Alle origini del partito c’era stata una precisa corrispondenza tra la struttura, organizzatasi pressoché spontaneamente, e l’assunto ideologico marxista, nella versione evoluzionistica offerta dal gruppo della Critica Sociale. Secondo tale assunto, l’emancipazione del proletariato doveva organizzare lo strumento della sua emancipazione, il partito, come emancipazione di se medesimo, cioè come organizzazione specifica dei propri interessi sociali, senza commistioni con altre classi. Il partito doveva nascere (e così nacque) come organizzazione della classe operaia. In linea teorica, il Partito operaio, “esclusivista“, come fu anche definito, rappresentava il modello puro, perfetto del partito di classe. La sua “esclusività” recava in sé, tuttavia, una tendenza di natura corporativa, sostanzialmente isolazionistica e prepolitica che alla lunga non era sostenibile, soprattutto rispetto ai nuovi problemi, ed alle nuove possibilità, insorgenti dallo svilupparsi dalle istituzioni della democrazia rappresentativa.
Di conseguenza, il partito fu composto non più esclusivamente dagli operai o, meglio, dalle associazioni sociali della classe lavoratrice, ma, successivamente, anche da quegli intellettuali che, da singoli o in gruppo, avevano preso la decisione di sostenere ideologicamente e politicamente il socialismo. La logica conseguenza di tutto ciò fu la trasformazione del Partito operaio in Partito dei lavoratori (1892) e poi in Partito socialista italiano (1894).
Un impulso decisivo a questo processo era derivato dall’occasione offerta al sorgente partito di classe dalle competizioni elettorali. Il Partito operaio già all’inizio del decennio che va dal 1880 al 1890 aveva colto al balzo questa occasione, decidendo di avvalersi del diritto di voto per rappresentare direttamente i propri interessi e le proprie istanze politiche, senza delegarle ad altre formazioni, rappresentative di altri interessi sociali.
Accadeva così in Italia quanto era già avvenuto in larga misura da altre parti dell’Europa. Lo stesso Engels aveva osservato, nella prefazione all’edizione italiana della sua opera La lotta di classe in Francia, che laddove, come in Germania, s’era offerta questa possibilità di usufruire del diritto di voto, il movimento dei lavoratori non s’era lasciato pregare due volte, ed aveva immediatamente operato una scelta favorevole alla partecipazione alle competizioni elettorali.
Una scelta di questa natura comportava due ordini di conseguenze. Innanzitutto, infatti, determinava necessariamente una separazione netta, in forme più o meno traumatiche, a seconda delle circostanze, con le posizioni anarchiche e rivoluzionarie.
In secondo luogo, determinava, più o meno consapevolmente, una scelta definitiva a favore dell’assunzione di un modello di partito, che era quello del partito di massa: quel tipo di partito che dal punto di vista sociologico e dal punto di vista storico-politico era destinato ad essere il soggetto nuovo dello scenario politico dell’Europa, e non soltanto di essa.
Il modello del partito di massa si contrapponeva a quello del partito elitario ad esso preesistente, formazione politica tipica della classe borghese, e del ceto politico da essa derivante. Il partito elitario, borghese, era sorto in funzione degli interessi elettorali di un ceto ristretto: era circoscritto sostanzialmente a quella minoranza sociale che per censo o per cultura aveva diritto al voto; e si organizzava in strutture dalla vita più o meno effimera ed episodica, cioè circoli, “caucus“, club.
A questi potevano aggiungersi, come strumenti anch’essi di azione politica, oltre che di elaborazione culturale e di propaganda, i giornali e le riviste. Inoltre, avevano acquistato una soggettività politica anche i gruppi parlamentari che raccoglievano o coordinavano gli eletti. Queste strutture politiche erano filiazioni delle istituzioni rappresentative, e nascevano come organizzazioni ristrette, composte generalmente dagli eletti e dai loro elettori, la maggior parte dei quali di ceto borghese. Erano, i partiti elitari, i padri e i figli insieme delle rivoluzioni borghesi del XVII secolo in Gran Bretagna e del XVIII secolo in Francia e in America.
Il partito di massa che sorge, come espressione soprattutto della classe operaia, era figlio invece della Rivoluzione industriale, ed era composto sostanzialmente da chi non aveva diritto al voto e reclamava per ottenerlo; ed avendolo, lo usava per eleggere i propri rappresentanti in quelle istituzioni rappresentative, parlamentari o comunali, dalle quali erano in precedenza esclusi.
Si trattava originariamente di partiti “extraistituzionali“, perché sorti fuori del ceto sociale che egemonizzava le istituzioni rappresentative: in esso si manifestarono due tendenze opposte che dovevano, alla fine, divaricarsi e separarsi traumaticamente. Una tendenza che accettava questa situazione di extraistituzionalità, scegliendo una strada antilegalitaria, e rifiutando di reclamare un allargamento della rappresentanza istituzionale alle classi che ne erano escluse; ed una tendenza che si rivolse a rivendicare il diritto delle masse a partecipare alla vita delle istituzioni, ad usufruire cioè delle armi della legalità per acquisire quelle rappresentanze istituzionali che erano fino allora negate. E a tal fine giunse ad organizzarsi, in modo spontaneo, quale struttura prima sindacale-politica, e successivamente come partito politico di massa, attraverso lo strumento dell’associazionismo spontaneo.
In tal modo fu questa seconda tendenza, legalitaria ed evoluzionista, a dar corpo, concretamente, a quel modello di partito che rinnovò profondamente – sia dal punto di vista sociologico, sia dal punto di vista storico-politico – la tipologia tradizionale del partito politico elitario e borghese, introducendo il modello del moderno partito popolare di massa, con una sua organizzazione permanente, una sua propaganda continua, con suoi militanti e dirigenti organicamente dediti all’azione politica del partito. All’opposto, la tendenza extralegale, anarchica prima, e poi definita rivoluzionaria, finì per ripiegare su un tipo di organizzazione ristretta ed elitaria, modellata secondo criteri cospirativi e militari, o paramilitari, che non si distaccava sostanzialmente da tipi analoghi, conosciuti nel passato, di partiti rivoluzionari, con l’unica innovazione – introdotta successivamente dal leninismo, o, comunque, da questo teorizzata – della figura dei “rivoluzionari di professione“: figura analizzata lucidamente in un suo fondamentale studio da Luciano Pellicani.
Si può affermare, dunque, che, sotto il profilo della struttura, sia stata la tendenza legalitaria a produrre nelle società occidentali un modello di organizzazione politica realmente “rivoluzionario” rispetto al passato, cioè rispetto ai soggetti politici tradizionali dei partiti elitari e borghesi.
Mentre, sotto questo profilo, la tendenza “rivoluzionaria” e stata tutt’altro che innovatrice, o, almeno, non lo è stata in misura analoga. Comunque, nel corso di circa centocinquant’anni, il soggetto politico nuovo che ha dominato lo scenario europeo – e che ha finito per imporre la propria specifica struttura organizzativa e funzionale e i propri sistemi di propaganda anche ad altre formazioni e movimenti politici (da quelli cattolici a quelli fascisti) – è stato il modello di partito insorto dalla tendenza legalitaria del movimento operaio, cioè dalla sua ala socialista (o laburista, per ciò che riguarda l’esperienza inglese). In Italia, l’occasione per dare il via a questo processo rinnovatore del sistema politico fu data dalla legge elettorale del 1882, che estendeva in una qualche maggiore misura il suffragio, e permetteva al Partito operaio di tentare la via della competizione elettorale.
Il Partito operaio non solo divenne “elezionista”, ma questa scelta ebbe un riflesso permanente sulla struttura del partito classista. Ce lo dimostra tutta una serie di avvenimenti, Piccoli o grandi, compiuti da quel partito e dalle associazioni che vi aderivano, atti che, oltretutto, rendono palese la consapevolezza che i militanti e i dirigenti del partito ebbero del rapporto tra scelta elettorale e struttura del loro partito.
Si legge ad esempio nel manifesto che il Circolo Operaio Milanese – apertamente elezionista – indirizzò proprio nel 1882 agli operai di città e di campagna: “L’indipendenza e la diversità dagli altri partiti sta in ciò che in questi ultimi, finita la campagna elettorale, vincitori e vinti assieme si avvolgono nella cappa del silenzio lasciando ovunque il tempo che trovano; il Partito operaio invece resta permanente, perché essendo tutti i giorni sfruttato e umiliato nei suoi singoli individui, giornalmente deve combattere sulla breccia per la rivendicazione completa di tutto ciò che gli spetta. Due sono le azioni del Partito operaio in un solo programma: Azione contro lo Stato; Azione contro il capitale”.
In queste frasi emerge:
a) Il concetto di organizzazione permanente, caratteristica del partito di massa che si viene formando;
b) La distinzione tra Stato e capitale, come obiettivi dell’azione politica del partito, ma separati tra di loro. Ciò evidenzia il distacco dalla concezione marxista ortodossa, che identificava Stato e capitale: distacco inevitabile e necessario per un partito “elezionista” che s’avviava alla “lunga marcia attraverso le istituzioni”.
L’ingresso degli intellettuali “fuoriusciti dalla borghesia” agì però sulla struttura associativa operaia – ereditata dal Partito operaio esclusivista – come una sorta di grimaldello.
Una volta introdotte alcune fondamentali innovazioni strutturali, come quella della facoltà di adesione individuale, e come quella della creazione della rete territoriale di sezioni e circoli, veniva necessariamente attenuandosi la possibilità di vagliare se coloro che chiedevano la iscrizione al partito, e la ottenevano, erano effettivamente “intellettuali” ed erano effettivamente “fuoriusciti dalla borghesia“. Come distinguerli? E chi aveva la facoltà e la possibilità di farlo? Tra l’altro, in un paese in cui l’analfabetismo era largamente diffuso, nel quale gli studenti, i laureati, i professori erano poco più di una élite, chi poteva dirsi o essere detto intellettuale?
Lo era più Enrico Ferri, professore, avvocato, giornalista, scrittore ed oratore di larga fama, di origine borghese, o lo era di più Costantino Lazzari, di famiglia operaia, che aveva studiato fino al ginnasio, di professione commesso viaggiatore, dirigente del Partito operaio, e poi del Partito socialista? Lo era di più lo studente innamorato degli ideali del socialismo, o il medico ed il maestro elementare che accompagnavano la milizia politica con l’azione professionale dagli indubbi risvolti sociali?
E come sceverare il buono dal cattivo, il facinoroso dal generoso, l’opportunista che s’infilava nel partito per farvi carriera, pensando di soverchiare con la sua cultura operai e contadini semianalfabeti, dall’idealista che assumendo qualifica di “socialista” veniva ad essere danneggiato nella sua professione e nelle sue relazioni sociali? La distinzione tra i due momenti era resa ancora più esplicita nei passi successivi del manifesto, laddove veniva affermato che indipendenza e diversità del partito non deve significare affatto isolamento. “Nella prima azione – così si dichiarava – può coalizzarsi con altri partiti per un’azione comune, giacché le riforme che allora propugna assumono un’importanza nazionale ed umanitaria e perciò non possono ritenersi esclusive di una sola classe di cittadini“. Per l’azione di fronte allo Stato, il Partito operaio aveva formulato e approvato un programma che vale la pena di ricordare, per la modernità delle sue rivendicazioni: libertà di sciopero; suffragio universale; libertà d’insegnamento; completa autonomia comunale; istituzione di una tassa unica e progressiva sui capitali e sulle rendite; abolizione del fondo per i culti; fratellanza ed indipendenza di tutti i popoli.
Gran parte di questo programma sarà ripreso nel programma minimo che il PSI assunse all’inizio di questo secolo come parametro per la sua azione politica e parlamentare. Sul piano strutturale e sul piano programmatico c’era nel Partito operaio tutto il fondamento del Partito dei lavoratori e del Partito socialista che da esso filieranno.
L’innovazione che differenzierà questi partiti dal loro ceppo d’origine, il Partito operaio, fu quella che permise l’inserimento organico degli intellettuali “socialisti“, inserimento che doveva portare rapidamente ad altre due innovazioni consequenziali: la facoltà di iscrizione individuale, al posto dell’iscrizione attraverso le associazioni; il diffondersi delle organizzazioni territoriali – “orizzontali” – basate sulla “sezione” di partito.
Il punto di passaggio cruciale, nel rapporto tra organizzazione operaia ed intellettuali, si ebbe nel 1886, in occasione delle elezioni che si tennero in quell’anno. La candidatura operaia fu affidata ad un capostazione dei tram, Giuseppe Berretta; ma, nel medesimo tempo, gli operai decisero di votare anche per un altro candidato, che operaio non era, ma intellettuale, Gnocchi Viani. Così veniva meno la discriminante “esclusivista” e si prefigurava la congiunzione tra struttura operaia (di città e di campagna) con il ceto politico degli intellettuali. “Si sentì il bisogno di buoni candidati, di buoni propagandisti, gli operai non potevano più bastare all’uopo“, commenta il Michels, aggiungendo: “Le elezioni segnarono una tappa importante nella storia del partito, dimostrando che l’idea operaia come tale alla lunga non basta, politicamente parlando, a dar corpo ed anima a un partito politico di aspirazioni non solo effimere: l’esclusivismo operaio s’infranse“.
Con questi ed altri consimili episodi si preparava, dunque, quell’innesto degli intellettuali nelle strutture dell’associazionismo operaio da cui nasceva la struttura del nuovo partito, che si definiva come socialista. È fuori di dubbio che, fin dalla costituzione del PSI, numerosi studenti, professori, professionisti accorsero nelle sue fila. Tuttavia le statistiche non ci soccorrono a quantificare l’entità della loro presenza. L’unica rilevazione che offre una certa completezza risale al 1903. Si tratta delle cifre relative alle risposte date a un questionario distribuito tra le sezioni del PSI, e riportate dal Michels.
Da esse risultano le risposte di 803 sezioni, raccolte alla data del 31 dicembre 1903. Gli iscritti risultavano essere 33.686, dei quali 32.169 uomini e 547 donne (alle quali dovevano aggiungersi circa altre 600 donne organizzate nei circoli femminili socialisti).
Per quel che riguarda la composizione sociale degli aderenti, risultavano i seguenti dati:
42,27% | Operai |
14,92% | Artigiani |
21,00% | Contadini |
3,3 % | Impiegati |
4,89% | Possidenti |
2,72% | Professionisti |
1,08% | Studenti |
9,65% | Di professione non dichiarata |
Da questi dati risultava, in sostanza, che circa un quarto degli iscritti, a quella data, era costituito da persone non appartenenti alle categorie dei lavori non dipendenti, o alla categoria degli artigiani.
Si tratta di una percentuale elevata per quel tempo, se si tiene conto che le categorie “terziarie” risultavano all’epoca notevolmente ridotte nella composizione della società italiana. E si era appena al 1903, quando il numero degli iscritti era inferiore ai 40.000.
Nei due decenni successivi, le adesioni crebbero, fino a che il numero degli aderenti raggiunse i circa 100.000 del dopoguerra; ed è probabile che la composizione sociale si sia sempre di più qualificata con la presenza di fasce più consistenti di iscritti non appartenenti alla classe lavoratrice. Iscritti non qualificabili in gran parte neppure come intellettuali o professionisti.
Se si paragona questo tipo di composizione sociale presente nella struttura territoriale con quella ovviamente molto più omogenea delle strutture sindacali, si può giungere a individuare in tale composizione la ragione della notevole “mobilità” politica che si registra nella storia dei vari congressi PSI, di fronte alla sostanziale “stabilità” dell’orientamento politico riformistico della Confederazione del lavoro. Infatti, mentre nei congressi avvenivano continue oscillazioni di linea politica, quando non addirittura clamorosi cambiamenti di rotta, l’orientamento riformista della Confederazione del lavoro – le cui strutture erano più direttamente rappresentative della classe lavoratrice – restò sostanzialmente immutato nel corso delle varie fasi politiche che si andavano succedendo.
C’è, infine, da annotare la diversa composizione, rispetto alle istanze politiche e sindacali, del gruppo parlamentare. Esso fu sempre, in larga maggioranza, di estrazione sociale non operaia, o contadina, o artigiana, bensì borghese e in genere formata da professionisti e da intellettuali. Vi furono anche prestigiosi parlamentari socialisti di origine operaia (come Rigola, Lazzari ecc.) ma furono sempre in minoranza. Lo stesso può dirsi del gruppo dirigente del partito, nel quale furono sempre decisamente prevalenti i leader intellettuali su quelli di origine operaia e contadina.
Se si paragona la struttura della organizzazione socialista ad una piramide, abbiamo alla base la struttura sindacale composta da lavoratori dipendenti operai, contadini e impiegati; nella fascia intermedia una struttura territoriale (sezioni, circoli ecc.) in cui gli aderenti di origine borghese costituiscono una forte minoranza; e un vertice (direzione del partito, gruppo parlamentare) nel quale l’elemento intellettuale, o comunque professionale – professori, giornalisti, avvocati, medici, è nettamente prevalente.
Per seguire il modello di Michels, si può affermare che non solo gli intellettuali “spostati” trovano piena accoglienza nel partito dei lavoratori, ma ne formano in permanenza la maggioranza del gruppo dirigente.
Il partito a struttura cosiddetta “diretta“, basato sul tesseramento individuale, era ufficialmente nato al congresso di Parma, tenutosi il 13 gennaio 1895, nonostante che in quel momento esso fosse stato disciolto dalle autorità. La ragione di questa scelta, di natura più contingente, fu appunto quella di distinguere l’organizzazione politica dalle organizzazioni economiche (camere del lavoro, leghe, mutue, cooperative), per sottrarre queste ultime alle conseguenze della repressione politica; distinguendo l’adesione alle associazioni economiche dall’adesione al partito.
La ragione, più profonda, stava nel fatto che, superato l’esclusivismo operaio, non c’era più motivo per ammettere le adesioni individuali. Tant’è vero che, passato il momento della repressione, rimase la struttura basata sull’iscrizione individuale.
La mozione del congresso di Parma affermava: “I socialisti Italiani, raccolti nel Partito socialista italiano, per lo svolgimento del proprio programma, deliberano di esplicare la propria azione politica mediante gruppi locali a base di adesioni personali col pagamento di L. 1,20 annue“. La struttura “diretta” è però più apparente che reale, perché il PSI mantiene uno stretto collegamento con le organizzazioni economiche nelle quali sono raccolti in numero molto più vasto i lavoratori delle varie categorie. Quindi il PSI, fin dai suoi albori, si configura come un partito che più correttamente si può definire a struttura “mista“, che vede a fianco della struttura territoriale e diretta una costellazione di organizzazioni di classe, ramificate in un numero amplissimo di categorie sociali, e a seconda delle varie funzioni esplicate, da quella sindacale a quella cooperativa.
Il passaggio dal sistema di adesioni per associazioni a quello delle adesioni individuali conduce a un calo degli iscritti: dai dati forniti da Michels nel suo studio Proletariato e borghesia nel movimento socialista italiano del 1908 egli indica in 131.000 il numero degli iscritti nel 1892, e in 107.000 quello del 1893. Mentre nel 1896 erano scesi a 21.000. Lo scarto era dovuto al fatto che fino al 1895, data del congresso di Parma, si conteggiavano le adesioni attraverso le associazioni, che contavano per gli iscritti a ciascuna di esse, per cui la somma complessiva comprendeva anche chi aderendo alle singole associazioni risultava iscritto al partito, anche se in realtà non avrebbe dato ad esso la propria adesione personale.
Nel 1897 gli iscritti salgono a 27.281, mentre il numero delle sezioni cresce da 450 a 623. Nel 1900, all’indomani della repressione, l’organizzazione socialista mostra una flessione: gli aderenti sono calati a 19.194 e le sezioni sono diminuite a 546.
Ma pronta è la ripresa, nel nuovo clima politico dell’inizio del secolo: un anno dopo, nel 1902, salgono a 37.718 per 1070 sezioni; nel 1903 ne risultano 42.451 con 1236 sezioni; nel 1905 gli aderenti crescono ancora, fino a raggiungere la quota di 45.000 mentre discende il numero delle sezioni, che sono 1150. Già a quel momento, nonostante la rapida crescita del numero degli iscritti, più che raddoppiato rispetto a quello iniziale, e nonostante l’espansione della rete territoriale delle sezioni, la forza organizzata del PSI costituiva una minoranza dei lavoratori socialisti nel loro complesso. Osservava il Michels, nello studio suddetto, che “una gran parte degli operai di città, o per avversione alla politica quotidiana, o per questione di tattica e di principio, o per motivi individuali, non si iscrive al partito“, pur essendo socialisti, e votando, quando erano ammessi al voto per esso.
Inoltre, aggiunge il Michels, “quasi senza eccezione sono socialisti di cuore gli iscritti alle leghe dei braccianti o di piccoli affittaiuoli, sebbene solo alcuni di questi uomini siano politicamente organizzati in piena regola“.
Basti pensare che al primo grande congresso dei contadini che si tenne a Bologna nel novembre del 1901, vi convennero i rappresentanti di 320.000 soci paganti, che votarono una mozione conclusiva che si richiamava apertamente al socialismo. Si può calcolare che ai primi anni del secolo XX fossero oltre un milione i lavoratori socialisti organizzati nelle strutture economiche, di cui solo una piccola percentuale aderiva al partito. Una ragione di questo divario si può riscontrare anche nel fatto che per un gran numero di essi rappresentava un’autentica difficoltà economica sommare il costo della quota associativa pagata all’organizzazione di categoria con il costo della tessera del partito, che era, per quell’epoca, di peso non trascurabile. Ma va detto che, grazie alle quote corrisposte dai suoi iscritti, il PSI si autofinanziava, senza dover ricorrere all’aiuto di nessuno, e avendo quindi piena indipendenza economica, oltre che politica.
Tutte queste considerazioni, con il supporto dei dati forniti dal Michels, confermano che il PSI era un partito a struttura “mista” che vedeva affiancarsi alla organizzazione territoriale degli iscritti quelle organizzazioni di categoria cui erano affiliati in un numero ben maggiore lavoratori di fede e di impegno politico esplicitamente socialista. E da un gruppo parlamentare, rappresentativo del suo corpo elettorale, che manteneva una sua piena autonomia anche nei confronti della direzione del partito.
Nel 1906 gli iscritti risultarono in numero inferiore a quello dell’anno precedente: dalle votazioni congressuali nell’assise di Roma, essi risultarono meno di 35.000, mentre quelli che avevano risposto al questionario citato erano stati circa 36.000.
Dai dati riportati nei resoconti stenografici dei vari congressi fino a quello di Livorno contenuti nell’opera di Luigi Cortesi Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione 1892-1921, si ricava la seguente serie statistica degli iscritti: nel 1908, a Firenze, erano rappresentati in congresso 31.274; a Milano, nel 1910, i rappresentanti furono 24.413; a Modena, nel 1911, gli iscritti rappresentanti risultarono 24.413; a Reggio Emilia, nel 1912, erano 23.467; ad Ancona, nel 1914, erano 34.389; a Roma, nel 1918, 19.027; a Bologna, nel 1919, 66.160; a Livorno, gli iscritti rappresentanti furono 172.587.
I dati riportati sono gli unici realmente attendibili, perché risultanti dai resoconti stenografici dei congressi e sottoposti a controllo delle tendenze presenti in essi. Non danno un quadro esatto del numero complessivo degli iscritti, bensì degli iscritti rappresentati, cioè tesserati che avevano partecipato al voto congressuale. Da tali dati, tuttavia, si possono trarre delle indicazioni abbastanza significative: il numero degli iscritti che era andato scemando dal 1906 al 1912, risale molto sensibilmente tra il congresso di Reggio Emilia e quello di Ancona, in concomitanza con la conquista del partito da parte dei massimalisti e dei rivoluzionari, che imprimono un’azione “esterna” ovviamente più eclatante e spettacolare, che attira, come denuncerà Turati, anche molti “teppisti“, richiamati dall’invito alla azione di piazza e alla violenza; tra il 1914 ed il 1918, c’è una flessione notevole, dovuta al dato naturale della guerra, e della partenza per il fronte di larghe fasce di cittadini-lavoratori, dalla cessazione della propaganda di partito; la curva iscritti risale nel “biennio rosso“, in concomitanza con la massima espansione elettorale del PSI.
In conclusione, si deve sottolineare la caratteristica strutturale dell’organizzazione socialista: un modello a “forma di tridente“, costituito dall’organizzazione territoriale, che raccoglieva in una rete di entità sezionali a livello nazionale la militanza dei tesserati, e si faceva carico della propaganda, della mobilitazione politica ed elettorale; dalle strutture associative sindacali e di categoria, che avevano il compito di organizzare i lavoratori in stragrande maggioranza socialisti con le federazioni di categoria, le leghe, le cooperative, in ogni settore del mondo del lavoro, dall’industria alle campagne, alle ferrovie, alla scuola, al pubblico impiego; dal gruppo parlamentare, e accanto ad esso dallo stuolo degli amministratori socialisti, rappresentanza diretta dell’elettorato socialista, militante e non militante.
Con questa organizzazione “a tridente“, perfezionatasi con la costituzione della Confederazione Generale del Lavoro nel 1906, con la quale il PSI stabilì un patto organico di alleanza; e con la costituzione nel 1909 della Associazione nazionale degli amministratori socialisti, il PSI si creava una struttura corrispondente in modo flessibile alle varie e disparate esigenze che era chiamato a rappresentare in difesa del mondo del lavoro e come soggetto fondamentale della vita politica e parlamentare nazionale.
È il primo partito moderno, di massa, democratico del sistema politico italiano. La sua formazione e la struttura che riesce a darsi nel corso degli anni sono destinati a trasformare profondamente il sistema politico e ad avviare la moderna democrazia dei partiti in Italia.
Si deve inoltre tener presente che un limite alla crescita numerica del partito era posto anche dalla sua forte e marcata ideologizzazione. Il PSI era una formazione politica che si caratterizzava come assertrice dell’ideologia marxista, sia pure differenziandosi per le varie interpretazioni che le sue diverse tendenze davano del pensiero di Marx. Aderire al partito significava anche adesione al marxismo, fosse quello gradualista ed evoluzionista della “Critica Sociale“, fosse quello degli intransigenti, ortodosso e meccanicisticamente “rivoluzionario“, fosse quello dei sindacalisti rivoluzionari, che provarono a sposare Marx con Sorel.
Il carattere marxista del PSI veniva confermato da due eventi significativi: tanto quella tendenza che aveva spinto alle sue estreme conseguenze il suo revisionismo di stampo bernsteiniano (quella che faceva capo a Bissolati e a Bonomi); quanto l’opposta tendenza di Arturo Labriola ed Enrico Leone, che aveva sviluppato il proprio pensiero in senso revisionistico, ma in una direzione di “sinistra” rivoluzionaria e poi nazionalistica: entrambe queste tendenze furono necessitate ad abbandonare il PSI, sia pure in fasi diverse e successive. Il PSI, con tutta la sua indubbia democrazia interna, e il suo elevato spirito libertario, non tollerava tuttavia quelle forme di revisionismo radicale, che ponessero le tendenze che le professavano in antitesi con il proprio credo marxista.
Da questo punto di vista, il partito si differenziava nettamente dall’esperienza, ad esempio, del Labour Party il quale nel 1908 approvava una risoluzione che escludeva la necessità, per aderire al partito, del requisito della purezza ideologica e politica, ammettendo invece la presenza in esso di fedi ideologiche e religiose diverse. Il PSI mantenne invece una forte caratterizzazione ideologica, e manifestò la tendenza ad escludere quelle correnti che si ponessero al di fuori dell’alveo marxista.
A circa un quarto di secolo dalla sua fondazione, esso troverà nel mondo cattolico il primo soggetto politico che ne imiterà il modello strutturale, funzionale e rappresentativo: quello del Partito popolare italiano. Come iniziatore della democrazia dei partiti, e come primo fra i partiti moderni del nostro paese, la nascita, lo sviluppo e il consolidamento del PSI costituì di per sé un processo rivoluzionario. Quella rivoluzione che tanti socialisti, inseguendo un’utopia ed una chimera ideologica, cercavano in un sovvertimento totale della società e dello Stato, senza escludere la violenza, essi l’avevano in realtà già compiuta insieme con i loro compagni che avevano scelto la strada del riformismo e del gradualismo: era la rivoluzione derivante da una modificazione profonda delle strutture politiche, attuata mercé la nascita e la formazione di un partito che con la sua organizzazione e la sua azione politica portava sulla ribalta della vita nazionale, nel cuore delle istituzioni, una classe sociale che ne era stata esclusa, e che acquistava in questo modo dignità e forza di un soggetto sociale e politico protagonista della storia dell’Italia moderna.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.