“INTRODUZIONE AL PENSIERO POLITICO DI TURATI”

Questo scritto apparve sotto forma di una prefazione alla terza edizione de “Le vie del socialismo” editore Lacaita – 1992). La prima edizione dei testi turatiani è del 1921, curata da Mondolfo. La seconda edizione apparve nel 1966 e fu voluta da Giuseppe Faravelli, direttore della “Critica Sociale”

di Gaetano Arfè

La prima edizione di questa raccolta ebbe un curatore d’eccezione, Rodolfo Mondolfo, storico di altissimo valore della filosofia antica e al tempo stesso interprete, il maggiore e il più originale in Italia, del marxismo nella sua versione democratica e gradualista. È un filone di pensiero che non ha goduto in Italia di molta fortuna. Tra gli studiosi italiani a dedicargli specifica cura è stato Norberto Bobbio, che ha raccolto gli scritti filosofici di Mondolfo e anche quelli del giovane Eugenio Colorni, ucciso dai fascisti in Roma, alla vigilia della Liberazione presentando, gli uni e gli altri, con saggi introduttivi che sono magistrali capitoli di una storia del pensiero socialista in Italia, ancora da scrivere. Umanismo di Marx fu il titolo che Bobbio dette alla sua raccolta di saggi marxisti di Mondolfo, ma il libro apparve nel 1968, un anno decisamente non favorevole alle revisioni “socialdemocratiche” del marxismo e l’autorevolezza del curatore non fu sufficiente a destar l’attenzione dei revisionisti di segno opposto che allora tenevano fragorosamente il campo.

I testi turatiani pubblicati da Mondolfo videro anch’essi la loro prima luce in un anno, il 1921, nel quale il socialismo riformista non godeva della buona fortuna, stretto com’era tra un partito comunista appena nato, ma aggressivo, estremistico e settario, e un partito socialista a forte maggioranza massimalista, arroccato a difesa di una bigotta ortodossia rivoluzionaria riducibile a rumorosa e fiduciosa attesa che la borghesia agonizzante decedesse. La borghesia non defunse e dette decisamente avvio alla sua controrivoluzione, postuma contro la rivoluzione che non c’era stata, preventiva nei confronti di quella che si temeva o che si fingeva, secondo Turati, di temere. Ai veri e ai sedicenti rivoluzionari Mondolfo intendeva proporre, prima che fosse troppo tardi, il ritorno sulle vie maestre del socialismo riformista, documentando e esaltando la continuità di una linea politica che risaliva al congresso di Genova del 1892 e che si era sviluppava, al passo coi tempi, ma lungo un filo di mai smentita coerenza, nei tempestosi decenni che ne erano seguiti.

I fatti avevano, di regola, dato ragione a Turati anche quando i suoi compagni nei congressi gli avevano dato torto. Ed era, comunque, un fatto incontestabile che l’azione del socialismo riformista, pragmatica, ma guidata da una dottrina, aveva portato il proletariato italiano, nello spazio di meno di un trentennio a livelli di civiltà comparabili con quelli dei maggiori paesi dell’Europa liberale. L’apporto personale di Mondolfo – la sua introduzione, la trama nella quale inserì i testi scelti – non è marginale. Esso dava all’opera una compiuta organicità, ricostruendo il pensiero politico di Turati, mai esposto in saggi di lunga lena, diffuso in scritti e discorsi sempre meditati e preparati con estrema cura, ma anche sempre legati all’attualità politica. Il filosofo che mai volle avere parte attiva nella vita di partito non fu soltanto militante appassionato per tutto il secolo che egli visse e con lui il fratello Ugo Guido e la cognata, la indimenticabile signora Lavinia, fu anche osservatore politico di grande lucidità e di rara acutezza: basti ricordare la “Biblioteca di studi sociali” che egli promosse e diresse per l’editore Cappelli, nella quale apparvero, accanto a Le vie maestre di Turati, testi di cultura politica rimasti classici, dalla inchiesta a più voci, sul fascismo, da lui stesso curata, agli scritti di Antonio Labriola, di Gaetano Salvemini, di Piero Gobetti.

La seconda edizione, estesa agli anni successivi, fino alla morte di Turati, fu voluta, con gli stessi intendimenti da Giuseppe Faravelli, e apparve nel 1966, in vista del varo della “Costituente socialista“, nella quale Mondolfo, ormai novantenne e residente nella lontana Argentina, dove lo avevano portato le leggi razziali, riponeva grandi speranze. Non meno fervide, ma gravate di non infondati timori erano le speranze di Faravelli. In me, più addentro nella conoscenza di uomini e fatti, i timori prevalevano sulle speranze, anche se non incidevano sulla mia buona volontà di cooperare al buon esito dell’impresa. In realtà, la “costituente“, sotto il manto della grande, trascinante oratoria di Nenni, si ridusse, in sostanza, alla unificazione forzata tra il Partito socialista e il Partito socialdemocratico, destinata a durare meno di tre anni di travagliata e rissosa esistenza, segnata dalle percosse della ondata sessantottina e da una prova elettorale che contraddisse le rosee previsioni della vigilia. Il libro, come già in altra occasione ho avuto modo di ricordare, fu rifiutato dai maggiori editori, nonostante l’intervento personale di Giuseppe Saragat, allora Presidente della Repubblica. A stamparlo, grazie all’intervento di Pietro Piovani, fu Morano di Napoli, titolare di una casa editrice di antiche e gloriose tradizioni, ma di modeste dimensioni aziendali.

Toccò a me, su perentorio ordine di Faravelli, di aggiornare la raccolta e di approntare in tempi brevissimi i testi, d’intesa con Mondolfo, il quale, peraltro, convinto che il libro sarebbe andato a ruba, propose, col mio pieno consenso, che i diritti d’autore fossero devoluti alla Critica Sociale, afflitta da una miseria cronica, che era la croce o l’orgoglio del suo direttore Faravelli, una delle figure meno ricordate e più belle del socialismo italiano. Ed era lui, soprattutto a far fronte alle difficoltà, anche con questue condotte con lo spirito di un frate cercatore, che non conosceva le arti della lusinga e che non mancava di far balenare sui riluttanti e sugli avari la minaccia della scomunica nel nome di Filippo Turati, del quale egli si sentiva in terra l’indegno ma insostituibile rappresentante. Una sola volta salì le scale del Quirinale quando fu, per breve tempo, senatore e fu per dire a Saragat, a ringraziamento di una generosa offerta: “Da uno spilorcio come te mi sarei aspettato di meno“. Col candore del filosofo, rimasto inoffuscato attraverso i lunghi decenni della sua esistenza, Mondolfo, per l’occasione, fece anche pervenire a Nenni il suggerimento di affidarmi la segreteria del futuro partito unificato, sicuro che sarei stato fedele interprete dell’insegnamento turatiano.

Mi cadde, invece sulle spalle la direzione dell’Avanti!, fino al primo congresso mi assicurò Nenni, e la tenni per dieci anni, mancando ogni volta raccordo sul nome del successore. La prima copia del volume fu presentata a Saragat, ma gli operatori della televisione che dovevano informare il popolo dell’avvenimento, non arrivarono o arrivarono non ho chiaro il ricordo a cerimonia compiuta, suscitando le ire del Presidente. Nessun giornale italiano parlò se ho buona memoria del libro. Non gli fece calorosa accoglienza neppure il neonato partito, spasmodicamente impegnato nelle trattative per l’equa bipartizione dei posti di comando, dalla segreteria politica agli uscieri dei dirigenti del partito solo Mauro Ferri, presidente allora del gruppo parlamentare della Camera, si preoccupò di acquistarne delle copie da distribuire ai deputati. La terza edizione appare nell’anno di grazia 1992, centenario del partito socialista, ma anche l’anno nel quale l’intera sinistra di matrice socialista non vive una delle sue stagioni più felici. L’amico Lacaita, ripubblicando questo testo compie un atto che è al tempo stesso di coraggio editoriale e di meritoria fiducia nel futuro turatiano del movimento socialista italiano.

Ho l’intima convinzione che Mondolfo e Faravelli non avrebbero difficoltà ad autorizzarmi a ringraziarlo a loro nome. A Filippo Turati è toccato uno strano destino. Stimato dai suoi compagni e rispettato, anche nelle fasi delle più aspre polemiche, egli non conobbe mai la popolarità di cui goderono, anche se per brevi stagioni, alcuni dei capi della sinistra, quali Enrico Ferri, Benito Mussolini, Giacinto Menotti Serrati. Ebbe l’amicizia fedele e devota della vecchia guardia riformista ricordo per tutti, esemplare, Claudio Treves , l’affetto filiale dei giovani: di Carlo Rosselli, di Sandro Pertini, di Bruno Buozzi, di Faravelli. Fu avversato dagli intellettuali della nuova sinistra Gramsci, Togliatti prima ancora che la Terza Internazionale diffondesse programmaticamente e burocraticamente a piene mani i veleni del settarismo. A predisporre idealmente e politicamente i giovani dell’Ordine Nuovo all’accoglimento della condanna di Mosca era stato l’antipositivismo di Croce e l’antiriformismo di Salvemini, era stata la suggestionante celebrazione soreliana della violenza liberatrice e creatrice, era stato il volontarismo predicato e praticato da anarcosindacalisti e interventisti. Nella crisi del dopoguerra lo scontro era stato frontale. Per i giovani che avevano concorso a dar vita al Partito comunista d’Italia la situazione era “oggettivamente rivoluzionaria“, e chi non ci credeva era, altrettanto oggettivamente, un reazionario; per Turati e le sue motivazioni erano politiche prima che ideologi che la situazione era altrettanto “oggettivamente” riformista: era possibile, cioè, in una fase di profonda crisi sociale e politica, dove la borghesia non aveva più la forza e il proletariato non ancora la capacità di governare, concorda re un programma di ricostruzione in un quadro di avanzata democratica delle masse.

È il programma che Turati stesso delineò, solitario e inascoltato, in un discorso parlamentare, diffuso poi col titolo Rifare l’Italia. In una cosa Gramsci e Turati concordavano: che l’alternativa alle proprie rispettive proposte sarebbe stata quella di una spietata reazione di classe. La comune sconfitta non indusse i comunisti a una revisione della loro ipotesi, e non fu solo Mosca a impedirlo, e neanche ne placò il rancore settario, che non fu solo Mosca a radicare. Al congresso di Lione, che è del 1926, e dove si liquida, secondo la versione ufficiale, il settario estremismo bordighiano, si parla ancora di un blocco di forze controrivoluzionarie che va dai massimalisti ai fascisti. La tesi staliniana del “socialfascismo” divenuta dottrina ufficiale della Internazionale, non avrà bisogno di superar troppe resistenze per essere imposta. Sulla bara di Turati, morto in terra d’esilio, Togliatti deporrà un serto di insulti, che non è dettato da Stalin. Non toccò a Turati miglior fortuna postuma nell’Italia democratica. Gli echi dell’antica polemica crociana e salveminiana contro il riformismo non si erano ancora spenti, anche se i suoi effetti orano andati e andavano molto al di là delle intenzioni dell’uno come dell’altro.

A Turati politico Croce portava stima e rispetto, e in tali termini me ne parlò in un incontro che ebbi con lui, giovanissimo nel 1942, quando gli dissi che avevo scorse alcune annate della Critica Sociale. Salvemini lo ricordava con sincero e profondo affetto al suo primo primo figlio, scomparso con tutta la famiglia nel terremoto di Messina, aveva dato il nome di Filippo e sul letto di morte il suo ultimo credo, diceva era tutto nel “sermone della montagna” parlava di Turati e dei vecchi socialisti come di uomini buoni che si battevano per dare il pane ai poveri. Ma la cultura del socialismo riformista era stata da Croce oggetto di pesanti colpi e quasi di dileggio, e i pensatori socialisti da lui accreditati erano stati Sorel e Labriola e infine Gramsci. E Salvemini aveva denunciato, con una violenza che egli stesso, senza rinnegarla, riconosceva unilaterale, involuzioni corporative e settoriali del movimento operaio avallate dal Partito socialista e particolarmente dai riformisti, ai quali il suo rimprovero era quello di non essere mai stati riformisti abbastanza, di non avere, cioè, integrato il riformismo sociale col riformismo politico.

Quegli echi ancora si risentivano e non erano destinati a spegnersi perché lo storicismo crociano e il meridionalismo salveminiano non erano invenzioni cartacce, ma, ciascuno nella propria sfora, fenomeni di rilevanza storica con i quali bisognava fare i conti, e la cultura socialista, anche nelle sue espressioni più avanzate, non era, per più ragioni, malgrado di farli li fece, invece, sulla scia di Gramsci, Togliatti, e sono qui, e tutte qui, le ragioni della lunga egemonia comunista sulla cultura di sinistra italiana. Questa volta non ci furono insulti alle salme. Salvemini, vivo e pugnace non poté essere reclutato tra i “compagni dì strada“, si ripresero, anzi, contro di lui, le polemiche battute di Gramsci, ma i motivi del suo meridionalismo, e tra essi ce ne erano di quelli che colpivano nel segno, vennero ripresi e rimessi in circolo. Croce era anche lui ancora vivo, lucido e refrattario ai ripetuti tentativi di seduzione del figlio di un uomo del quale egli venerava la memoria e che era Giovanni Amendola.

Ma questo non impedì che si ideasse e si traducesse in opere una grande operazione rivolta a collegare, attraverso Gramsci, la cultura del nuovo comunismo italiano al filone di pensiero storicistico di radici hegeliane, da Francesco De Sanctis a Benedetto Croce suo malgrado passando per Labriola. E questo consentiva di relegare a margini, senza visibili forzature, la cultura della quale Turati era stato figlio. Bersaglio dorato, questa volta, non era la sua concezione democratica e gradualistica del socialismo – la politica proposta da Togliatti con la “svolta” di Salerno e coerentemente perseguita non era, nelle mutate condizioni più avanzata di quella del Turati di rifare l’Italia – ma tutta la tradizione dottrinale e politica marchiata come antiquata e subalterna, a partire dal congresso Genova del 1892. Le lettere di Labriola a Engels con i suoi giudizi sempre acuti e taglienti, ma anche acri e ingenerosi, sollecitamente pubblicate, dettero lo spunto per mettere in discussione finanche l’atto di nascita del Partito socialista italiano e la parte in esso avuta da Turati: nel suo eclettismo ideologico, nella sua transigenza politica erano i primi germi di quell’opportunismo teorico e pratico che avrebbe caratterizzato la poetica socialista e che avrebbe portato l’intero movimento alla disfatta di fronte al fascismo. Tra gli studiosi comunisti furono Gastone Manacorda, pur con qualche arretramento e, anni dopo, il più giovane Luigi Cortesi, a documentare in tutta la sua importanza l’apporto di Turati alla costituzione del Partito socialista.

Ma nell’ultimo caso come nell’altro la rivalutazione di Turati si fermo lì. Giuseppe Berti in un seminario di partito, prima di abbandonare l’ortodossia staliniana e di dedicarsi con eccellenti risultati agli studi storici, sostenne che la figura di Labriola andava espunta dal mediocre contesto della preistoria del movimento operaio italiano e vista nella sua vera luce che era quella di precursore del partito comunista. Ernesto Ragionieri depurò questa tesi e le conferì dignità scientifica e la polemica, soprattutto verbale che intrecciò allora tra lui e me, ci portò per qualche tempo a salutarci con un “viva Labriola” cui rispondevo con una “viva Turati“. In luogo di un bilancio critico che facesse oggetto di storia le varie e tormentate esperienze del socialismo italiano, si veniva così costruendo una storiografia ideologica che diveniva parte integrante di una ideologia politica rivolta a radicare tra i comunisti un patriottismo di partito di tipo sciovinistico: la scissione di Livorno, con la nascita del Partito comunista d’Italia, segnava per il movimento operaio italiano il momento del passaggio dalla preistoria alla storia, secondo un disegno provvidenziale grazie al quale anche gli errori giovanili, addebitati peraltro a Bordìga, finivano con l’assumere i segni del positivo.

A chi era nato prima dell’evento, fatto salvo il profeta Labriola, non poteva toccare che il limbo. Quelli che vi avevano assistito e non erano rimasti illuminali potevano essere oggetto di benevola tolleranza, con essi si poteva e si doveva collaborare, ma non potevano essere considerati a pieno titolo membri della comunità dei fedeli. La linea interpretativa non era esente da vistose contraddizioni. La politica del socialismo riformista nel periodo giolittiano rimaneva opportunistica e subalterna, ma Togliatti stesso rivalutava il giolittismo con un Discorso su Giolitti, peraltro non banale, riprodotto in opuscolo, largamente diffuso anche dalle organizzazioni di partito, accolto da larga parte della intellettualità italiana a sdegnarsene fu Salvemini come il segno da parte della cultura comunista di saper superare tradizionali giudizi di parte e di sapersi levare all’altezza della storia. Ancora Togliatti si faceva ritrarre sui manifesti in divisa da alpino, con la scritta “serviva la patria“, mentre De Gasperi sedeva al parlamento austriaco, ma la formula con la quale i socialisti avevano affrontata la prima guerra mondiale “né aderire, né sabotare“, veniva presentata come ambigua e, tutto sommato, capitolarda, segno di quella incapacità di scelta clamorosamente emersa col “diciannovismo“, e il discorso di Turati “Anche la nostra patria è sul Grappa“, come una manifestazione di cedi mento al “socialpatriottismo“.

Ai socialisti veniva addebitata la remissività di fronte al fascismo avanzante, veniva rimproverato il rifiuto pregiudiziale della resistenza armata alla violenza omicida dello squadrismo neanche Matteotti era risparmiato dimenticando che a rifiutarsi di identificare il fascismo come “nemico principale” – l’espressione è di Matteotti – erano stati i comunisti ed essi ancora a sconfessare il movimento degli “arditi del popolo” che fu protagonista di alcuni eroici tentativi di resistenza attiva meritatamente famoso il caso di Parma con la motivazione che non intendevano logorare le forze proletarie delle quali, peraltro, il neonato partito rappresentava una sparuta e pressocché inerme minoranza in una lotta di retroguardia contro il fascismo, quando il nemico vero era e rimaneva la borghesia. La proposta “collaborazionista” di Turati dopo la guerra si iscriveva anch’essa nella linea della passiva subalternità al nemico di classe mentre la politica di “unità nazionale“, promossa da Togliatti, veniva esaltata come un capolavoro di genialità politica, di illuminato patriottismo, di alto senso dello stato.

Sono contraddizioni stridenti, una non casuali: esse riflettono le contraddizioni inerenti a una ideologia che si muove tra la scelta, teorizzata, proclamata e, di fatto, praticata, della via nazionale e democratica al socialismo e la altrettanto teorizzata e ribadita fedeltà ai dogmi del partito guida e dello stato guida, di fatto al dettato di Stalin, padre dei popoli. È merito di Togliatti l’essersi destreggiato con superiore maestria nel difficile gioco. È sua colpa non aver spezzato la contraddizione riallacciando dialetticamente il filo della continuità con la tradizione socialista, non soltanto con quella costruita dal movimento reale delle masse, ma anche col patrimonio di idee e di valori che essa aveva affermato coi fatti. Va tuttavia riconosciuto che la pregiudiziale antiriformista negli anni che seguirono la Liberazione, i “dieci inverni” del frontismo, fu acriticamente accolta anche dai socialisti. Fedele, per la verità, alla tradizione turatiana si dichiarò Saragat e ne fece la bandiera della secessione, ma le spalle del partito cui dette vita erano troppo gracili per reggere quella eredità.

La rifiutò il partito socialista. Mi è già capitato altre volte di ricordare che nel 1952, ricorrendo il sessantesimo anniversario del congresso di Genova, Gianni Bosio che turatiano non era, ma che riteneva eticamente condannevole e politicamente controproducente il criterio della manipolazione della verità storica ideò un manifesto recante le effigie di Andrea Costa e di Turati e lo riebbe mutilato della immagine di Turati da una Direzione del partito di cui era segretario Nenni. E ancora dopo il XX congresso di Mosca quando si aprì anche in seno alla sinistra italiana un dibattito ricco e vivace, tutto ancora da ricosse, io scrissi per la “Rivista Storica del Socialismo“, di fresco nata e diretta da Luigi Cortesi e Stefano Merli con un programma di rinnovamento della metodologia e della problematica della storiografia socialista, un articolo dal titolo “Giudizi e pregiudizi su Turati“, che suscitò perplessità in redazione e a imporne la pubblicazione fu ancora Bosio, che pur nel merito dissentiva.

Oggi molto si discute, e con una superficialità che supera la tendenziosità, delle ragioni della lunga egemonia comunista su larga parte della cultura italiana. La risposta è, a mio avviso, assai semplice: essa fu il prodotto della superiore intelligenza politica di Palmiro Togliatti e della sua capacità di capire e padroneggiare i termini culturali della lotta politica. Da discutere non è la legittimità di una operazione volta a fine da conquistare e conservare una posizione egemonica nel ambito di Sinistra italiana: è l’efficacia nei tempi lunghi di operazioni del genere, anche quando sagacemente concepite e magistralmente condotte. La storiografia, ammoniva Benedetto Croce, dà l’intellectum a chi è calato nell’azione, a patto che essa proceda in piena autonomia, animata dal solo spirito della ricerca della verità. Il modello che egli indicava non era quello dello “storico puro“, ma dello studioso spinto dall’interesse per un problema storico ispirato dalla coscienza di cittadino partecipe della vita del proprio tempo, che da essa trae i criteri per interpretare una realtà i cui dati, però, non possono essere manipolati senza mortificare, svilire e, in ultima istanza, sterilizzare il problema storico e etico, dal quale si sono prese le mosse.

Queste considerazioni, perciò, non sono e comunque, non vogliono essere divagazioni stimolate dalla ondata polemica, faziosa e volgarmente strumentale contro Togliatti, mal difeso e a volte addirittura rinnegato da troppi di quelli che della sua eredità ancora vivono; scaturiscono dalla convinzione che quella eredità è ancora ricca, in positivo e in negativo, di fermenti vitali e che con essa ci si trova ancora a dover fare criticamente i conti, anche per quanto riguarda il suo influsso sugli orientamenti della storiografia della sinistra italiana. Neanche della storiografia si può fare la storia coi “se”, ma i “se“, notava Gramsci, possono aiutare a capire la storia. Una tempestiva, graduale revisione, dialetticamente unitaria, della intera esperienza del movimento socialista italiano, in tutte le sue componenti, nei suoi momenti laboriosi e oscuri e in quelli dei successi, nelle sue pagine epiche e in quelle fosche, avrebbe concorso a creare le condizioni per una ricomposizione della sua unità politica, non avrebbe costretto si consenta, a chi “storico puro” non è, un richiamo a quella attualità dalla quale nasce il “problema storico” i suoi pallidi epigoni al maldestro tentativo di disfarsi della propria storia, recuperandone di volta in volta, sotto spinte occasionali, qualche pezzo che sembra possa tornar utile per il momento.

Togliatti è tra questi pezzi. Scriveva Gramsci in una lettera alla madre che il paradiso è la sopravvivenza di sé nei cuori di coloro che amammo. Togliatti amò più di ogni altra cosa il suo partito, ma l’irriconoscibile residuato di quello che esso fu gli riserva, tutt’al più, un solitario purgatorio, senza il conforto di una prece, duro e lungo quanto non la gravita del peccato ma l’opportunità consigli. Uomo di pensiero oltre che d’azione, egli stesso, forse, riconoscerebbe, ricordando il vecchio Hegel, l’ineluttabilità di questa condanna, che gli viene dalla storia e l’accetterebbe, mi piace credere, con l’orgoglio del combattente che fu per una causa ispirata da una fede. Assai meno nobili sono i moventi di molti che lo hanno sbrigativamente condannato.

E torniamo a Turati. Il criterio seguito da Mondolfo nel suo lavoro fu quello di raccogliere i testi dei suoi discorsi congressuali, quelli che documentano meglio di ogni altro il suo rapporto col partito, i modi coi quali egli tiene e sviluppa il rapporto coi suoi compagni, lo svolgersi del suo pensiero politico in stretta relazione con l’azione da lui condotta. Turati non fu un eroe solitario o un profeta inascoltato. Ad affiancarlo, in un costante, singolare rapporto di compenetrazione di idee e anche di sentimenti, c’è Anna Kuliscioff, c’è Claudio Treves, accanto ci sono gli amici che si raccoglievano nel salotto milanese della “signora Anna“. Ma la sua biografia politica coincide con la storia del Partito socialista e in esso, soprattutto, della corrente, la sua, variegata e articolata in gruppi diversi, che occupa, anche quando minoritaria, posizioni di prestigio e di forza nel movimento di classe, nel gruppo parlamentare, nelle amministrazione locali e che a lui fa costante riferimento. Ed è proprio nella sua capacità di raccogliere, di assorbire criticamente e di far proprie tutte le esperienze intorno a lui maturate, nella cerchia degli intimi e nelle robuste forze operanti nella realtà, che sta la radice di quella originalità che lo immette senza forzature tra le maggiori figure del socialismo europeo. Turati fu e volle essere un maestro e non un capo, un maestro di dottrina, di morale, di stile; volle, e seppe essere, la guida che indicava la strada, ma senza mai staccarsi dal suo popolo anche quando lo vedeva, spregiando le sue indicazioni e irridendole, avviarsi lungo sentieri irti di pericoli. Il suo strumento non fu il giornale, non fu l’Avanti!, ma una rivista, la Critica Sociale. Detestò la demagogia, adoperò con arte la buona retorica.

La sua oratoria toccò solennità carducciane senza averne la professorale staticità, venata com’era di fine ironia, animata da una passione tanto contenuta quanto intensa, ispirata da una sincerità cui nessuna preoccupazione di opportunità fece mai velo. Nel partito fu contestato sempre. All’alba del secolo fu messo in minoranza nella sua Milano dalla pattuglia dei sindacalisti rivoluzionari, calata da Napoli e capeggiata da Arturo Labriola. La sua corrente riprenderà il controllo pieno del partito nel 1908, ma tornerà minoritaria soltanto quattro anni dopo. Nel 1919 non avrà neanche i numeri per presentare una propria mozione in congresso, ripiegherà sui “massimalisti unitari” di Costantino Lazzari, nel comune rifiuto della pregiudiziale insurrezionale. Nel 1922, alla vigilia della “marcia su Roma“, viene espulso per progettato collaborazionismo dal partito del quale era stato padre e forse anche madre. La sua azione politica non fu mai mossa dalla carica, creatrice, ma anche distruttrice, del volontarismo (era il limite che gli rimproverava Carlo Rosselli), fu sempre ispirata da una intelligenza lucidissima, illuminata da idealità professate e proclamate con discrezione, quasi con pudore, realistica nelle analisi, profetica nelle previsioni.

Turati non fu un dottrinario. Eppure egli offre un esempio, assai raro nella storia del socialismo, di piena e coerente saldatura tra le ragioni della dottrina, dell’etica, della politica, al passo, sempre, col corso degli avvenimenti. Al congresso di Genova egli portò un disegno lucido e lineare: dare sull’esempio dei paesi più avanzati d’Europa, anche al movimento operaio italiano un suo partito politico, che accetti i metodi di lotta legalitari, che non abbia ortodossie codificate, ma che si riconosca in una carta programmatica dove siano definiti i principi e i fini, che abbia ordinamenti liberi interni, ma respingendo convivenze tra tendenze radicalmente divergenti – in questo caso gli anarchici, la cui utopia egli rispetta e in certo senso addirittura condivide – che si paralizzerebbero a vicenda con danno per tutti. Calato nella realtà italiana, il modello di Marx è sostanzialmente rispettato.

Il rapporto, nella dottrina e nella pratica, con la libertà viene definito negli anni che seguono e che sono di lotte politiche e sociali di estrema asprezza. La libertà non ha per lui qualifiche di classe e il movimento operaio e il più diretto interessato a tutelarla da ogni assalto reazionario, promovendo, quando necessario, pur conservando piena la propria autonomia, tutte le possibili opportune intese con altre formazioni politiche e altre forze sociali. Engels gli dà ragione. Il dibattito internazionale sul revisionismo non lo appassiona. Egli ha preso atto di quanto di nuovo sia avvenendo nelle strutture profonde dell’economia e nei rapporti tra le classi e che contraddice le ipotesi di non lontane palingenesi ancora correnti sul calare del secolo. Non accetta la liquidazione sommaria del finalismo marxista, ne trae spunto a un approfondimento del nesso tra democrazia e socialismo. Le conquiste sociali e civili del movimento operaio nel segno del socialismo riformistico e, sull’opposto versante, l’avventurismo predicato e talora praticalo dai sindacalisti rivoluzionari, gli forniscono le esperienze concrete sulle quali riflettere e indurre altri a riflettere. La sua accettazione della democrazia è rifiuto di credere nella virtù creatrice della violenza, è negazione della ipotesi che il socialismo possa essere costruito a colpi di decreti da un potere rivoluzionario onnipotente, è convinzione che nessuna conquista solida sia possibile senza il consenso cosciente, attivo e costruttivo delle masse che si rappresentano.

Quest’ultimo criterio vale anche rispetto alla ipotesi di una partecipazione socialista a un governo borghese. Di qui la funzione che egli attribuisce alle istituzioni dell’autonomia di classe del proletariato. Di qui la sua insuperata riluttanza di fronte a collaborazioni di governo cui tale consenso mancasse e che si sarebbero risolte nell’inutile sacrificio del socialista fatto ministro, esposto ai lazzi dei compagni. Soltanto nel ’22, in circostanze drammatiche, egli salì le scale del Quirinale. Il reato di collaborazione non fu neanche allora consumato. Il congresso che ne seguì, alla vigilia della marcia su Roma, gli risparmiò i lazzi e non gli negò rispetto, ascoltò con commozione il suo discorso di commiato. Una ridotta maggioranza, mal convinta delle proprie ragioni emise tuttavia un premeditato e sofferto verdetto di condanna: dalla scissione che ne seguì nacque, segretario Matteotti, il partito socialista unitario. Ebbe per la violenza una repulsione quasi fisica e di essa detestò tra tutte le sue forme, più di ogni altra, la guerra, ma non si chiuse nel dottrinarismo pacifista: glielo impediva il suo robusto senso della storia. La pace andava difesa per fedeltà a ragioni etiche che altri poteva anche non condividere, ma anche in osservanza ai criteri di un lungimirante realismo politico che trae da una spregiudicata analisi la certezza che dalle guerre, di regola, vengono solo guasti e devastazioni.

Fu avverso alla prima avventura abissina, e le sue motivazioni largamente coincidevano con quelle di rappresentanti della vecchia Destra, convinti anch’essi che colonialismo e patriottismo non sono sinonimi. Fu contro l’impresa libica, la “danza sulle uova” di una situazione internazionale di precario equilibrio. Respinse la giustificazione di Giolitti che essa fosse il prodotto di una ineluttabilità storica, la definì “guerra contro l’Italia“, prevedendone i negativi effetti anche nell’ordine interno, colse e denunciò i segni dell’imbarbarimento che essa fomentava. Quello che da voi ci divide è il ribrezzo, disse alla Camera quando vide le fotografie degli arabi impiccati e dei soldati italiani degradati a boia. L’interventismo democratico – quello di Battisti, di Bissolati, di Salvemini – ha lungamente e fortemente influenzato la storiografia italiana e ancora oggi ai socialisti si fa carico di essersi dissociati allora dalla nazione in guerra. Turati definì quegli uomini a lui assai cari – e per rispetto non lo scrisse, raccontava Faravelli – i raggirati dalla storia: nobili erano le loro motivazioni ideali, ma viziate di un ideologismo astratto, schermo alla comprensione di una realtà destinata a muoversi lungo linee ben diverse da quelle di chi si ispirava ai principi nazionalitari e magari europeistici del Risorgimento democratico.

Essi, in realtà, furono i primi ad essere sconfitti dal torbido movimento cui avevano personalmente contribuito a dare dinamico e tumultuoso impulso. A Battisti il capestro austriaco risparmiò l’amarezza di vedere l’interventismo sfociare nel nazionalfascismo. Bissolati fece in tempo ad essere insultato e fischiato da coloro ai quali si era incautamente associato. Salvemini dovette evadere dall’Italia, fu privato della cittadinanza al suo nome Molfetta fascista sostituì nei registri dell’anagrafe quello di Costanzo Ciano. I giudizi politici di Turati sono oggi assai più vicini al giudizio storico di quanto non lo sia la storiografia, che ancora isola l’interventismo democratico dal contesto che è quello della guerra matrice del bolscevismo e del fascismo, e di un ordine internazionale che sfociò nella seconda guerra mondiale.

Di fronte alla guerra mondiale Turali denunciò, cogliendone il significato di sinistro presagio, il fallo che una Camera a maggioranza neutralista si fosse piegala alla volontà di una esigua, aggressiva minoranza che aveva tenuto minacciosamente le piazze esigendo l’intervento. Respinse il ricatto morale di chi ancora una volta faceva dell’interventismo l’equivalente del patriottismo, ammonì che la guerra non sarebbe stata breve e tanto meno facile, che l’economia del paese ne sarebbe uscita dissestata, che tendenze autoritarie ne avrebbero tratto incremento. Dette calda e sincera la solidarietà socialista alla patria dopo Caporetto, ma continuò a battersi per una pace che non passasse per il collasso totale di una delle due parti e che si sarebbe tradotta in termini di sopraffazione e di vendetta a danno dei popoli vinti.

Solidarizzò con la rivoluzione russa di febbraio e la salutò come vittoria del socialismo, avanzò subito le sue riserve verso quella di ottobre.Rivoluzione contro il Capitale“, quello di Marx l’aveva definita volontaristicamente Gramsci. Turati resta fedele al suo Marx, a Marx si rifà l’amico Mondolfo con una serie di scritti sulla rivoluzione russa che hanno rotto all’usura del tempo. Nessuna formazione sociale scompare prima di avere svolta la propria funzione storica: un regime che voglia saltare la rivoluzione democratico borghese è condannato a involversi nel bonapartismo“. Turati non crede, però, che fomentare la guerra civile e promuovere l’aggressione armata dall’esterno valga a riportare negli auspicabili alvei il corso del processo rivoluzionario. Nella valutazione dei termini della crisi del dopoguerra il suo primo giudizio è influenzato dalle esperienze passate: vede nel comunismo una reviviscenza del vecchio ricorrente estremismo, prevede lo scatenarsi di una possente ondata reazionaria, ma nelle forme di un “novantotto” peggiorato di cui il fascismo nascente o solo un’avanguardia che spiana la strada alla reazione di Stato. Ma egli è anche tra i primi a intendere a precederlo è Matteotti i tratti del tutto nuovi del fascismo e il suo potenziale eversivo autonomo; sarà il primo a sostenere nelle sedi internazionali che esso non è una manifestazione di deteriore folklore politico di un popolo immaturo – sarà la tesi, anche in Italia, del primo antifascismo liberale e radicali democratico – ma l’espressione di una tendenza a dimensioni internazionali cui bisogna opporre la resistenza di una Europa solidalmente unita nel segno della democrazia.

Voi dovete prevedere, dirà ai capi della ancora potente socialdemocrazia tedesca, per voi e per noi. La sorte, in questo caso benigna, gli consentirà di non assistere allo spettacolo straziante della capitolazione ingloriosa dei suoi compagni nel parlamento di Berlino. Parlerà per lui Saragat a bollarli come piccoli gnomi codardi, militanti indegni di un movimento che in Italia aveva generato Matteotti. Il tema dei nessi tra capitalismo plutocratico, guerra, bolscevismo e fascismo, degli effetti già operanti e di quelli prevedibili, ove la democrazia socialista europea non fosse sorta per tempo a contestarli e a contrastarli, verrà ripreso in un saggio abbozzato nell’esilio, l’ultimo di questa raccolta, che merita di esser posto tra le non molte pagine allora scritte, dove tra i diversi fenomeni vengono colti i rapporti dialettici, reciprocamente determinanti e tutti collocati in un unico organico quadro che è quello della crisi devastante dell’Europa tra le due guerre. E l’intuizione che da organicità all’analisi e la eleva a profezia è che la minaccia mortale alla pace e alla libertà dei popoli viene dal fascismo e non dal bolscevismo.

Non c’è filone di pensiero politico nell’Italia del nostro secolo che si sia svolto in forme di altrettanta lucidità e di altrettanta coerenza, che abbia dato un contributo altrettanto tempestivo e realistico alla comprensione di quanto accadeva nella società europea squassata e sconquassata dal “fatto e dal misfatto” della guerra: non i democratici e gli estremisti che giurano sulle potenzialità democratiche e rivoluzionarie del conflitto; non i liberali che accedono, per anni, Giolitti e Croce in testa, a un pudibondo filofascismo; non i comunisti che vagheggiano l’assalto al potere mentre si spalancano per loro le porte delle galere; non il cattolicesimo politico che si frantuma nella crisi; non le gerarchie ecclesiastiche che sigleranno con Mussolini il Concordato e lo acclameranno “uomo della Provvidenza“.

Umberto Terracini, accusato nei suoi giovani anni di settarismo e di estremismo da Lenin, con la coraggiosa onestà che sempre gli fu propria, vicino a chiudere la sua lunga e travagliata avventura umana, disse e scrisse: Turati aveva ragione. Sottoscrivere quel giudizio – mi par di sentirmi ammonire – non sarebbe conforme alle regole del mestiere di storico: la storia non distribuisce torti e ragioni. Ripiegherò sull’autobiografia. Ho sentito parlar di Turati alle soglie dell’adolescenza da mio padre: era un uomo, mi disse, giusto e buono, che per aver amato la giustizia e praticato la bontà era morto in esilio. Di lui mi parlarono ricorrentemente Vera Modigliani e Giuseppe Faravelli che gli erano stati vicini fino alla morte, Sandro Pertini che lo aveva venerato come maestro. Per me è rimasto il patriarca della mia grande famiglia.

Fu Faravelli a dirmi che dopo la morte di Anna, mentre crollava il mondo nel quale era vissuto e i compagni e gli amici sparivano, tanti perché giunti al naturale termine della loro esistenza, qualcuno assassinato, altri ancora sottrattigli dalla galera o dall’esilio, egli aveva con stoica serenità meditato il suicidio Ne era stato distolto, diceva, dall’idea del dovere di ordinare il patrimonio di carte e di memorie di cui era custode nelle sua vecchia casa, all’ombra del Duomo, in una Milano che non era più sua, ma dove era ad attenderlo la compagna della sua vita, la cui sepoltura Pietro Nenni e Lelio Basso avevano salutata col grido di “viva il socialismo“, ricevendo dagli squadristi presenti sanguinose manganellate. Ma ne era stato soprattutto distolto, anche se era restio, per una sorta di pudore, a confessarlo, dal sentimento di un altro e più alto dovere, quello di non chiudere la propria esistenza con un atto di rassegnata disperazione.

Salvare l’onore, egli aveva detto, era il solo modo di preoccuparsi utilmente del domani, quando solo chi non avesse ceduto alla vigliaccheria, maiuscola e minuscola, avrebbe avuto i titoli per chiedere e riscuotere ancora fiducia. E salvare l’onore del movimento del quale era stato il grande padre comportava chiudere la propria esistenza con un atto di resistenza e di sfida, che assurgeva a atto di fiducia nell’avvenire. L’evasione dall’Italia, per un esilio, egli lo sapeva, senza ritorno, era per lui più dolorosa della morte. Finì con l’accettare, con tutti i rischi che comportava, la proposta di Rosselli, di Parri, di Pertini, dei loro giovani amici, perché sapeva quale significato essi attribuivano al suo gesto e quale significato esso avrebbe avuto per l’antifascismo italiano, di fronte alla pubblica opinione dell’Europa democratica e socialista. Sapeva anche che con la sua decisione egli legittimava, politicamente e moralmente, nuovi metodi di lottae quei tre giovani ne saranno tra gli eroi – della cospirazione e forse della insurrezione, contro il fascismo. Noi, forse, aveva detto, abbiamo troppo disarmato le masse. Era un dubbio angosciante cui la risposta era già implicita nell’ averlo concepito.

È il momento del più sofferto eroismo nella vita di Turati, è l’atto – Saragat lo definiva sublime – che da solo imprime a tutta la sua azione i segni della più alta nobiltà. Esisteva un tempo, tra peccati di conformismo e di ipocrisia, una letteratura edificante, che si proponeva di fornire ammaestramenti ai giovani al fine di stimolarli a bene operare. Anche la storiografia ne era toccata, e questo non ha impedito che in alcuni casi essa abbia prodotto opere divenute classiche che hanno onorato la scienza storica e dato alimento e vigore alla coscienza civile. Io non ho la pretesa di provocar tali stimoli, ne la presunzione di saperlo fare. Mi limito solo a confessare che ancora oggi mi capita, di fronte a scelte impegnative, di domandarmi che cosa ne penserebbero i pochi uomini, oscuri e illustri, che ho incontrati nei libri e nella vita e che ho eletti a maestri, se capirebbero e rispetterebbero le mie ragioni, anche senza condividerle. Tra essi c’è anche Turati.