Dalla lotta antifascista alla Costituente, Lelio Basso ha informato in maniera determinante la storia del Socialismo italiano nel Novecento. Attraverso una lucida conoscenza dei fenomeni caratteristici del Capitalismo, la sua analisi risulta ancor oggi insuperata e profondamente attuale.

di Antonio Martino*

La macchia nera procede lenta, staccando rare e velate ombre sulla scala di grigi del cielo d’Inverno. Tra dicembre e gennaio, a Milano, il buio delle nuvole concorre gagliardo con la Notte, e non sono rari quei giorni/notti in cui le ore di luce tendono paurosamente a zero. Da lontano, quel piccolo e monotono corteo potrebbe parire una teoria di governativi, infeltrati nel nero delle camice d’Ardito e dal livore dello squadrista: un’occhiata attenta, aiutata da un solitario e triste lampione a gas, distingue i particolari e chiarisce il dubbio.

Non v’è baldanza né sicumera né pittoresca appariscenza del tipo fascista. Di converso, la folla cantilena sommessa, senza alcun ardore littorio: ai fianchi umili ombrelli chiusi sostituiscono i manganelli nodosi dei Fasci. Si avvicinano. Una bara rigata dalla brina apre il triste passo. E’ un funerale! I passanti infreddoliti notano alcune stranezze, che il borghese meneghino ben conosce e schifa: bandiere rosse listate a lutto, fiocchi Lavallière che incorniciano barbe ispide, cappellacci tirati su occhi profondi e di brace. Un funerale, sì, per giunta socialista!

I marciapiedi si svuotano rapidi. Di questi tempi, simili manifestazioni- ancorché di lutto- non passano indisturbate. Le cose son cambiate, i treni arrivano in orario e ai sovversivi ormai non resta che nascondersi o scappare: il 1925 ha regalato all’Italia un dux nuovo di zecca, e i vecchi compagni dell’ex direttore dell’Avanti! sono persone non gradite nell’Italia risorta di Mussolini. Alcuni di loro, ingobbiti dagli anni nei paltò consunti, quasi quasi invidiano Anna Kuliscioff, la protagonista del funerale: tempismo perfetto per morire, all’alba della dittatura e alla fine della teoria di sconfitte proletarie che ha segnato il Dopoguerra.

Pensieri da vecchi, rintontiti dalla fatica e dal positivismo fin de siecle che ha distrutto il Socialismo italiano, pensano i (pochi) altri presenti. Sono giovani, delusi e al tempo stesso ancora più convinti dell’Idea. Il sole dell’Avvenire, per loro, non è tramontato affatto. Parlottano fitti fitti nella nebbiolina del pomeriggio, avvinghiati dalla passione e dal freddo. Una coppia, in particolare, si distingue per la foga del loro fraseggio: agli scivolamenti marchianamente romagnoli s’accorda il duro accento della Liguria, all’impeto dei vent’anni risponde la composta volontà dei trenta. Si sono appena conosciuti, ma sanno già cosa dire e, soprattutto, cosa volere.

Pietro Nenni e Lelio Basso camminano insieme, nel lugubre meriggio del 29 dicembre, fino al Cimitero Centrale. Quando la lastra fredda chiude la sepoltura, un’epoca epica e fallimentare della storia del Socialismo italiano termina per sempre, e nei presenti il ghiaccio del passaggio s’avverte nei brividi e nel pianto. I più baldi- guidati da Pietro e Lelio- gridano a mo’ di addio “Viva il Socialismo!”.

Non aspettavano altro. Dalle gradinate del camposanto calano altri e più scattanti uomini in nero: voilà i fascisti, ecco la guerra civile. Gli astanti vengono letteralmente investiti dal pazzo vigore degli squadristi: teste rotte, occhiali insanguinati, urla e alalà turbano il sacro sonno dei defunti. Nenni e Basso sono colpiti più volte, reagiscono, bestemmiano, le danno e le prendono, resistono.

Placatasi la marea, i due si salutano contandosi le ferite: sanno entrambi, perfettamente, che nel sangue è nato un legame, da compagno a compagno, destinato a segnare nel profondo la storia d’Italia.

Nato il giorno di Natale del 1903 a Varazze, in provincia di Savona, Lelio trascorre i primi anni nella tranquilla quiete borghese dell’Italietta giolittiana: il padre Ugo, insegnante, gli trasmette sin dall’infanzia la passione per la politica e l’impegno attivo nella vita del Paese. Nel turbinoso collasso della belle èpoque rivendicazioni sociali e guerre d’oltremare si inseguono a ritmo vertiginoso, e per un bimbo dalla fervida immaginazione i baffoni di Pancho Villa e il bel suol d’amore tripolino divengono un tutto avventuroso che segue, quasi anticipando, gli esotici scenari Salgariani. La folgore della guerra, però, raggiunge presto il Vecchio Continente; nel 1916 la famiglia Basso lascia la Liguria alla volta di una Milano incupita dalla disciplina bellica e dal ciclo continuo degli stabilimenti industriali.

Il tredicenne Lelio si iscrive al Regio Liceo-Ginnasio “Berchet” nel momento in cui il conflitto entra nella fase più dura e disperata: all’ombra della Madonnina si disvelano gli ingranaggi di miseria e di inganno su cui si reggeva lo Stato liberale:

“Fu così che, a poco a poco, cominciai a vedere il vero volto della guerra, le cui distruzioni e carneficine cancellavano brutalmente tutto quello che mi era stato insegnato sui valori della civiltà e del progresso. Certo io non aveva allora nessuna idea dei meccanismi dell’imperialismo, ma cominciavo a vedere da vicino dolori patimenti e ingiustizie, e cominciavo a intuire vagamente che dietro la vernice liberale della società in cui vivevo potevano nascondersi le espressioni più smaccate del privilegio e le supreme follie del nazionalismo, che imparavo in quel tempo ad odiare anche nelle manifestazioni più ingenue dei miei compagni di scuola.

Gli anni del liceo coincidono con la Vittoria e l’inizio del drammatico dopoguerra. Entrando in classe il primo ottobre del 1918 Lelio capita inconsapevolmente in una fucina di intellettualità, destinate dal Fato a vaste e varie peripezie: nel registro polveroso la bella grafia ricorda ancora i nomi di Mario Damiani e Vittorio Albasini, poi processati dal Tribunale speciale; Antonello Gerbi, nipote del leader socialista Claudio Treves; Luigi Gedda, futuro promotore dei Comitati Civici e politico di punta della prima Democrazia Cristiana.

A guidare il drappello di giovani dalle belle speranze è il professore di Storia Ugo Guido Mondolfo, distante dalla caricatura classica del socialista che fino ad allora il liceale avea incontrato in piazza. Serio, distinto, profondo e misurato, Mondolfo instaura con i “suoi” ragazzi un legame intellettuale profondo, onesto perché non fazioso: pur non parlando mai di Socialismo, attraverso il racconto marxiano del divenire storico il maestro trova nell’imberbe allievo un compagno

“Sicché finalmente, proprio grazie all’insegnamento di Mondolfo, io potevo superare il dissidio fra il mio cuore, che già batteva all’unisono con le masse che tutt’attorno si agitavano in quel tumultuoso e difficile dopoguerra, e la mia mente, educata a respingere come utopistiche e assurde le tesi socialiste: una visione più alta e matura del socialismo cominciava a profilarmisi innanzi, un socialismo fondato sulla libertà e ricco dei più alti valori morali, cui l’umanità sarebbe pervenuta attraverso un difficile cammino di lotte, di sconfitte, di eroismi e di errori.”

L’approccio con Marx, avvenendo attraverso la Storia, segna per sempre la concezione ideologica di Basso: il momento politico, pratico, non sarà mai scisso in lui dall’analisi della fase storica e delle circostanze sociali che a ciò sottendono. Lo sguardo prospettico, incatenato nel movimento eterno dell’uomo nel Tempo, permettono così ad un’intelligenza già fervida la possibilità di individuare– lo vedremo, quasi profeticamente- le trasformazioni a cui i rapporti di forza e le classi dominanti tendono spietate.

Il dopoguerra alimenta la fiamma della tensione e del disagio. Alla guerra contro l’Austriaco s’è sostituito il conflitto civile: quattro anni di macello hanno ingrassato a dismisura pochi e massacrato vilmente tanti, sicuramente troppi. E’ nelle trincee del Carso e del Piave che si prepara la lotta di classe italiana: per un fante che va all’assalto sfracellandosi v’è un industriale che conta vibrando il fruscio della cartamoneta, e al reduce che torna, disadattato e distrutto, si consegna come premio dell’immane fatica miseria, disoccupazione, fame. Use alla morte, le masse vogliono ora la vita. La Russia leninista indica l’esempio: sulle macerie dell’ordine sociale prebellico rotto in mille pezzi deve sorgere una nuova Civiltà, popolare e quindi socialista.

Il biennio rosso grida libertà. Per obbedire al richiamo fatale, Lelio si impiega come stenodattilografo e corrispondente industriale. Emancipatosi dall’ambiente familiare, il giovane si iscrive come studente-lavoratore alla facoltà di Legge della Regia Università di Pavia nel novembre 1921, quando già la situazione politica risulta radicalmente mutata in senso opposto ai desiderata proletari. Un paio di lezioni bastano a far maturare una scelta: senz’indugio chiede e ottiene la tessera del gruppo studenti socialisti.

Il quadrante della Storia ha imposto un rapido cambio di colore, e al rosso delle fabbriche occupate e degli scioperi si è sostituito il nero cupo delle squadre d’azione e delle spedizioni punitive.

La marcia su Roma e la formazione del governo Mussolini trovano Lelio diviso tra impegno politico, lavoro e aule universitarie. Nel 1923 inizia a collaborare con Critica Sociale, la rivista teorica del Socialismo italiana fondata da Filippo Turati: è l’alba di una promettente carriera di pubblicista. A Critica presto si affiancano altre e prestigiose collaborazioni; La Rivoluzione Liberale, Il Caffè, La Libertà. Conosce in questo periodo Pietro Gobetti; con Carlo Rosselli e Pietro Nenni- l’occhialuto stempiato incrociato al funerale di Anna Kuliscioff- partecipa all’esperienza della rivista Il Quarto Stato.

Attraversata la procellosa estate del delitto Matteotti, il Regime Fascista si consolida in coincidenza con la maturazione del giovane polémiste socialista: nel 1925 si laurea discutendo la tesi su La concezione della libertà in Marx. La ricerca, oltreché la pergamena, gli procura un’aggressione squadrista all’uscita dall’Ateneo a cui Basso risponde con l’avvio di una avventurosa carriera da avvocato.

Il giornalismo politico, però, è una dipendenza a cui risulta impossibile rinunciare. Alle collaborazioni precedenti aggiunge la direzione della rivista Pietre e la partecipazione al movimento clandestino Giovane Italia. La duplice esposizione- le leggi fascistissime erano appena entrate in vigore- allerta l’occhiuta rete di sorveglianza della dittatura: dopo appena tre numeri il periodico chiude i battenti e i cospiratori vengono arrestati su soffiata nella notte tra il 12 e il 13 aprile del 1928.

Processo e condanna risultano formalità: cinque anni (poi ridotti a tre) di confino all’isola di Ponza. Nell’ozio forzato della reclusione, Lelio legge oltre duemila libri e ottiene, nel 1931, la seconda laurea in Filosofia. Di quel triennio rimane fondamentale l’incontro con il pensiero di Rosa Luxemburg, che arricchirà ulteriormente la Weltanschauung marxista del confinato.

Di nuovo libero, riprende l’attività professionale e politica curando in clandestinità la gestione del Centro Interno socialista. Negli anni del consenso e dell’Impero l’attività antifascista si riduce a una tenue e però essenziale opera di mantenimento della rete sovversiva: l’avvicinamento a Giustizia e Libertà offre a Basso la possibilità di formulare una nuova idea del partito politico, in accordo con l’ascesa delle nuove generazioni immuni dalle derive incartapecorite del positivismo

“…è certo che la nostra concezione del Socialismo sta tutta fuori del quadro dei regimi democratici e borghesi dell’ottocento e del primo novecento. Abbandonare definitivamente il concetto dell’individuo così come è stato elaborato dal pensiero settecentesco e dalla rivoluzione francese, per sostituirvi quello più concreto e completo di personalità, ciascuna diversa e distinta e ciascuna centro di confluenza di rapporti sociali economici spirituali, è, se non m’inganno, un bisogno largamente diffuso fra le giovani generazioni. Ad onta di tutti i revisionismi, Marx è ancora più che mai vivo, e le più recenti interpretazioni mettono in luce appunto quel valore liberale e autonomo- ma liberale ed autonomo in senso rivoluzionario e costruttivo- che dev’essere al centro del nuovo Socialismo.”

Sfatare le nubi ideologiche sulla falsa coscienza del liberalismo costituirà uno degli sforzi maggiori del pensiero bassiano in questa fase. In nuce, appare già evidente il senso rivoluzionario e costruttivo della nuova idea di libertà sociale e sostanziale. La conflagrazione europea dell’estate 1939 trova la famiglia Basso- la moglie Lisli, spostata nel 1931, e i tre figli- all’inseguimento di Lelio, arrestato e nuovamente confinato.

Sfollato in campagna, Basso attraversa gli anni cupi del conflitto incoraggiando i contatti clandestini tra antifascisti, preparando il terreno per la risurrezione delle forze socialiste al momento dello sfascio- ormai prevedibile- del regime. Il 1943 batte l’ora fatale del Destino: nel gennaio fonda il Movimento di Unità Proletaria a Milano, plastica realizzazione di un tipo diverso e nuovo di partito di classe secondo cui “…obiettivo del movimento operaio alla caduta del fascismo non può essere il puro e semplice ritorno allo Stato democratico-borghese, ma al contrario lo sfruttamento della crisi politica per realizzare una radicale trasformazione sociale e conseguire l’accesso della classe lavoratrice al potere.”

Seppur rivoluzionario- nei metodi come nei contenuti-, il MUP deve presto adeguarsi alle esigenze della tattica politica allorché, tra luglio e settembre, il crollo del Fascismo, la disfatta militare e la conseguente occupazione germanica impongono nuove e più stringenti necessità. L’unità d’azione con il risorto Partito Socialista determina la nascita del PSIUP: Lelio entra presto in disaccordo con la gestione della direzione, e illustra il proprio punto di vista sulle colonne di un nuovo giornale, Bandiera Rossa.

Nei pochi fascicoli usciti nell’inverno-primavera 1944 traspare ancora una volta la volontà del redattore di trasformare il proletariato italiano in soggetto cosciente e protagonista attivo della vita nazionale, trasformando la Resistenza da lotta di Liberazione a effettiva conquista rivoluzionaria del potere da parte delle classi subalterne. Accanto alla teoria, però, non viene tralasciata la prassi: Basso è accanto a Sandro Pertini- a cui deve il riavvicinamento al partito- come coordinatore del PSIUP e del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia per la Lombardia durante gli interminabili mesi che precedono le insurrezioni partigiane dell’aprile 1945.

Con la Liberazione s’apre il triennio decisivo della vita politica di Lelio Basso: nominato vicesegretario del PSIUP, fonda nel ’46 Quarto Stato e alle elezioni del giugno viene eletto deputato all’Assemblea Costituente. La triade Resistenza-Repubblica-Costituente rappresenta per i socialisti la base su cui fondare la nuova Italia: in quel clima di oggettivo entusiasmo civile, Basso raggiunge l’apice della propria carriera politica partecipando felicemente ai lavori per la nuova Carta Fondamentale nella Commissione dei 75. Non si intende lo spirito della Costituzione, infatti, se si tralascia la potenza del secondo comma dell’articolo 3:

Alle speranze di quella Primavera nazionale si opposero presto le ingerenze straniere e i turpi interessi del grande Capitale. Il viaggio in America di De Gasperi e il successivo sabotaggio “economico” della Costituzione- guidato dall’ex fascista e sempre liberale Einaudi…- squarciano il velo di concordia tra gli ex alleati del CLN, divisi tra loro dalle logiche stesse della guerra fredda. Lo spartiacque del 18 aprile 1948, oltre a segnare la storia della Repubblica, certifica l’inizio della fase discendente di Basso all’interno del PSI. Contrario all’accordo elettorale con il PCI così come alla scissione saragattiana, Lelio viene a poco a poco emarginato. Non cesserà, comunque, di illuminare con la propria analisi il grigiore della reazione già allora montante:

“Così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale. L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.”

Gli anni Cinquanta sono così contraddistinti dall’ostracizzazione del partito nei confronti di una delle sue più vive intelligenze: nemmeno la de-stalinizzazione e l’avvio dell’operazione Nenni (tesa alla collaborazione di governo tra PSI e DC) riescono a reintegrare pieneamente Basso, il quale, lontano dalle beghe di Montecitorio, occupa ormai un posto importante nella riflessione politico-culturale del Socialismo internazionale.

Allontanatosi definitivamente dal PSI nel 1963, partecipa alla breve esperienza del nuovo PSIUP per poi fuoriuscire dalle logiche partitiche e dedicarsi in totus alle battaglie culturali e giuridiche. E’ l’unico italiano a partecipare al “Tribunale Russel per i crimini di guerra americani in Vietnam”, recandosi più volte in Estremo Oriente e nell’Africa subshariana, approfondendo in tali contesti i nuovi modi di conquista economica e politica dell’imperialismo americano. Gli anni Settanta lo vedono ancora in trincea per la salvaguardia dell’indipendenza nazionale dei popoli oppressi. Affidati i suoi innumerevoli libri- contati a migliaia- alla Fondazione omonima, Lelio percorre gli ultimi anni mantenendo sempre quella brillante lucidità d’analisi che lo colloca, ancora oggi, tra i più grandi intellettuali italiani del Novecento. La morte lo carpirà a Roma la mattina del 16 dicembre del 1978.

Non è un mistero, in conclusione, che la figura e l’opera di Lelio Basso sia in fondo sconosciuta: la capacità di leggere la realtà, unita alla coerenza e all’impegno verso un’Idea, rappresentano oggi un esempio insopportabile per tutto il variegato esercito di maitre-à-pensier che si colora di rosso solo per nascondere il vuoto pneumatico della propria mente. Basso è stato un socialista, un rivoluzionario, un intellettuale cosciente del proprio ruolo attivo nella dialettica del Potere: fedele all’autentico lavoro marxiano, non ha mai dimenticato il ruolo della Nazione nella lotta di affrancamento dallo sfruttamento delle classi subalterne.

“Non ho timore di confessare l’utopia del Socialismo, come non ho timore di confessare l’altra utopia, la più grande e la più pericolosa, che tutti gli uomini, come è scritto nella nostra Costituzione, avranno un giorno su questa terra pari e piena dignità sociale, saranno da tutti considerati fini e non strumenti del potere altrui.”

*Antonio Martino Vice direttore de L’intellettuale dissidente