LE VIE MAESTRE DEL SOCIALISMO

di Rodolfo Mondolfo

Nel centenario della nascita di Filippo Turati, in Italia i socialisti delle distinte e contrastanti correnti si adoperarono ad onorarne degnamente la memoria con tutta una serie di pubblicazioni che ne rievocassero la nobilissima figura di uomo politico, di pensatore e di scrittore. Ma la personalità di Turati, per la sua altezza e nobiltà e per l’importanza della sua azione storica, trascende la sfora del partito di cui pure fu, per lunghi decenni e nelle alterne e fortunose vicende da esso attraversate, il più eletto e significativo rappresentante, ed assume un valore nazionale che tutti gli italiani debbono riconoscere, inchinandosi reverenti alla sua memoria. Rare volte si presentò sulla scena delle lotte politiche un intelletto e un carattere di pari nobiltà e dirittura, che abbia, come lui, considerato la partecipazione alla vita politica siccome una missione e un apostolato che esiga la dedizione intiera e disinteressata dell’uomo al servizio del suo ideale, senza risparmio di fatiche, senza timore dei rischi inevitabili, senza preoccupazione delle ostilità ed ingiurie degli avversari e dell’incomprensione e ingratitudine di molti fra gli stessi compagni di lotta, sereno e costante in mezzo alle amarezze ed alle avversità

Conobbe più volte gli attacchi e le ingiurie di frazioni a lui opposte del suo partito, e conobbe le persecuzioni, il carcere, l’esilio. Nel 1898 un tribunale militare gli infligga una condanna a 18 anni di reclusione, da cui dopo 14 mesi lo liberarono la trionfale rielezione a deputato e le eloquenti manifestazioni della volontà popolare; nel 1926, a un anno dalla uccisione di Matteotti ed a breve distanza dalla morte di Anna Kuliscioff, dovette sottrarsi alle già iniziate persecuzioni fasciste con una fortunosa fuga per mare, e vivere gli ultimi suoi anni all’esilio, ove lo colse la morte nel marzo 1932. Ma di fronte a tutte le amarezze, le avversità, le persecuzioni, la sua fermezza non piegò mai, e la sua linea di condotta non subì deviazioni. Poteva dire di se stesso quello che, in un articolo del 1895, aveva scritto riguardo all’atteggiamento che doveva mantenere il partito nella lotta politica e di fronte alla reazione: “il partito non assale, ma non rincula; non provocano accolta provocazioni, ma rimane al suo posto… I suoi giornali sono sequestrati? …li sorregge con maggior lena… Si arrestano i compagni? ed esso li soccorre e li surroga. Stringe le file: uno per tutti e tutti per uno. Ogni suo atto è l’affermazione di un diritto… Dalla stessa persecuzione trae argomento per nuove propagande, dalla compressione politica fa scaturire la prova della necessità di una più vigorosa azione ed educazione politica“.

Così, all’uscita del reclusorio di Pallanza, nel 1899, riprendeva la pubblicazione interrotta della sua rivista, la Critica sociale, con un articolo che s’intitolava al motto del monaco spagnolo tornato da lunga prigionia all’insegnamento: Heri dicebamus; così più tardi, nell’esilio, continuava la lotta contro il fascismo e per la libertà, ammonendo gli ingenui e fiduciosi democratici e socialisti europei, che non sentivano ravvicinarsi del nazismo, della necessità di una vigile difesa contro i pericoli che minacciavano la libertà e la civiltà universale. Sempre la sua attività politica si manteneva costante nella stessa direzione; illuminata da una profonda fede nel suo ideale e incitata dalla voce inferiore di un alto senso del dovere, che esigeva da lui il continuato sacrificio, la perseverante dedizione alla lotta.

Se un nuovo Fiatone dovesse scriver oggi un nuovo Uomo politico, ben potrebbe nella vita e nell’esempio di Turati ritrovare elementi inspiratori, per disegnare la figura ideale del lottatore civile. Nella sua diuturna attività politica possiamo noi oggi riconoscere quelle caratteristiche che egli ritrovava nel 1920 al ripercorrere una raccolta di scritti suoi, riuniti da Alessandro Levi nel volume Trent’anni di Critica Sociale (Bologna, Zanichelli, 1921): “una comunità di pensiero, una colleganza ed unità ideale che avvicina e fonde gli anni, uno spirito, sempre il medesimo, che alita dentro“.
Questa continuità nasceva dalla unità e costanza dell’ispirazione che egli così teorizza in uno dei suoi discorsi ai congressi: “Se interroghiamo unicamente il nostro spirito, che ha una sua propria profonda personalità continuativa, e sinceramente ne accogliamo l’ispirazione, troveremo la sola coerenza che un uomo politico debba a se stesso e alla parte nella quale milita. La sola coerenza vera e degna si trova nel carattere“.

Simile eletta ispirazione morale fa dell’uomo politico un educatore che col suo esempio offre alle masse un modello di condotta sempre diretta da una profonda coscienza di responsabilità. “Noi abbiamo proclamava Turati al Congresso di Roma del 1918 un solo dovere, un dovere d’altronde assai più facile clic non sia il dare la vita per il proprio ideale: non mentire a noi stessi, non ricevere comandi che dalla nostra coscienza; sempre, di fronte alla folla che ci applaude, che ci lusinga, che ci spingerebbe a non esser noi, esser sempre sinceri. Altrimenti non siamo più un partito d’avvenire, siamo un partito decrepito, corrotto, disfatto come tutti gli altri. Ebbene, io voglio poter morire proclamando che a questi dogmi ed indizi della corruzione del mio partito io non ho dato mai il minimo contributo o consenso. Mai!“.

La propaganda socialista doveva per ciò essere sopra tutto una educazione costante dello masse proletario, che lo abilitasse alla azione politica di trasformazione della struttura sociale. Contro le concezioni sindacaliste e massimalistica, che del pari vedevano nell’infatuazione del mito rivoluzionario l’unica preparazione occorrente al proletariato – una preparazione del tutto negativa, di opposizione all’organizzazione esistente per farla crollare – Turati concepiva ed affermava la necessità di un’educazione positiva da compiere in una continua creazione costruttiva di nuove forme, di nuovi rapporti, di nuove istituzioni, in cui non solo si andasse modificando la società, oggettivamente, ma si formasse la preparazione soggettiva alla gestione sociale, con l’educazione delle coscienze, con l’orientazione delle volontà, delle esigenze, delle norme di condotta.

Da ciò era sorta in lui, già dai primi anni della sua partecipazione al movimento socialista, l’esigenza di un programma minimo, che si formasse via via, progressivamente, dalle rivendicazioni più urgenti ed immediate, rappresentanti avviamenti verso conquiste maggiori. Il programma minimo spiegava Turati in una relazione sul tema deve considerarsi, “piuttosto che come un elenco di dogmi, conio una tessera di studi e di discussioni… opera di assidua autocritica, di esame di coscienza iterato e costante… Nel suo largo giro esso offre materia a speciali piattaforme di agitazione… La vita effettiva del partito è nel movimento volontario, nel costante assiduo divenire… Per queste ragioni il programma minimo socialista deve contenere tutto ciò che serve ad organizzare ed educare economicamente, politicamente ed ammininistrativamente il proletariato a preparare, assumere e mantenere la gestione della società collettivizzata“.
C’è già qui il germe il nucleo di quel riformismo turatiano, che è in realtà programma di un concreto ed effettivo processo rivoluzionario di trasformazione storica radicale.

C’è qui appunto l’idea essenziale di una trasformazione sociale dev’essere opera diuturna e progressiva creazione di istituti nuovi ed educazione di coscienze, cioè trasformazione oggettiva (di cose) e soggettiva (di spiriti) ad un tempo, che si compie nell’azione e per l’azione economica e politica. Contro ogni catastrofismo e messianismo c’è qui l’idea di una rivoluzione che è trasformazione creativa, che va sostituendo alle strutture esistenti nuove strutture, coordinate in un piano progressivo, che traducono via via in atto l’ideale, in modo che ogni conquista raggiunta sia preparazione e passaggio a conquiste ulteriori: conquiste reali e positive, che si operano nelle cose e nelle coscienze insieme e per ciò sono salde e durevoli. Sono le riforme concepite come graduale attuazione di un rinnovamento totale: è una continuità di azione trasformatrice che introduce uno spirito nuovo via via in lutti i rapporti sociali; una prassi veramente e concretamente rivoluzionaria, che modifica l’ambiente e gli uomini in modo uguale e congiunto. È il concetto marxistico della prassi che si rovescia, dell’azione umana che, mossa dalle esigenze della vita, cambia le condizioni oggettive e con ciò cambia la stessa soggettività degli uomini.

Le riforme non costituiscono per ciò il contrapposto della rivoluzione perché risulta già inteso che l’essenza di una rivoluzione non consiste affatto nello scoppio di un’azione violenta, ma nella trasformazione della struttura sociale, la quale, per essere effettiva, non può operarsi di colpo, ma solo in modo graduale e progressivo. Le riforme che cambiano via via la struttura sociale sono una rivoluzione in cammino, l’unica che si compia saldamente ed in una maniera reale. In questo orientamento c’è una visione realistica della storia che supera per se stessa, nell’idea della “prassi che si rovescia“, il gretto materialismo deterministico che si esprimeva nella concezione catastrofica falsamente attribuita a Marx: quella concezione per la quale il socialismo si sarebbe prodotto automaticamente in virtù dei processi economici della concentrazione progressiva della ricchezza, della proletarizzazione e miseria crescenti delle masse, dell’intensificazione progressiva delle crisi antiche, che avrebbero condono al crollo finale della società capitalistica.

A questa visione passivistica di eventi oggettivi fatali si sostituiva quella attivistica di un processo continuo di conquiste, di una “rivoluzione in cammino”, prodotta dalla pressione energica del proletariato il quale, scriveva Turati, “si riconosceva e riconoscendosi diventava davvero uno dei massimi fattori del moderno processo economico”; ma nel tempo stesso riconosceva le condizioni e i limiti di questa sua azione storica. “Nessuna classe dominante tramonta che non abbia esaurito il suo compito; nessuna le sottentra, che non abbia le capacità tecniche, politiche, morali per compierne l’ufficio“; ecco le due proposizioni che Turati traeva dalla Critica dell’economia politica di Marx; quelle proposizioni che lo stesso Gramsci (in contrasto radicale con Lenin e seguaci) accettava poi come storicamente inoppugnabili, dichiarando che “fissano il punto catartico“; ossia esprimono il principio della maturità storica per ogni rivoluzione o trasformazione sociale decisiva.

Ma per la concezione turatiana questa coscienza del “punto catartico” non è soltanto un canone storico che deve tenerci lontani da ogni messianismo miracolistico, da ogni illusione di astratto volontarismo, da ogni fede cicca nel potere della violenza che pretenda instaurare per audacia di una minoranza, un ordine nuovo, alla cui traduzione in realtà non siano mature ne le condizioni storiche, ne, tanto meno, la coscienza delle masse; ma è anche un’esigenza spirituale di maturazione delle coscienze, che si effettua solo nello sforzo costante e nell’incessante azione, trasformatrice delle cose e di noi stessi; è un imperativo morale di partecipazione attiva delle volontà di tutta la classe proletaria nell’opera di creazione progressiva di una nuova realtà, che sia vita nuova ed esigenza irrinunciabile. “L’illusione che la Repubblica socialista (scriveva Turati nel 1918) possa ovunque crearsi e consolidarsi con un atto spontaneo e prodigioso di volontà da parte di esigue minoranze, malgrado l’incoscienza del maggior numero e senza che ne siano gradualmente apprestate le condizioni obbiettive, tecniche, economiche e morali, e sopralutto, le capacità e gli organismi proletari che ne assicurino il durevole funzionamento, svaluta e rende impossibile l’azione di conquista di tali condizioni, e distrugge quindi la possibilità della stessa effettuazione del socialismo“.

Dove si tratta della completa trasformazione dell’organismo sociale, ripeteva Turati (con Engels) al Congresso di Bologna del 1919, è necessario avere con sé le masse, già consce di che si tratta e del perché del loro concorso, che non può essere se non l’opera di un lungo ed assiduo lavoro di propaganda e di organizzazione“. “Il nucleo solido che rimane di tutte questo cose, caduche insisteva al Congresso di Livorno del 1921 e l’azione la quale non è l’illusione, il precipizio, il miracolo, la rivoluzione in un dato giorno; ma e l’abilitazione progressiva, libera, per conquiste successive, obiettive e subbiettive, della maturità proletaria alla gestione sociale. Sindacati, Cooperative, poteri comunali, azione parlamentare, coltura, ecc. ecc., tutto ciò è il socialismo che diviene. E non diviene per altre vie. Ancora una volta vi ripeto: ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola. E l’azione è la grande educatrice e pacificatrice“.

A quest’azione creatrice e trasformatrice deve perciò, secondo Turati, esser chiamato tutto il proletariato, e non solo una minoranza di avanguardia. “Ai fini del socialismo è pregiudiziale assoluta il fatto di una sempre maggiore elevazione tecnica, morale, politica del proletariato e del consolidarsi ed estendersi della coscienza proletaria di classe. Perciò il primo e più essenziale obbiettivo del partito socialista dev’essere di rinforzare il lavoro interiore di educazione, di propaganda, di organizzazione socialista” (mozione al congresso di Moderna, 1911).

Il proletariato deve considerare il valore delle riforme sopra tutto a questa triplice stregua:

1) dello sforzo e della coscienza da esso impiegati a conquistarle;

2) dell’incremento che esse rechino allo sviluppo delle sue energie di classe e della sua lotta di classe;

3) della conformità loro ai principi e alle forme consociative che formeranno la caratteristica del socialismo realizzato” (ordine del giorno al congresso di Roma, 1918).

Ora quest’esigenza dell’educazione progressiva della coscienza proletaria, questa necessità della partecipazione attiva, libera e spontanea, di lutto il proletariato all’opera della grande trasformazione sociale che dev’essere creazione di una nuova umanità consociata, non solo esclude che la traduzione in atto del socialismo possa essere opera di una minoranza ed imposizione di una dittatura; ma significa ed afferma, tanto per le masse quanto per i loro condottieri, quell’esigenza etica profonda di consapevolezza e di responsabilità che, come s’è visto innanzi, Turati considerava il primo ed essenziale dovere di chi partecipa alle lotte politiche: esser sempre se stessi sempre sinceri, non ricever comandi che dalla propria coscienza.

Ma significava ed affermava al tempo stesso l’opposizione irriducibile ad ogni corrente estremista (sindacalismo massimalista, comunismo) che considerasse la traduzione in atto del socialismo compito ed opera di una minoranza ed imposizione di una dittatura, cioè, secondo la concezione leniniana figlia della violenza.
In un discorso dell’aprile 1921, contro la violenza allora imperversante con le così dette “squadre punitive” del fascismo, Turati si opponeva all’idea di poter e dovere rispondere con ugual arma, cioè trasportar la lotta su quel terreno. Diceva allora: “Io ho sempre sostenuto che la violenza non è forza ma è la sua negazione; che la violenza è debolezza e crea la debolezza: che insulta Marx chi deriva dal suo Manifesto e dai suoi sentii una teoria di violenza, perché il socialismo ha questo di grande e di caratteristico, di essere la negazione assoluta della violenza sporadica ed episodica; che ogni conato di violenza non può essere che dannoso, che la violenza può condurre magari a qualche trionfo, ma che è dannosa per le cause che si vogliono far trionfare… la violenza nega la storia la nega non soltanto nel fatto criminoso immediato, ma sopra tutto per la paralisi mentale che produce, per lo spirito di servilismo, di terrore, di umiltà che produce negli uomini È il culto della libertà che noi vogliamo invocare; io voglio essere, concittadini, ancora per la sacra immortale libertà: per essa il socialismo vivrà, senza essa non sarà“.

Più tardi, in un discorso da lui pronunciato in esilio poco prima della sua morte e che può considerarsi quasi il suo testamento politico (Ciò che l’Italia insegna), rivedeva in parte quelle suo generose concezioni, riconoscendo che la tragica esperienza del fascismo, “espressione ultima della sopraffazione di classe, prova a luce meridiana che la violenza può giocare ancora una parte preminente e decisiva nella evoluzione e per la involuzione della società“. Il trionfo del fascismo riconosceva,”pone termine a quella che potremmo chiamare la illusione pacifista, in cui si cullarono gli spiriti più miti dello stesso socialismo: la speranza in un trapasso a nuove e più alte forme sociali relativamente agevole e sempre meno contrastato“. Di questa illusione, in realtà, Turati non era stato mai partecipe e per ciò aveva sempre reclamato (come abbiamo visto nell’articolo del 1895 sopra citato) un atteggiamento di virile fermezza di fronte alla reazione ed alle persecuzioni.

Questa fermezza (riconosceva nel 1932) può anche esigere che alla violenza della reazione, che tenta l’involuzione della società, si sia costretti ad opporre un analogo atteggiamento; ma anche in questo caso estremo la violenza ha una funzione puramente negativa ed eliminativa; non è creatrice di forme nuove di convivenza sociale. Solo la libertà, come affermava il discorso dell’aprile 1921, è creatrice; e perciò dev’essere contrapposta alla violenza distruttiva ed esaltata al di sopra di essa. “È il culto della libertà che noi vogliamo invocare; io voglio essere ancora per la sacra immortale libertà“…: così poteva, ancora e sempre, ripetere Turati fino al suo ultimo respiro, sempre convinto che (come aveva dichiarato nel 1921): “per essa il socialismo vivrà, senza essa non sarà“.

E per ciò anche nel suo testamento politico, contro l’ottuso sindacalismo corporativistico “che pone ogni sua fede nella contesa per i salari e per gli orari, …indifferente, o quasi, alle battaglie dei partiti, alla lotta per la conquista del potere, alle idealità profondamente rinnovatrici del socialismo“, reclamava l’unità della azione sindacale e della politica in “un solo organismo, un solo cuore, un’anima sola… Scindere le coscienze dall’azione, l’idea dal fatto, il cervello dal braccio, l’esercito dallo Stato maggiore è in coordinazione e paralisi”. Ma questa azione, concreta ed ideale ad un tempo, doveva “diffidare dell’utopismo scervellato e demagogico, nel migliore dei casi intempestivo e prematuro; detestare gli atteggiamenti estremisti e intransigenti, che irritano l’avversario senza ne domarlo, ne espugnarlo, e, rigettano nelle schiere reazionarie vaste zone di popolazione che non hanno alcun interesse reale a farsi manutengolo della reazione, per diventarne, l’indomani, esse pure lo zimbello e la vittima“.

Nell’avvento del fascismo vedeva Turati “la migliore riprova della vacuità e dell’errore di un certo massimalismo semplicista, che si risolve nell’imboscamento del proletario di fronte ai più urgenti ed ardenti problemi dell’ora; della bontà e necessità di quel gradualismo prudente, attivo e fattivo, che si sforza di risolvere il maggior numero di problemi operai nello stesso ambiente capitalistico, preparando ed addestrando con ciò le capacita tecniche e politiche dei lavoratori per la gestione diretta delle aziende economiche e della pubblica cosa, ossia per vittorie non effimere e definitive” (discorso del 1932). La preparazione e l’addestramento dei lavoratori alla gestione economica e politica della vita sociale era precisamente ciò che Turati aveva reclamato fin dalla sua giovinezza, quando spiegava il programma minimo come un mezzo di educazione, costante e progressiva delle masse lavoratrici, che insegnasse loro la continuità storica delle trasformazioni sociali, con la creazione di nuove condizioni, tutte coordinate e dirette a riformare la struttura sociale, e per ciò capaci di riformare anche gli spiriti tesi nello sforzo della loro conquista ed attuazione progressiva.

Era (come ho detto) il concetto di una “rivoluzione in cammino” la sola reale ed efficace, la sola capace di far procedere di pari passo la trasformazione oggettiva delle cose e quella soggettiva delle coscienze; la sola, per ciò, che possa aver sempre l’adesione e la cooperazione volenterosa delle collettività.
Ben diversa la condizione della violenta presa di possesso del potere da parte di una minoranza rivoluzionaria, audace, per imporre dittatorialmente il dominio della costituzione da lei creata alle masse impreparate e recalcitranti.
In questo caso, la libertà, lungi dall’essere regina, è asservita e resa impossibile; tutte le violenze e gli eccessi che ne derivano sono per l’appunto conseguenze del sistema e non effetto dell’arbitrio individuale, come mostrai altra volta in un articolo di commento alle rivelazioni di Krusciov e come oggi, riconoscono apertamente anche i comunisti eretici criticando le dottrine e i metodi del bolscevismo russo. Essi scoprono oggi l’esigenza della gradualità che Turati insegnava fin dal termine del secolo scorso; ed arrivano ad intendere il significato rivoluzionario (cioè profondamente trasformatore) delle riforme che vogliano essere riforme della struttura e non soltanto nella struttura, strumenti d’innovazione dinamica e non di statica conservazione. Se la storia avesse talvolta il potere d’insegnar qualcosa agli uomini, molti errori e dolori potrebbero essere evitati. Ad ogni modo può oggi riuscire profondamente ammonitrice la voce di Filippo Turati, che a più di un secolo dalla nascita di lui appare più che mai viva ed attuale.

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