mette conto di pagarne la spesa. Non questo per lo meno volle il popolo italiano quando liberamente scelse e volle, con maggioranza legittima, i suoi rappresentanti, per un regime di democrazia e di libertà. E non questo ha osato chiedere il Governo, se ha dichiarato che nelle leggi riformabili non sono quelle che toccano la Costituzione e il Potere legislativo. In particolare, la nostra opposizione alla delegazione legislativa non vuole tanto insistere sulla legislazione burocratico-amministrativa, quanto su quella tributaria, e quella che potrebbe involgere l’esistenza e la efficienza di importanti funzioni dello Stato. Per la parte burocratico-amministrativa, noi eravamo già in regime di pieni poteri, ma con precise indicazioni e delimitazioni “a unificare, ridurre e rendere più spediti i controlli di ogni specie, ad attuare un largo decentramento amministrativo con una maggiore autonomia degli enti locali”, con l’obbligo di “non superare la spesa totale derivante dagli ordinamenti in corso”, con la limitazione della materia dalla quale erano, per esempio, esclusi, l’ordinamento dell’esercito, le funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, l’istruzione pubblica, ecc.; e in ogni caso con il controllo di una commissione parlamentare (legge 13 agosto 1921). Anche nel 1894 il Governo Crispi ebbe a proporre una legge di pieni poteri con scopi analoghi; ma la Commissione, che pure era allora formata esclusivamente di deputati della maggioranza, seppe opporsi nettamente alla delega pura e semplice, affermò i limiti della delega “al di là dei quali la Camera avrebbe abdicato alle sue prerogative”, e diede in una serie di articoli le linee sintetiche “e precise della riforma amministrativa, dentro le quali soltanto il Governo avrebbe potuto agire”[24].

Nel nostro, caso invece nessuna limitazione, nessuna indicazione, nessun indirizzo ideale o pratico. L’arbitrio più completo, e più ciecamente concesso, in quanto quasi nessuna dichiarazione o per lo meno nessun impegno formale volle prendere il Governo davanti al quesito più generale postogli con ordine del giorno unanime dalla Commissione, e davanti ai quesiti concreti postigli da singoli commissari. Alla stessa domanda nostra se il criterio della economia, cioè della riduzione di spesa, fosse quello dominante e immanente, il Ministro non ha escluso che uno speciale ordinamento potrà essere riformato anche in un modo più costoso, e ha quindi convalidato le diffidenze che possono sorgere dal discorso del sottosegretario del Tesoro, il quale non si perita di affermare che “è sorta una nazione guerriera e dominatrice”. Ben altrimenti nel 1894, di fronte alle richieste generiche del Ministero Crispi, la Commissione affermava nella sua relazione la necessità di “limitare le facoltà del Governo”, di “specificare le facoltà da delegarsi con una chiara e precisa determinazione degli scopi, dei limiti e delle condizioni”, di “porre come condizione assoluta, indeclinabile, il presidio di vere e proprie guarentigie giurisdizionali” ravvisando “nello stato giuridico dell’amministrazione il solo vero baluardo della libertà”[25]. Tanto meno il Governo ha voluto fare dichiarazioni intorno alle “funzioni dello stato da ridurre”. Dalla relazione governativa sembrerebbe che esistessero già nella mente del Governo una serie di funzioni “essenziali” allo Stato e una serie di “estranee”.

Dalle dichiarazioni fatte alla Camera dall’attuale Presidente del Consiglio nel 1921 le funzioni da mantenere erano solo “la polizia, l’esercito, la giustizia e la politica estera”. Ma non abbiamo potuto sapere se il Governo, oggi mantenga un’eguale opinione, e se, quindi, ritenga funzioni secondarie da abbandonare quelle della scuola elementare e professionale, quelle delle assicurazioni contro la disoccupazione e la malattia, le leggi protettrici del lavoro, i sussidi alla marina mercantile, alle bonifiche, alle strade, ai ponti, alle costruzioni edilizie, agli impianti telefonici ecc.. Non si tratta di una richiesta o disquisizione teorica che possa essere lasciata nel vago, ma di una necessità concreta di determinare entro quale ambito si chiudano le funzioni che il Governo ritiene passibili di eliminazione nel preciso periodo di tempo che va da oggi al 31 dicembre 1923, senza possibilità per il cittadino o per il rappresentante di appellarsi al giudizio del Parlamento. Lo stesso concetto di “gradualità” affermato dal Governo per il passaggio di servizi all’industria privata, ripugna al limite di tempo, di fronte al quale il Governo dovrebbe precisare quello che abbia intenzione di contenervi; e ripugna sopratutto alla economicità del trapasso che per certi servizi come quello ferroviario, non potrebbe essere che organico e non graduale.

Anche rispetto alle funzioni da cedere, la Camera dovrebbe chiedere al Governo categoriche garanzie, se lo scopo della riduzione o cessione sia puramente economico, per modo che, per esempio, ai deficit attuali non si sostituiscano equivalenti o maggiori sussidi al servizio privato, o altri impegni gravosi per lo Stato, o prospettive di deperimenti e trascuratezze di impianti, o abbandoni di diritti di riscatto, ecc.. Così che la nostra avversione ai pieni poteri, oltre che fondarsi sulla difesa delle classi più povere e delle regioni più povere d’Italia, per le quali la iniziativa e la capacità privata devono ancora essere integrate dall’aiuto degli enti pubblici, pena l’abbandono e il regresso, è accresciuta dal sospetto che la riduzione delle funzioni statali serva soltanto a scopi di speculazione privata, assecondando gli entusiasmi di certi gruppi capitalistici o bancari che non sono i più noti per disinteressato patriottismo. Quanto ai Pieni poteri tributari noi non conosciamo alcun Parlamento che in regime costituzionale li abbia concessi, poiché essi formano la prima è fondamentale prerogativa senza la quale un Parlamento non esiste. La relazione governativa afferma che essi “furono chiesti in ore assai meno gravi di questa”. Neghiamo. Nel 1859, nel 1866, nel 1915 essi furono chiesti esclusivamente per un tempo di guerra, cioè di fronte a una situazione non soltanto e genericamente eccezionale, ma estremamente e continuamente mutevole, in quanto ogni mese, ogni giorno di guerra può mutare tutta la situazione economico-politica-finanziaria di una nazione. Per quanto invece si voglia dire che anche oggi è un momento eccezionale, questo è però, precisamente valutatile in tutti i suoi elementi, nel disavanzo, nelle necessità future, nella continuatività di certi carichi o entrate, ecc., per cui ogni rispettabile uomo di governo deve sapere e manifestare un programma adeguato, e ha il tempo sufficiente per provvedere celermente ma con i mezzi normali.

Perciò anche il nuovo Governo Crispi nel 1894, quando chiese i poteri amministrativi, non li estese affatto ai tributi, ma fece presentare dall’onorevole Sonnino non una generica, ma la più dettagliata delle esposizioni finanziarie, ed insieme ad essa i più precisi progetti di legge tributari. È stato detto da qualcuno, che è urgente affidare i pieni poteri al Governo perché “siamo sull’orlo del fallimento”. Non bisogna esagerare. Noi abbiamo ritenuto nostro dovere di cittadini, per reagire contro le illusioni diffuse, e contro le cifre reticenti dei governi successivi, e per incitare a provvedimenti adeguati, di presentare sempre la situazione finanziaria nel suo aspetto più reale e pessimista. Ma anche attenendoci alle più controllabili cifre ufficiali, e a quelle da noi presentate alla Commissione finanze e tesoro, la realtà è la seguente:

Il disavanzo del 1920-21 è stato calcolato in milioni 16.570.

Il disavanzo 1921-22 sembra salito definitivamente a milioni 8.275.

II disavanzo 1922-23 può prevedersi in milioni 4.600, se non si calcola il disavanzo ferroviario, e se si eseguono per contro tutte le leggi di spesa votate o presentate, compreso il latifondo, le ferrovie secondarie, le seimila scuole elementari, i prestiti ad ospedali, e comuni, ecc.. Se non si eseguiranno queste leggi e se il disavanzo ferroviario si computa non superiore al miliardo, il disavanzo complessivo supererà ancora i 5 miliardi, supererà i 4 secondo il Ministro del tesoro. Comunque, il nostro bilancio presenta una rapida deflazione, dovuta alla cessazione delle spese eccezionali di guerra e dopo guerra; per modo che quando abbiamo voluto calcolare quello che sia il vero disavanzo ordinario permanente, cioè quello destinato a rimanere anche nei bilanci futuri, se non si prendessero provvedimenti, la cifra è scesa (pag. 58 delle bozze relazione sulla entrata 1922-23[26]) a milioni 3.600, oltre il disavanzo ferroviario.

Nella stessa relazione noi abbiamo indicata una serie di provvedimenti concreti e ordinari, per i quali, anche senza nuove imposte, ritoccando alcune tariffe, unificando e anzi riducendo le aliquote vigenti per i redditi, ma procedendo a rigorosi e giusti accertamenti[27], si potrebbe in breve giro di tempo coprire più della metà dell’indicato disavanzo permanente. A quale scopo, quindi, i pieni poteri? Se il Governo vuole provvedere d’urgenza, non ha che da applicare i decreti già emanati fin dal 1919 e che provvedevano alle imposte dirette e al loro nuovo accertamento. Quando il Governo ha voluto abolire qualche imposta, ha emanato un decreto (abolizione della nominatività) perfino prima di avere avuto il voto della Camera, ma almeno riservando ad essa diritto di ratifica. Se il Governo vuole infine introdurre nuove imposte, esso, sa di potere contare sul patriottismo della maggioranza della Camera, la quale anche nel 1920 approvò a grande maggioranza e rapidissimamente una serie di imposte che pure sembravano deplorevoli! Noi siamo lieti che su nostra specifica domanda “se convenisse che la massima riforma tributaria sia quella degli accertamenti”, il Governo abbia risposto confermando. Ma non basta.

Per chiedere al Parlamento l’abbandono della sua massima prerogativa, dovrebbe almeno il Governo indicare secondo quale indirizzo esso intenda “meglio distribuire il carico delle imposte”; poiché il capitalista trova che sono meglio distribuite, abolendo quelle che colpiscono il capitale e aggravando quelle sui consumi; il commerciante trova inopportune le imposte sugli scambi; l’erede grida alla spogliazione; eccetera. II Potere esecutivo esimendosi dallo indicare, sia pure in sintesi, ma specificatamente, le sue intenzioni, si riserva l’arbitrio in ogni campo. Il Parlamento – eletto dai cittadini per rappresentarne e difenderne gli interessi collettivi e privati – votando la legge di delegazione, li abbandonerebbe invece all’arbitrio di un Governo, che nessuno ha conosciuto ancora alla prova della capacità di operare e della coerenza coi più diversi princìpi in varie occasioni affermati o negati. Sotto un altro aspetto sarebbe ancora dannosa e pericolosa la facoltà lasciata al Governo, senza limiti di materia e di indirizzo e per un così lungo periodo di tempo, sotto un aspetto che verrebbe proprio in contrasto con quelle finalità economiche e morali, che alcuno potrebbe attribuire alla legge. Quando infatti si lascia al Governo l’arbitrio di sconvolgere a sua posta le più delicate norme tributarie, per più di un anno, tutti i cittadini, produttori e capitalisti, lavoratori e imprenditori, sono mantenuti nello stato d’incertezza più deleterio nei confronti delle loro industrie, dei loro commerci, delle loro iniziative. Chi sa se le tariffe doganali saranno mutate?

Chi sa se le nuove costruzioni edilizie saranno ancora esenti da imposta? Chi sa se un prodotto qualsiasi non sarà toccato da una imposta speciale? Mentre sembrava finalmente cessato il pericolo continuo della legislazione di guerra e ripristinata la tranquillità economica più produttiva, una legislazione straordinaria ricaccia i migliori nel dubbio e nell’inerzia. L’unica assicurazione è stata data per i titoli di Stato; ma non è certo quella che più importa per la produzione nazionale. E altrettanto si dica rispetto all’ordinamento funzionale e amministrativo dello Stato; poiché le rinnovellate incertezze intorno al trattamento degli impiegati ne deprimono il rendimento, le incertezze sulla gestione dei servizi ne fanno trascurare il miglioramento, le aspettative meno legittime si mettono in azione e in contrasto improduttivo. E tutti questi continui passaggi, ai quali da tanti anni assistiamo, dei servizi telefonici, di ferrovie ecc., dall’una all’altra gestione, non giovano in definitiva che agli speculatori; così come i continui mutamenti burocratici non portano in complesso che degli aggravi maggiori, per impiegati licenziati o riassunti magari ad arbitrio, indennità, spostamenti di cose, di uffici, ecc..

Noi siamo convinti per primi, che esistono notevoli economie da realizzare, che vi sono uffici da abolire, energie intorpidite da svegliare, organi parassitari, e ingombranti da resecare. Ma tutto ciò può essere compiuto senza minacciare lo sconvolgimento, senza usurpare i poteri del Parlamento, con tanta minore apparenza di grandi parole, quanto maggiore è la sapienza, la fermezza nell’operare, la coscienza del bene. Perché per esempio il Governo non ha cominciato modestamente a economizzare su sé stesso in fatto, sopprimendo almeno i ministeri per i quali era già prevista la riunione dei bilanci, mantenendo il numero dei gabinettisti dentro i limiti di legge, abolendo o trasformando i sottosegretariati inutili? Riassumendo: tutte le ragioni concorrono a confermare la nostra avversione più netta e precisa alla legge dei pieni poteri. Chi non voglia distrutti o diminuiti i diritti e le funzioni del Parlamento, chi non voglia compromesse le autonomie comunali o locali, chi si preoccupa dell’ordinamento dell’esercito al disopra dei partiti, e della funzione morale della scuola, chi non vuole abbandonare a sé stesse o allo sfruttamento le regioni e le classi più povere e bisognose d’integrazione, chi tiene alla libertà individuale e alle garanzie giurisdizionali, non può abdicare nelle mani di un Governo che non ha ancora presentato un programma e proposte specifiche.

Noi riconfermiamo la necessità che i servizi pubblici siano tenuti o controllati da quei soli enti che possono rappresentare e difendere il consumatore e il contribuente; siamo quindi d’accordo che i servizi devono essere ordinati nel modo più economico e più redditizio, e semplificata l’amministrazione, ma ciò non può significare mai l’abbandono all’arbitrio di un Governo o alla speculazione privata. E tanto meno è possibile abbandonare il sistema tributario, che investe i rapporti più sostanziali tra cittadini, categorie di cittadini e Stato. Sembra a noi che chiunque abbia ferma coscienza dei propri diritti e doveri di rappresentanza della nazione che lavora e produce, non possa rendersi complice della concessione dei pieni poteri, la quale segnerebbe nella storia della nostra vita nazionale il precedente meno degno, e più pericoloso».

D.A.

 

Note

[1] La posizione critica che Giolitti avrebbe espresso, era rivolta agli emendamenti e non all’art. 10 della proposta, ma abilmente giocò ad aver frainteso (e quindi a confondere gli altri) che le tesi di Modigliani e Turati fossero volte a sostenere la proposta della Giunta del regolamento. Evidentemente non gradiva neanche l’improbabile autoconvocazione che fu approvata, come avrebbe dimostrato con lo scioglimento anticipato del 1921.

[2] Modigliani invitava i membri liberali e popolari della Giunta a dialogare con i presentatori degli emendamenti, ma indirettamente anche con Giolitti. Oltre che essere corretta dal punto di vista parlamentare, questa posizione di Modigliani sortiva l’effetto politico di non far apparire le proposte in discussione come proposte della sola minoranza socialista, cui si contrapponeva la costellazione liberale. Perché in effetti così non era; c’era però questo rischio in seguito all’intervento di Giolitti solo sugli emendamenti e non sul testo proposto dalla Giunta.

[3] Parlava sulla sua proposta emendativa.

[4] Matteotti si riferiva all’ordinaria attività legislativa, svolta semplicemente presupponendo la presenza del numero legale.

[5] In effetti, il T.U. della legge comunale e provinciale del 21 maggio 1908, nel testo vigente al 1908, al terzo comma dell’art. 119 riporta la norma seguente:

[Il consiglio comunale] può riunirsi straordinariamente per determinazione del sindaco […] o per deliberazione della giunta municipale, o per domanda di una terza parte dei consiglieri”.

[6] Non è esatto, occorreva la maggioranza assoluta.

[7] Lo stesso giorno, vi furono delle comunicazioni del Governo e la relativa discussione sui fatti che si erano verificati la mattina a Sarzana. Uno dei rari casi in cui si tentò di applicare la legge e contrapporre le forze dell’ordine all’azione delle squadre fasciste.

[8] Matteotti qui conclude la sua interpretazione del pensiero di Celesia.

[9] Si riferisce ad Einaudi.

[10] Vi è qui accennato da Matteotti un liberismo economico fondato eticamente.

[11] È qui spiegata la ragione decisiva della mancata assunzione di responsabilità di governo da parte dei socialisti riformisti. Il perseguire una politica economica di conservazione del privilegio, quando questa non fu più praticabile in un sistema di reale democrazia parlamentare (giacché la Camera elettiva, detentrice del nesso fiduciario, si era dotata di efficienti meccanismi di istruttoria legislativa e controllo dell’Esecutivo), portò all’ascesa del fascismo.

[12] La discussione dei bilanci alla Camera: un’altra illusione.

[13] Si veda il suo articolo sulla «Critica Sociale», supra.

[14] Intesa come il gruppo parlamentare omonimo.

[15] Appena chiesta del Presidente Facta.

[16] Composta da: Salandra, Presidente e relatore della maggioranza, Matteotti, relatore della minoranza, Bertone, segretario, Bonomi, Colosimo, De Nava, Fera, Lazzari, Paratore.

[17] Si riportano i corsivi, le maiuscole e le note (opportunamente segnalate) del documento.

[18] Matteotti sa benissimo che, senza una delega di pieni poteri, il fascismo non avrebbe potuto mantenere l’abito di legalità che aveva da poco e parzialmente indossato; ma vuole mettere in risalto l’ipocrisia di volere conciliare l’illegalità con il suo opposto, attraverso istituti giuridici estremi e scardinanti il sistema costituzionale.

[19] [nota originaria del documento]: “Riassumendo per esempio le numerose discussioni dei bilanci in una sola; affermando in seduta plenaria soltanto i princìpi fondamentali e direttivi di ciascuna legge o questione, affidando la conseguente formulazione a commissioni; e simili”.

[20] Le oligarchie economiche.

[21] Con le riforme regolamentari del luglio 1920, con gli accordi e le norme regolamentari di secondo livello successive, con le riforme del regolamento del giugno del 1922.

[22] La stessa Commissione speciale nominata sul disegno di legge n. 1810.

[23] [nota originaria del documento]: “Nel 1894 la Commissione parlamentare [speciale, istituita per concedere i pieni poteri] introdusse il seguente articolo 9: “Nel caso di scioglimento della Camera, con la pubblicazione del relativo decreto, cesseranno le facoltà straordinarie concesse al Governo con la presente legge”.

[24] [nota originaria del documento]: “In altri casi, per la formazione dei Codici, la indicazione era data da un progetto base e dalla somma delle discussioni sopra quello avvenute. Il Governo ha invece dichiarato che i progetti attuali tributari per es., gli serviranno come uno degli elementi, non come criterio di guida”.

[25] [nota originaria del documento]: “La relazione Bonasi, all’art. 1 del Governo Crispi, opponeva quindi i seguenti:

Art. 1.

Per provvedere alla semplificazione amministrativa, al decentramento dei pubblici servizi ed alla riduzione delle spese, il Governo del Re, entro un anno dalla pubblicazione dalla presente legge, è autorizzato a procedere per decreti reali alla riforma ed al riordinamento delle amministrazioni civili e militari, nei limiti e sotto le condizioni di cui nei seguenti articoli.

Art. 2.

Salve le attuali circoscrizioni territoriali dei comuni o delle province, il Governo potrà introdurre nelle leggi, negli ordinamenti e negli organici di tutti i rami della pubblica amministrazione le riforme e modificazioni necessarie:

  • per diminuire le spese obbligatorie dei comuni e delle province;
  • per semplificare e rendere meno costosi la riscossione delle imposte ed i servizi di tesoreria;
  • per procedere alla riunione degli uffici e servizi amministrativi e tecnici, che raggruppati possano più speditamente e con minor dispendio funzionare;
  • per rendere onorarie funzioni amministrative ora retribuite;
  • per deferire, sotto il presidio di guarentigie giuridiche, la definizione di tutti gli affari riguardanti i comuni, le province e le opere pie ed i consorzi a corpi o collegi locali, salvo al Governo il diritto di annullamento per inosservanza di forme e per violazione di legge, ed agli interessati il ricorso per illegittimità;
  • per demandare, sotto le guarentigie e salvi i rimedi di cui al numero precedente, alle autorità governative locali, tutte le attribuzioni che per la natura e la importanza loro non siano necessariamente di spettanza dell’amministrazione centrale;
  • per sopprimere o riformare gli uffizi amministrativi centrali ed i corpi consultivi addetti ai singoli dicasteri, che in seguito alle riforme si riconoscano superflui;
  • per estendere e completare le guarentigie di indipendenza della magistratura, e modificare le disposizioni delle leggi vigenti sull’ordinamento giudiziario in relazione ai limiti delle competenze, alle piante organiche ed alle circoscrizioni giurisdizionali, per ottenere tutte le economie compatibili colla retta e spedita amministrazione della giustizia;
  • per riformare le leggi organiche dell’istruzione elementare, secondaria e tecnica, onde conseguire, col miglioramento degli insegnamenti, un risparmio di spese; per riformare o trasformare gli istituti superiori di pubblica istruzione, conciliando l’interesse scientifico con quello della economia;
  • per modificare le leggi sull’ordinamento dell’esercito e dell’armata allo scopo di ridurne le spese senza pregiudizio della difesa interna ed esterna dello Stato.

Il Governo potrà altresì modificare le leggi e gli ordinamenti per la giustizia amministrativa per coordinarli alle maggiori guarentigie di cui sarà presidiata l’amministrazione.

Art. 3.

Nessuna innovazione il Governo potrà attuare se non sia coordinata ad una riforma la quale in complesso apporti una riduzione delle spese attualmente stanziate nel bilancio dello Stato o che importi, sotto qualsivoglia forma, maggiori aggravi a carico dei comuni o delle province.

Art. 4.

Il Governo per procedere ai riordinamenti ed alle riforme di cui nei precedenti articoli, sarà assistito da una Commissione composta di cinque senatori e cinque deputati eletti dalle rispettive Assemblee e di cinque alti funzionari dello Stato da designarsi dal Consiglio dei ministri.

Di ciascuna adunanza della Commissione sarà compilato processo verbale contenente i pareri espressi”.

[26] Predisposta dalla Commissione finanze e tesoro, di cui Matteotti era membro.

[27] Sono passati 88 anni invano?