VERSO LA SCISSIONE

Per dissipare ogni equivoco storiografico, va sottolineato come a Livorno si sia consumata la scissione di una minoranza.

Infatti, la successione degli eventi non può lasciare alcun dubbio. L’11 ottobre del 1920 era stato reso noto a Milano il Manifesto Programmatico della frazione comunista del PSI. Ciò accadeva poco dopo la fine dell’occupazione delle fabbriche, nella quale i comunisti avevano visto una specie di prova generale della rivoluzione dei consigli operai. Da questo punto di vista l’occupazione aveva avuto un esito che era da considerarsi fallimentare; mentre doveva essere considerato positivo per le posizioni riformistiche.

Il Manifesto Programmatico, con il quale la frazione comunista rilanciava la sua iniziativa, era firmato dagli esponenti dei vari gruppi che in essa confluivano: Bordiga, esponente del Mezzogiorno, ed ormai riconosciuto leader della frazione; Terracini, Gramsci ed altri per il gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino; Bombacci, esponente del partito nell’Italia Centrale. Il Manifesto trovò un’approvazione formale al convegno di Imola della corrente, che si tenne il 28 ed il 29 novembre successivi.

Com’è più noto, il fattore determinante della formazione della frazione (e poi della scissione) fu il rifiuto da parte degli altri settori rivoluzionari del PSI di accettare in blocco tutte le condizioni poste dal II congresso dall’Internazionale comunista (terza internazionale) per l’adesione ad essa dei singoli partiti operai nazionali: le famose 21 condizioni.

Racconta un testimone di quegli eventi, Umberto Terracini, nella sua “Intervista” raccolta da Arturo Gismondi, che in una riunione della direzione socialista, appositamente convocata, i delegati partecipanti al congresso dell’Internazionale comunista riferirono sull’argomento. Secondo Terracini: “Pronto ad accettare 20 delle 21 condizioni, Serrati (che era uno dei delegati) chiese che il PSI riconfermasse la propria adesione all’Internazionale, chiedendo a quest’ultima di sollevarlo dall’obbligo di espellere i riformisti“. (Obbligo nel quale consisteva la ventunesima condizione.)

Si contrapposero due ordini del giorno: uno, firmato da Adelchi Baratono, che formalizzava la posizione di Serrati; l’altro, di Terracini, che chiedeva la piena accettazione delle 21 condizioni. Questo secondo documento ottenne la maggioranza dei voti, compreso quello del segretario del partito, Gennari.

La decisione maggioritaria del vertice del partito fu rovesciata dalla base nel corso del dibattito nelle istanze congressuali: e ciò, nonostante che alla frazione comunista si associassero la corrente Graziadei-Narabini, e quella detta dei “terzinternazionalisti” di Maffi e Riboldi. Pertanto dalla maggioranza ottenuta in direzione, la posizione comunista uscì largamente sconfitta dal voto di base.

Cosicché l’esito del congresso (che dovette tenersi a Livorno, anziché a Firenze, per timore delle possibili violenze da parte dei fascisti) smentì categoricamente e clamorosamente la previsione fatta il 20 novembre 1920 da Zinoviev all’esecutivo dell’Internazionale comunista. Zinoviev aveva infatti dichiarato che “i comunisti di Bordiga e Terracini affermano di avere con loro dal 75 al 90 per cento del partito” e che, di conseguenza, “in questa situazione qualsiasi compromesso con Serrati sarebbe dannoso“.

La controversia con Serrati non era puramente nominalistica, o di natura esclusivamente tattica. Investiva una questione storica di importanza tutt’altro che secondaria. Infatti la motivazione per la quale l’Internazionale comunista dichiarava incompatibile la presenza dei riformisti nel seno dei partiti ad essa aderenti era che i riformisti non avevano sabotato la guerra schierandosi nei rispettivi paesi contro di essa. Questa, agli occhi dell’Internazionale comunista, era la prova che i riformisti non erano internazionalisti, perché avevano anteposto, al momento decisivo, gli interessi nazionali a quelli internazionali della classe operaia.

A questa argomentazione Serrati non opponeva un rifiuto di principio, bensì una contestazione di merito. Egli faceva presente che i riformisti Italiani, a differenza di quelli di altri paesi, non avevano affatto aderito alla guerra, anche se non l’avevano sabotata. Su tale problema, il loro atteggiamento non s’era discostato da quello del partito nel suo complesso: eccezion fatta per Bordiga. La stessa posizione di Gramsci era stata oscillante tra l’interventismo e la neutralità attiva. Se l’argomentazione dell’Internazionale doveva essere presa alla lettera, si sarebbe dovuto espellere quasi tutto il partito.

Abbandonata la strada del compromesso con lo stesso Serrati e con i massimalisti che si rifiutavano di mettere fuori dal partito Turati ed i suoi, alla frazione comunista non rimase che la strada della scissione: che risultò essere una strada minoritaria, e che tale doveva restare anche dopo la costituzione del Partito comunista d’Italia, e per molto tempo ancora, se si pone mente al fatto che ancora nel 1946 i socialisti erano elettoralmente più forti dei comunisti. (Perché questi divengano il primo partito della sinistra italiana ci vorranno gli errori dei socialisti nel secondo dopoguerra, e la conseguente scissione di Palazzo Barberini.)

Già nella vicenda della scissione di Livorno risaltano alcune caratteristiche permanenti e denotanti della storia comunista successiva. Tra di esse, principalmente, il rifiuto della regola democratica della maggioranza e l’antiriformismo. (La scissione venne compiuta perché la maggioranza si oppose alle condizioni ultimative dei comunisti, e perché si riteneva incompatibile la coesistenza con i riformisti nello stesso partito.) Inoltre, la totale consonanza del gruppo dirigente comunista con le indicazioni politiche provenienti da Mosca: ci vorranno circa sessant’anni prima che questo vincolo cominci ad attenuarsi e a dissolversi.

In ogni modo, Livorno segnò un momento altamente drammatico della storia del movimento socialista e della sinistra italiana nel suo complesso. Condusse ad una crisi di orientamento politico, di spirito di iniziativa e di azione, di forza organizzativa per l’intero movimento dei lavoratori. Apri l’epoca delle dissociazioni e delle dispersioni, alimentò, ben presto, lo scoraggiamento dei quadri, dei militanti, degli elettori. E questo avveniva proprio nel momento in cui il movimento dei lavoratori, grazie anche alla conquista del suffragio universale, aveva tutte le possibilità di assumere un ruolo decisivo nella vita nazionale e nello sviluppo della democrazia italiana.

La sua crisi fu la crisi del paese e del sistema politico che era sorto dal Risorgimento.

 

Il congresso di Livorno

Ormai Giolitti, non riuscendo a concretizzare un’intesa con i riformisti, dopo essersi esposto sul piano sociale come mai in passato, e dopo aver rotto i ponti con l’altro partito di massa, quello popolare, vedeva restringersi le basi politiche della sua maggioranza, nonostante gli obiettivi realizzati in politica estera, in politica finanziaria e sul piano parlamentare.

Un po’ per questa ragione, un po’ perché sentiva accrescersi il disagio socialista, dal quale pensava di poter trarre un vantaggio elettorale, e un po’ per sfruttare appunto il bilancio positivo del suo governo, decise di sciogliere la Camera. Il suo obiettivo era sempre quello di poter giungere ad associare i riformisti nella maggioranza, e di liberarsi dai popolari, con i quali era entrato in rotta di collisione.

I socialisti andavano a congresso dal 15 al 21 gennaio del 1921. Dopo quello della costituzione del partito, doveva essere questo il più famoso dei loro congressi: vi si consumava infatti, a Livorno, la scissione dell’ala comunista, ormai organizzatasi come un partito nel partito. La corrente comunista chiedeva l’accettazione da parte del PSI delle condizioni poste dalla Terza Internazionale per aderire ad essa e l’espulsione dei riformisti dal partito. I massimalisti erano d’accordo sulla prima questione, ma non sulla seconda, rifiutando di rompere l’unità del partito. I riformisti non erano d’accordo con la proposta di aderire all’Internazionale leninista e rifiutavano di lasciare il partito.

La mozione che prevalse fu quella massimalista con 98.020 voti, mentre ai comunisti andavano 58.783 voti e ai riformisti 14.695. Il risultato fu che i comunisti, non potendo ottenere l’allontanamento dei riformisti, presero l’iniziativa di scindersi e di fondare, riunendosi in un’altra sala di Livorno, il loro partito, il Partito comunista d’Italia.

Il fenomeno del diciannovismo, con tutta la sua coda di massimalismo intransigente e di rivoluzionarismo, costituì, ormai senza alcun dubbio, un fattore deleterio. Su di esso ricade la maggiore, anche se non esclusiva, responsabilità della sconfitta del movimento socialista, e della fine del regime democratico in Italia. Molti altri fattori concorsero a ciò. Nessuno di essi, tuttavia, fu altrettanto decisivo.

Il congresso di Livorno fu l’ultimo atto di quest’opera negativa, il risultato di una marea montante di errori che ebbero un esito catastrofico. Il Partito socialista che, nonostante tutto, era riuscito trionfalmente vincitore dalle elezioni del 1919, subiva una secessione, che al di là dei suoi dati numerici gettava disorientamento tra i militanti e gli elettori; lo indeboliva di fronte all’azione dei fascisti; apriva la strada per nuove ulteriori divisioni.

Non si condannerà mai abbastanza lo spettacolo di miopia politica, di confusione mentale, di diserzione dinnanzi alle responsabilità dei propri doveri politici e morali da parte di molti dirigenti del socialismo d’allora, in specie delle frazioni comuniste e massimaliste, che si offrì a Livorno.

L’agiografia dei decenni successivi, la storiografia di corte (è Gramsci, con la sua concezione del partito come “moderno principe”, a suggerire questo termine) coltivata nei dintorni delle segreterie di partito, negli istituti e nelle case editrici compiacenti, idealizzeranno i momenti subito successivi a quel congresso, con l’iconografia della nascita del nuovo partito rivoluzionario, il Partito comunista d’Italia.

Nulla può però giustificare il colpo scientificamente inferto al PSI e con esso al movimento dei lavoratori con l’atto secessionistico, le cui conseguenze negative si prolungheranno negli anni, per durare fino ai nostri tempi.

Il più importante strumento di lotta, di organizzazione di cultura dell’Italia moderna e civile, che aveva dato coscienza sociale ed educazione politica alle masse, che aveva conquistato per esse fondamentali diritti di libertà, tra cui il suffragio universale, veniva mandato in frantumi con un atto politico privo di ogni ragione realmente valida. In nome, cioè, di una confusa ideologia statalizzatrice e pseudorivoluzionaria; in nome dell’odio contro i valori della democrazia e della libertà individuale, che erano e saranno sempre valori perenni del socialismo; in nome di una palingenesi sociale che avrebbe dovuto costituirsi azzerando catastroficamente le conquiste rilevanti di un ventennio di lotte del mondo del lavoro.

Un passo avanti, diceva Lenin, due passi indietro. La scissione di Livorno rappresentò non uno o due passi, ma cento, mille, forse più passi indietro.

Come giustificò l’ala comunista l’iniziativa della scissione? Si disse, da parte di chi illustrò la posizione secessionista, che “la creazione del Partito comunista non è che la risoluzione del problema della creazione del partito di classe del proletariato che ha come sua meta la conquista del potere“, mentre a giudizio comunista il PSI si era formato per una lotta che non era quella medesima, cioè la lotta per conquistare il potere.

Gli stessi comunisti erano costretti a porsi la domanda: “Orbene, ci sono le condizioni materiali rivoluzionarie in Italia?“. E, ad essa, rispondevano affermativamente.

Perché – così sosteneva la frazione comunista – lo Stato borghese è in una impossibilità di funzionamento, perché la società borghese si spezza“. Questa situazione rivoluzionaria, secondo la loro opinione, sarebbe stata determinata dalla guerra che avrebbe “esasperato l’organismo di produzione“, con “le fabbriche allargate e i contadini strappati alla terra“, per cui dopo la guerra il proletariato si è trovato d’improvviso di fronte al problema assoluto e concreto della “presa di possesso del potere“. Nel frattempo “la rivoluzione mondiale ha avuto in Russia la sua prima manifestazione” con un “concetto di universalità della rivoluzione per cui nel 1917 non si è sviluppata la Rivoluzione russa, ma nel 1917 in Russia ha acquistato la sua prima forma concreta la rivoluzione mondiale“. In Italia, addirittura, “la rivoluzione già c’è“, bisogna affrettarsi a creare il partito rivoluzionario che corra a raccogliere i frutti maturi della conquista del potere che stanno per cadere dagli alberi. Il primo atto rivoluzionario era costituito dunque dalla scissione del Partito socialista che chiediamo in questo momento.

Bordiga va pure più in là, quando nel suo discorso dichiara esplicitamente che oltre al partito bisogna liquidare anche tutti gli strumenti economici e sociali creati dal PSI: il movimento cooperativistico, le organizzazioni sindacali, le istituzioni previdenziali e assistenziali. “Questi che a volte sembrano fortilizi, sono invece proprio le catene, le più sottili, ma le più tenaci, che il proletariato deve spezzare per andare alla conquista del mondo“. A spezzarle, quelle “catene“, ci penseranno altri ed in tempi molto ravvicinati.

Comunque è Bordiga che a nome della frazione comunista pone come condizione pregiudiziale l’adesione alle tesi di Mosca, ed in particolare all’articolo 21, secondo il quale dell’Internazionale comunista non possono far parte partiti socialdemocratici o che hanno nel loro seno gruppi e correnti socialdemocratiche. E per socialdemocrazia Bordiga intendeva non soltanto alcuni settori del partito, ma anche tutte quelle strutture ed organizzazioni degli interessi di classe che si erano autorganizzati nella società civile negli anni dell’esperienza riformista.

Il miraggio della rivoluzione “già in atto“; il delirio distruttivo di ogni positiva esperienza del riformismo; l’obbedienza al diktat di Mosca, furono le tre componenti di questo atteggiamento politico della frazione comunista, che condusse alla scissione e alla crisi generale del movimento dei lavoratori, nel momento più cruciale della sua storia nazionale.

I riformisti non abbandonarono invece il PSI, nel quale rimasero in nettissima minoranza, senza più alcuna reale influenza politica, costretti a subire la linea di una maggioranza “rivoluzionariaa parole, ma priva di una qualsiasi prospettiva politica.

A Livorno – ha scritto Nenni – cominciò la tragedia del proletariato italiano” e, con amarezza, ricorda: “Già a Trieste i fascisti avevano attaccato, incendiato, svaligiato le organizzazioni operaie. Da Bologna il 21 novembre si era scatenata l’ondata di assalto in tutta la valle del Po. Ma il congresso aveva altre gatte da pelare. Si parlava solo delle 21 condizioni di Mosca, dell’espulsione di Turati, del cambiamento del nome del partito… Due tesi venivano trattate: unità o scissione, socialisti o comunisti. Si evitò la scissione a destra, ma non si evitò la scissione a sinistra…“.

Si giunse così ad una situazione paradossale: i rivoluzionari socialisti restavano fianco a fianco con i riformisti. C’è da concordare con Nenni quando sottolinea l’errore dei massimalisti “che fecero dell’unità una questione sentimentale, invece di farne una questione politica, che si attaccarono alle porte di Mosca e che, per non sembrare meno rivoluzionari del nuovo Partito comunista, si ostinarono in una intransigenza accanita, anche quando avrebbero dovuto accettare la realtà: e cioè che in Italia la controrivoluzione precedeva la rivoluzione“. L’andamento del congresso di Livorno ha dato occasione agli storici della sinistra italiana per un’approfondita riflessione sul ruolo e la funzione storica del massimalismo. Gli studiosi d’ogni parte e d’ogni scuola convengono nell’esprimere un giudizio negativo. Da Arfé a Galli, da Nenni al Benzoni e a molti altri, si sottolinea concordemente la vacuità della strategia massimalista, seppur ve ne fosse una degna di questo nome.

Tali considerazioni non pongono certamente in questione l’onestà personale, la dedizione alla causa socialista, il coraggio personale, anche fisico degli esponenti e dei militanti in genere di tale tendenza. Molti di essi pagarono a duro prezzo la fedeltà alle loro idee politiche, con l’esilio o con il carcere.

Né pone in questione l’analisi, che pur dev’essere richiamata, delle condizioni obiettive, economiche, sociali e culturali della società italiana, specie di quella meridionale, che sole possono spiegare il sorgere di un sentimento massimalistico, il mito di una intransigenza rivoluzionaria, addirittura onirica, e, con essa, la popolarità dei capi massimalistici nella base del partito e nel suo stesso elettorato.

Su questa popolarità dei massimalisti del “diciannovesimo“, come ebbe a battezzare la loro tendenza Nenni, fa leva, enfatizzandola, uno dei rari storici che è portato dalla sua analisi ad assolvere il massimalismo dal suoi gravi peccati di impostazione ideologica e politica. È il Giobbio, che la contrappone a quella che definisce la “profonda impopolarità della socialdemocrazia” rappresentata da Turati. Per Giobbio il massimalismo rispondeva all’ipotesi di “un partito che accetta di farsi portavoce delle masse per non perdere il contatto con esse pur sapendo di non essere in grado – perché disarmato, perché privo di organizzazione paramilitare che non si improvvisa… – di guidarle fino al termine logico delle loro rivendicazioni“.

Queste riflessioni, pur se non prive di una base di verità, si fondano su un assioma non dimostrato: quello della impopolarità nel paese della linea riformista. In realtà si scambia la minoranza dei consensi che nell’organizzazione del PSI e nei suoi congressi andava a Turati e ai suoi, di contro alla maggioranza che andava ai massimalisti e ai comunisti, prima della scissione. Il rapporto però si rovescia, quando dall’organizzazione territoriale del partito si va a considerare la presenza della tendenza riformistica nelle organizzazioni sociali ed economiche del movimento: qui, nei sindacati, nelle cooperative, in tutte le altre strutture la presenza riformista è saldamente maggioritaria. Nel movimento “reale“, dove i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura vengono direttamente organizzati, il riformismo, cioè la socialdemocrazia, come la definisce Giobbio, non è affatto impopolare.

Lo è, in quegli anni cruciali, nel partito. E però bisogna tener presente che il PSI, nella fase di massima espansione, ha raggiunto meno di 200.000 iscritti; mentre la Confederazione generale del lavoro era salita a circa 4 milioni di aderenti. Certo, non tutti erano socialisti, ma i due terzi, almeno, lo erano, e di questi la più larga maggioranza seguiva le indicazioni dei riformisti. Va inoltre considerato (come vedremo in altra parte di questo volume) che mentre le organizzazioni sociali – sindacati in testa – erano associazioni di lavoratori dipendenti, occupati e no, l’organizzazione del partito accoglieva di tutto. Forse Turati aveva esagerato, quando già nel 1912 aveva parlato di “teppisti“, ma, sicuramente, specie nel dopoguerra erano entrati nel partito, in cerca sovente di avventura, molti piccoli borghesi frustrati, ambiziosi e spregiudicati, che cercavano una personale legittimazione o anche di far carriera politica assumendo posizioni barricadiere e ostentando una psicologia e, soprattutto, una fraseologia rivoluzionaria.

Probabilmente, l’errore dei riformisti fu quello di non far valere la forza di questo retroterra sociale, ponendo il partito di fronte ad una precisa alternativa: furono nel partito, forse, eccessivamente legalitari, cioè fin troppo rispettosi di quelle decisioni congressuali alle quali erano costretti a soccombere, nella marea di demagogia e di impotente rivoluzionarismo che li travolgeva, cancellando ogni razionalità politica. Della forza di questo retroterra sociale tendenzialmente riformista, si preoccuparono, con maggiore concretezza degli stessi massimalisti, i comunisti, particolarmente dopo la scissione di Livorno.

Se l’uscita dal PSI ottenne un qualche successo di adesioni (non si dimentichi che la frazione comunista s’era andata organizzando nel partito con una forte disciplina e con un embrione di apparato da cui dovrà scaturire l’ossatura dell’apparato comunista del futuro) essa aveva avuto scarso seguito nelle organizzazioni economiche dei lavoratori, a cominciare da quella sindacale.

In questo senso va interpretata l’iniziativa con cui essi s’inserirono nell’episodio che riguardò il mondo dei lavoratori, e che fu costituito dal tentativo di giungere alla formazione della Alleanza del lavoro, dopo il febbraio del 1922.