COME I MASS MEDIA HANNO INFLUENZATO LA POLITICA (I capitolo – 1.)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO”

CHIETI – PESCARA

DIPARTIMENTO DI LETTERE, ARTI E SCIENZE SOCIALI

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONI LETTERARIE

L’ITALIANO DELLA POLITICA TRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA 

 

        RELATORE                                                          CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Emiliano Picchiorri                   Chiar.ma Prof.ssa Maria Teresa Giusti

 

LAUREANDO

Dario Lorè

Matricola n. 3171312

 

 

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

 

 

 

Chi parla male, pensa male e vive male.

Bisogna trovare le parole giuste.

Le parole sono importanti.

(Palombella rossa, Nanni Moretti, 1989)

 

 

 

Alla memoria della Prof.ssa Luisa Mucciante,

costante faro luminoso nel mare tempestoso dell’università.

 

A mia madre e a nonna Giuseppina,

tra le rarissime certezze della mia vita.

 

Indice

 

Introduzione                                                                                                             4

                        

  1. Come i mass media hanno influenzato la politica 9

I.1. Il contesto storico: la crisi degli anni Ottanta, Tangentopoli, un nuovo sistema di partiti e la “Seconda Repubblica”                                                                       10

I.2.  Influenze culturali: il potere dei mass media sulla politica, la propaganda e il consenso                                                                                                               22

I.3.  Riferimenti letterari, televisivi e cinematografici                                        39

 

  1. Due “paradigmi” a confronto: il linguaggio politico prima e dopo Tangentopoli                      43

II.1.  Il “paradigma della superiorità” e il “paradigma del rispecchiamento”    43

II.2. Com’è cambiato il linguaggio della politica a partire dal 1992                  56

II.3. Il discorso politico contemporaneo: scelte retoriche e stilistiche                61

 

III.      Diffusione del web: dalla Seconda Repubblica alla Repubblica 2.0            89

III.1. I politici alle prese con la “rete”                                                                89

III.2. Eloquio, sproloquio e turpiloquio                                                              116

III.3. Il lato oscuro dei social network: l’analfabetismo funzionale                 132

 

  1. Come scrivono i politici e i loro seguaci nel 2018 139

IV.1. Analisi della campagna elettorale 2018 su Facebook                              139

IV.2. Lessico ricorrente nella lingua della politica                                           147

 

Conclusioni                                                                                                          194

Bibliografia e Sitografia                                                                                     197

 

 

Introduzione

La demagogia è una prassi politica che poggia sul sostegno delle masse assecondandone e stimolandone le aspirazioni irrazionali ed elementari distogliendole dalla reale e cosciente partecipazione attiva alla vita politica.

Questo avviene mediante facili promesse, in seguito impossibili da mantenere, che tendono a indicare come gli interessi corporativi della massa popolare, o della parte più forte e preponderante di essa, coincidono, al di fuori di ogni logica di buon governo, con quelli della comunità nazionale presa nel suo complesso. Così era chiamato demagogo (da demos, popolo e ago, guido), nell’antica Grecia, chi, uomo di Stato o abile oratore, sapesse guidare il popolo. È con Aristotele che il termine acquistò un significato negativo nella teoria politica.

L’azione demagogica può svolgersi in due modi, anche se è difficile distinguere i momenti delle due azioni. Un tipo di azione è quella attuata da chi, sfruttando particolari situazioni storico-politiche e volgendole a fini propri, eccita e guida le masse popolari soggiogandole grazie a particolari capacità oratorie e psicologiche che gli permettono di interpretare gli umori e le esigenze più immediate. Con il termine demagogia ci possiamo poi riferire a una situazione politica corrispondente a quella descritta, ma in cui dominano le masse che agitano la piazza e si impongono sul legittimo potere costituito e sulla legge facendo valere proprie istanze immediate e incontrollate. In questo caso Polibio parla più propriamente di oclocrazia (Historiae, VI, 3, 5-12; 4, 1-11).[1]

Secondo Adriano Prosperi, la figura del demagogo sorge sullo sfondo della lotta tra i partiti. Ma i caratteri di cui è stata rivestita quella figura sono stati molto diversi nel lunghissimo periodo occupato dalla fortuna della parola. Il libro di Andrea Bocchi offre un resoconto compiutamente linguistico e storico, del rapporto tra parole e cose, che finora mancava. L’accezione negativa del termine si è affermata per il prevalere del punto di vista di chi ha considerato l’agitarsi delle classi popolari come una minaccia all’ordine costituito. Ma c’è anche un’altra accezione negativa: quella di chi vede il pericolo dell’affermarsi di un potere personale dall’esaurimento e dalla scomparsa del conflitto dei partiti come espressione della vitalità della democrazia. In tal caso alla lotta e alla divisione si sostituisce l’unità organica del corpo sociale come espressa e incarnata dall’uomo di potere, al quale ci si rapporterà con un sentimento di obbedienza, quasi di remissione. Questo è l’orizzonte che si è materializzato nella realtà italiana degli ultimi anni ed è all’interno di questo orizzonte che si può capire perché l’attenzione di Andrea Bocchi sia stata accesa e stimolata dall’incontro con un testo rimasto finora sconosciuto: “Demagoges”, opera di un oscuro maestro camerte del ’300. Soprattutto si rivela singolarissima l’apparizione di un termine sconosciuto fino ad allora al vocabolario politico europeo.[2]

Demagogia, quindi, è una parola che, nel corso del ventesimo secolo fino ad arrivare ai giorni nostri, ha ricevuto massima diffusione. Se ne sente parlare sempre di più: sui quotidiani sia cartacei che online, attraverso la televisione e sui social network, ormai potentissimo strumento di informazione di massa. Questi ultimi infatti vengono quotidianamente utilizzati dai nostri politici per poter comunicare agli elettori, ai simpatizzanti o, più semplicemente, ai propri followers (anglicismo che ha soppiantato l’italiano “seguaci”, termine diventato desueto nel linguaggio politico contemporaneo).

Questa ricerca si pone l’obiettivo di analizzare l’evoluzione storico-linguistica del discorso politico odierno attraverso due fasi: la prima legata al processo di Tangentopoli, mediante il quale è avvenuto il celebre passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. In questa fase sarà possibile osservare il distacco netto nei metodi comunicativi. La crisi dei partiti tradizionali, infatti, è stata prima di tutto una crisi linguistica. La mitologia del nuovo ha reso improvvisamente vecchie le formule identitarie che fin dal dopoguerra avevano caratterizzato il discorso di destra, di sinistra e di centro.[3] La seconda invece, dopo la stabilizzazione dei nuovi metodi adottati a partire dagli anni Novanta, si occupa della diffusione di internet e dell’avvento dei social network nel campo della comunicazione politica e di come essi l’hanno influenzata, attraverso l’approfondimento di tematiche specifiche riguardanti casi relativi agli ultimi anni.

Il lavoro si suddivide in quattro capitoli tramite una disamina cronologica degli eventi e delle evoluzioni linguistiche. Il primo si occupa di ricercare la causa del cambiamento nell’influenza che i mass media hanno avuto sulla politica. Partendo dal contesto storico, dallo scoppio di Tangentopoli fino al 1994, si sviluppa un approfondimento sui mutamenti socio-politici e socio-culturali. Da questo punto di vista, nonostante la ricerca sia incentrata esclusivamente sulle vicende italiane, sono risultati utili due testi di studiosi esteri del calibro di Noam Chomsky e Zygmunt Bauman: del primo si utilizza “La fabbrica del consenso” e del secondo invece, per alcuni spunti di riflessioni, si prende in esame “La società sotto assedio”. Con questi due testi si dimostra quanto potere abbiano i mass media sulla popolazione e quanto gli stessi vengano utilizzati dai politici per una buona propaganda ma soprattutto per ottenere consenso. Nell’ultima parte del primo capitolo si dà spazio ai riferimenti letterari, televisivi e cinematografici che hanno animato il periodo storico preso in considerazione.

Nel secondo capitolo si passa alla vera e propria analisi linguistica. Innanzitutto vengono confrontati i due “paradigmi” della comunicazione politica: il paradigma di superiorità molto utilizzato fino alla fine degli anni Ottanta, il quale verrà ben presto rimpiazzato dal paradigma di rispecchiamento adoperato dalle nuove forze entrate nello scenario politico a partire dal 1992. Si esaminano i principali cambiamenti linguistici dal punto di vista morfologico, sintattico e lessicale (nel quale campo vedremo l’introduzione di numerosi nuovi lemmi). Inoltre si compie un’analisi del discorso politico per osservare cosa è cambiato per quanto concerne le scelte stilistiche e quelle retoriche.

Nel terzo capitolo invece si pone luce sulla massima diffusione che i social network hanno ricevuto negli ultimi. I politici si sono dovuti adeguare all’evoluzione della realtà tanto da arrivare ad adoperare quotidianamente i nuovi mezzi, i quali prendono spesso il nome di social media. L’influenza dei social network ha avuto risvolti sia positivi che negativi, infatti si prendono in esame le diverse sfaccettature del loro utilizzo, per poi approfondire maggiormente il lato negativo il quale, il più delle volte, attraverso l’uso di parole inappropriate (turpiloquio) accostato a una scarsa capacità di comprensione dei testi, ha portato alla propagazione del fenomeno dell’analfabetismo funzionale. Nel quarto e ultimo capitolo si analizzano linguisticamente i post su Facebook di alcuni politici nel periodo della campagna elettorale per le Elezioni Politiche 2018 e, infine, si introduce il lessico ricorrente della lingua dei politici, ormai ben affermato anche nel linguaggio comune.

Nelle conclusioni si muovono alcune riflessioni su tutti gli effetti che questi cambiamenti hanno generato. In particolare si prende nuovamente in considerazione il controllo dei mass media, oggi evoluti in social media, sulla popolazione e come quest’ultima si comporti, a seconda di come riesce ad elaborare le notizie. Ancora una volta sarà demagogia la parola chiave poiché, alla fine della ricerca si focalizza tutta l’attenzione su come il linguaggio, ma soprattutto le parole, utilizzati dai nostri politici abbiano avuto un ruolo importante su quello che Norberto Bobbio definiva “il futuro della democrazia”.

I. Come i mass media hanno influenzato la politica

I mass media come sistema assolvono la funzione di comunicare messaggi e simboli alla popolazione. Il loro compito è di divertire, intrattenere e informare, ma nel contempo di formare negli individui valori, credenze e codici di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali della società di cui fanno parte. In un mondo caratterizzato dalla concentrazione della ricchezza e da forti conflitti di classe, per conseguire questo obiettivo occorre una propaganda sistematica.[4]

I responsabili dei media affermano che le loro scelte sul terreno dell’informazione sono frutto di criteri imparziali, professionali e oggettivi e sono confortati in questa loro pretesa dalla comunità intellettuale.[5] Ma se i potenti sono in grado di fissare le premesse del discorso, di decidere che cosa la popolazione, in generale, deve poter vedere, sentire e meditare, e di “dirigere” l’opinione pubblica mediante regolari campagne di propaganda, il modello tipico di come il sistema deve funzionare è in netto contrasto con la realtà.[6]

Chomsky e Herman propongono di delineare un “modello di propaganda” per applicarlo all’attività dei mass media operanti negli Stati Uniti. Il frutto della loro ricerca, nonostante si tratti di un campo ristretto, si adegua anche alle modalità sfruttate dai mezzi di comunicazione di altri paesi. Il suddetto modello è valido infatti anche per l’Italia, laddove è possibile analizzare negli anni cruciali che hanno portato dalla “Prima” alla “Seconda Repubblica” la sperimentazione di nuovi metodi e mezzi. Questa sperimentazione ha toccato il campo del linguaggio, particolarmente quello politico, il quale negli ultimi venti anni è stato completamento rivoluzionato. Una rivoluzione che spesso si collega anche alla diffusione dei social media, i mezzi di comunicazione entrati a contatto con internet.

I.1. Il contesto storico: la crisi degli anni Ottanta, Tangentopoli, un nuovo sistema di partiti e la “Seconda Repubblica”

Per capire cosa si cela sotto il termine “Seconda Repubblica” è necessario partire dalla fine degli anni Ottanta, quando il sistema politico in Italia ha iniziato a subire considerevoli ingerenze da parte dei cittadini, per poi rendere consapevoli gli stessi partiti, artefici ormai della cattiva gestione dello Stato.

Le elezioni politiche del 1983 hanno segnato una frattura per il sistema dei partiti: per la prima volta i partiti politici, i convegni accademici e le pubblicazioni si spostano e proseguono nelle commissioni e nei comitati istituzionali.[7] Questa tornata elettorale ha evidenziato palesemente la disfatta dei partiti tradizionali, segnalando la nascita di alcuni movimenti “alternativi” che di lì in avanti sarebbero stati i veri protagonisti della macchina statale: tra questi si può annoverare il risultato della Liga Veneta[8] la quale, presentatasi per la prima volta alle elezioni, è riuscita a esprimere due parlamentari, a svantaggio di una Democrazia Cristiana ormai ai minimi storici.[9]

Sono due le istituzioni protagoniste di questa nuova fase: il Parlamento e il Governo.[10] A sottolinearlo sarà Giovanni Spadolini nell’introdurre il dibattito svoltosi nei due rami del Legislativo il 18 e il 19 maggio 1988, in occasione del quarantesimo anniversario della Repubblica: egli non manca di rilevare che, la riflessione sulle riforme istituzionali e sull’attuazione della Carta ha ispirato l’impegno di tre esecutivi (secondo Governo Spadolini, primo e secondo Governo Craxi, Governo De Mita) e al contempo registrato un crescente protagonismo del Parlamento.[11] I falliti tentativi di revisione costituzionale nascono dal desiderio di correggere questa forma paritaria di bicameralismo.

Una delle novità di questo periodo la si può sicuramente trovare all’interno del vasto mondo cattolico che faceva riferimento alla Democrazia Cristiana[12]: diversi membri hanno maturato una serie di defezioni e nuove interpretazioni della congiuntura politica che avrebbero poi avuto un peso rilevante sulla crisi del sistema politico. A Mario Segni, alla guida del “Movimento per la riforma elettorale”, si deve ad esempio la volontà di portare avanti il movimento referendario che raccoglieva le firme per abrogare una serie di norme affinché si arrivasse a un sistema elettorale uninominale a turno unico per il Senato, maggioritario per le elezioni comunali e all’eliminazione della preferenza plurima alla Camera. La Corte costituzionale ha giudicato però inammissibili due dei tre quesiti. La dimensione politica del referendum del 9 giugno 1991 è stata dirompente: la Democrazia Cristiana ha lasciato libertà di voto al suo elettorato, mentre il leader socialista Bettino Craxi e il suo invito affinché gli elettori cogliessero l’occasione di inizio estate per “andare al mare”, si sono rivelati controproducenti. L’affluenza alle urne ha superato il 60% degli aventi diritto e il 95% di questi ha optato per l’abrogazione. L’effetto sul sistema dei partiti è stato quello di una violenta scossa proveniente da un’opinione pubblica che chiedeva rinnovamento e moralizzazione della politica e che considerava i partiti politici tradizionali sempre più un ostacolo; i demeriti della classe politica erano destinati ad aumentare una volta che si fosse l’ondata giudiziaria.[13]

Un’altra lacerazione per la DC è giunta dal Quirinale, laddove sedeva quel Francesco Cossiga[14] che nella prima parte del suo mandato aveva interpretato il suo ruolo in maniera quasi notarile, ma che dopo il crollo del Muro di Berlino, aveva cominciato ad avanzare una sua proposta nella direzione del rinnovamento del sistema dei partiti e della razionalizzazione di quello istituzionale. Già nel discorso di fine anno del 1987 Cossiga aveva avanzato una prima critica nei riguardi dell’organizzazione dei partiti. Ma era il crollo del sistema bipolare a imporre al quadro politico italiano la necessità di uscire dalla sua doppia anomalia della conventio ad excludendum.[15] Il metodo utilizzato è stato quello di un crescendo di “esternazioni” attraverso le quali l’inquilino del Quirinale sembrava voler creare un rapporto diretto con un’opinione pubblica[16] attenta al tema della riforma e sempre meno convinta che questa potesse giungere grazie all’operato dei partiti.

Per quanto riguarda la possibilità di “sbloccare” l’apparato, Cossiga ha avviato un serio tentativo di legittimazione del Partito Comunista Italiano[17], insistendo sulla necessità di ricomporre la storica frattura sociale e politica risalente all’epoca della Rivoluzione Russa. Il punto di incontro e di fine di questa discriminazione avrebbe dovuto realizzarsi sul tema delle riforme istituzionali. Su questo punto in realtà Cossiga non ha rinunciato a coinvolgere direttamente e in maniera tradizionale i partiti politici con il suo messaggio alle Camere del 26 giugno 1991 nel quale egli descriveva nel dettaglio tutte le trasformazioni che il quadro politico, economico e sociale dell’Italia repubblicana aveva vissuto, per concludere con la necessità di un riaggiornamento del suo assetto istituzionale.[18]

Una riforma necessaria della forma di governo, del sistema elettorale, del ruolo delle autonomie, della disciplina del potere giudiziario e della tutela delle libertà dei cittadini.

Al sempre più accentuato fastidio da parte dei partiti nei confronti di questa “deriva presidenziale[19] di Cossiga si sono accompagnate anche una serie di iniziative giudiziarie tese a mettere in difficoltà lo stesso presidente e riguardanti varie vicende che vedevano Cossiga protagonista durante gli “Anni di Piombo”.[20]

Tutto ciò stava accentuando la carica polemica dello stesso Cossiga nei confronti della magistratura, ma stava anche piegando il suo progetto di riforma nella direzione di un più marcato presidenzialismo. Di conseguenza il quadro partitico ha finito per dividersi sul cosiddetto “presidente picconatore[21], con la sinistra ex comunista pronta a votare la sua messa in stato d’accusa per attentato alla Costituzione, la DC contrariata e comunque non favorevole alla svolta presidenziale e il Partito Socialista Italiano[22] e l’estrema destra, al contrario, attratti da quest’ultima ipotesi. È stato lo stesso Cossiga a decretare l’ultima parola a poche settimane dalla fine del suo mandato. Nella data simbolica del 25 aprile 1992, annunciava le proprie polemiche dimissioni che aggiungevano ulteriore delegittimazione a un quadro politico in evidente dissoluzione.

Ma alla crisi della DC e alla deriva leaderistica del PSI, ha corrisposto una profonda crisi dello stesso PCI. Il cosiddetto “governo di programma[23] non era riuscito a nascondere le carenze di progettualità e di leadership politica alle quali cercò di porre un freno Achille Occhetto. Il nuovo segretario ha introdotto una serie di novità. In particolare al Congresso del marzo 1989 egli ha proposto alcune modifiche statutarie, ha eliminato le pregiudiziali anticapitalistiche e antisocialdemocratiche e ha portato avanti un marcato rinnovamento della classe dirigente. Egli ha insistito molto sulla dimensione nazionale del PCI ma ha atteso l’evento esterno, cioè il crollo del Muro, per articolare la rottura vera e proprio nei riguardi della tradizione comunista di matrice sovietica. Così il cambio del nome e della natura stessa del partito dopo la cosiddetta “svolta della Bolognina[24] (12 novembre 1989) si è rivelata più un’iniziativa personale di Occhetto, che una scelta di rifondazione condivisa. Di conseguenza, il ventesimo Congresso ratificava, nel gennaio 1991, un anno di divisioni e la trasformazione del PCI in Partito democratico della sinistra[25] con aggiunta la scissione dell’ala di sinistra guidata da Armando Cossutta, che originava il Partito della rifondazione comunista.[26]

I principali partiti vivevano dunque una situazione di crisi ma allo stesso tempo di inerzia. Basti pensare al fatto che lo stesso crollo del Muro di Berlino è stato derubricato dalla gran parte della classe politica come una questione più o meno interna al mondo comunista e di conseguenza con effetti diretti soltanto sul PCI, senza rendersi conto fin da subito dell’impatto sul quadro di riferimento internazionale, principale responsabile della natura “bloccata” dell’organizzazione politica e partitica nazionale.

Anche la domanda di riforma che in vari modi l’opinione pubblica aveva mostrato finiva per non essere fatta propria dai principali partiti. Forlani ne avrebbe compreso la portata solo dopo la creazione della Rete[27] il già citato referendum del 1991. Per il PSI di Craxi il tema dell’autoriforma interna era ormai ridotto a materiale di riflessione per gli intellettuali di “mondoperaio”.[28]

Tutte le principali indagini e sondaggi tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta descrivevano un crescente disinteresse per la politica, definita qualcosa di estraneo e lontano dai cittadini. Al crollo dei lavoratori iscritti al sindacato faceva da contraltare la crescita di un rivendicazionismo non incanalato dalle centrali sindacali tradizionali.[29]

Il vero fenomeno nuovo e per certi versi dirompente per il sistema politico è stato però rappresentato dall’emergere delle Leghe e di una più complessiva “questione settentrionale”. Se il primo successo elettorale è sicuramente riconducibile al 4,2% (su base regionale) raccolto dalla Liga Veneta alle politiche del 1983, non si può nemmeno dimenticare che nel 1975 il presidente comunista della regione Emilia-Romagna Guido Fanti, ha parlato di una possibile alleanza delle regioni della valle Padana. Con estrema lungimiranza Fanti registrava un problema reale e di fondo rispetto all’evoluzione regionale italiana: la velocità dello sviluppo era molto differente tra le regioni del Nord e quelle del Sud e di conseguenza maturava la convinzione, da parte delle regioni settentrionali, dei benefici che sarebbero potuti emergere da spazi sempre più ampi di autonomia. La Liga Veneta era molto meno raffinata, nella sua analisi dell’evoluzione economico-sociale, dell’area nordorientale del paese e si presentava come sintomo di una crescente secolarizzazione ed espressione di un tessuto sociale dominato dal benessere.

L’antifiscalismo[30] tendenzialmente estremistico della Liga Veneta è risultato in difficoltà già alle politiche del 1987, mentre si è affacciato alla ribalta quello della Lega Lombarda[31], che è riuscita a eleggere un deputato e un senatore. Quest’ultimo era quell’Umberto Bossi protagonista assoluto della parabola leghista dalla fine degli anni Ottanta fino all’arrivo al governo nel 2001.

In una prima fase la sua Lega Lombarda proponeva l’idea di un’autonomia regionale basata sull’antifiscalismo. Nelle zone periferiche e pedemontane della Lombardia, questa lega delle origini soppiantava la DC, in particolare nelle aree di minore pratica religiosa. Per evolvere dall’affermazione locale alla dimensione di attore politico nazionale, la Lega è passata attraverso il buon risultato alle elezioni europee del 1989 e quello sorprendente alle regionali dell’anno successivo, con il 6% su scala nazionale. Sull’onda di questi risultati nel febbraio 1991 Bossi riusciva a creare una federazione delle varie Leghe, dando così vita alla Lega Nord.[32]

Al dato antimeridionalista e razzista si univa quello antipartitocratico. Le responsabilità delle gravi inefficienze statali non erano più solo attribuibili alle mancanze dei meridionali ma dovevano essere ascritte ai partiti politici tradizionali, ormai profondamente corrotti. Quello leghista si presentava come un movimento “popolare” (forse più che populista) che raccoglieva il malcontento dei ceti medi dell’Italia settentrionale, intimoriti da un peggioramento delle proprie condizioni di vita. Il cosiddetto “male del Nord” era in realtà condiviso da ampi settori dell’opinione pubblica e delle forze produttive, del tutto esterni al perimetro comunque esiguo del leghismo. Se la Lega Nord ha continuato negli anni successivi a dispiegare la sua carica antisistemica, la parte di proposta concreta si è mostrata sempre molto carente. La vera funzione della Lega è stata quella di sottolineare la fragile tenuta del tessuto identitario nazionale poggiato sul patto costituzionale postbellico e sulla centralità di quei partiti politici ormai in cronica crisi dagli anni Settanta.

Infatti “l’ultima chiamata” per la classe politica si è avuta a seguito della crisi del VI governo Andreotti a inizio marzo 1991. Dalla crisi non è venuto fuori nessun segnale nella direzione delle riforme istituzionali auspicate da Cossiga e non a caso, sarebbero stati il referendum di giugno e il successivo messaggio presidenziale a farsene carico. Il resto della legislatura è stato un continuo declinare nel corso del quale si sono sommati tutti i nodi irrisolti e le mancanze accumulate. Tra queste senza dubbio le carenze nella gestione dei flussi migratori, deficienze che avevano mantenuto l’Italia fuori dall’area di libera circolazione inaugurata a Schengen nel 1985. La Legge Martelli del febbraio 1990 ha cercato di fornire una risposta a quella che assumeva quasi i tratti dell’emergenza. Così come emergenziale era la situazione di arretratezza di un Sud dominato dalla criminalità organizzata. Anche su questo fronte un pool di magistrati della procura di Palermo ha cercato di fornire concrete risposte che sono culminate nell’apertura del maxiprocesso di Palermo[33], dominato dai profili di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ma forse la questione più cruciale riguardava la dimensione di crisi economica nella quale viveva il paese, gravato da un mostruoso debito pubblico e impegnato nel negoziato europeo che lo avrebbe condotto alla firma del trattato di Maastricht.[34] Su questo punto l’irresponsabilità della maggioranza della classe politica italiana fu evidentissima. Il nostro paese avrebbe dovuto allinearsi a una serie di politiche di austerità e di risparmio pubblico, in definitiva il “vincolo esterno” sarebbe stato nuovamente centrale e per certi aspetti si doveva accettare il passaggio a una “nuova repubblica”. Il primo correttivo sarebbe stato inevitabilmente un netto aumento della pressione fiscale. Poco o nulla di tutto ciò è stato considerato dalla classe dirigente politica o meglio è stato presentato al paese che si recava alle urne il 5-6 aprile 1992. Anche per questa ragione, molti italiani sono rimasti sbigottiti e atterriti dalle durissime misure di rigore imposte dal governo di Giuliano Amato fin dal suo insediamento nel luglio 1992.[35]

Le elezioni del 1992 hanno segnato la fine dell’immobilismo del sistema partitico italiano. I due partiti maggiori hanno raccolto soltanto il 45% dei suffragi. Oltre a questo dato ci si era trovati di fronte a un’alta frammentazione, con sedici partiti rappresentati all’interno del parlamento. Se la DC arretrava di quasi il 5%, il PSI arrestava la sua crescita e scendeva sotto la soglia del 13%. La sconfitta del comunismo internazionale e la scissione costavano cari al PDS postcomunista che raccoglieva solo il 16,1%. Ma la vera e dirompente novità era costituita dall’8,6% su scala nazionale della Lega Nord, che diveniva così il quarto partito italiano. Si presentava come il veicolo delle domande di un elettorato che si distribuiva in maniera piuttosto omogenea su tutto l’asse destra-sinistra.

Era possibile parlare di crollo complessivo del sistema dei partiti dopo il voto del 1992? In realtà non bisogna esagerare l’onda d’urto rappresentata dalla Lega, né tanto meno ingigantire le perdite della DC. Peraltro i partiti della maggioranza uscente, avevano già preparato lo schema spartitorio delle principali cariche. Al segretario democristiano sarebbe dovuto toccare il Quirinale mentre Craxi avrebbe fatto il suo ritorno a Palazzo Chigi. Due fattori congiunturali di estrema rilevanza però hanno destabilizzato gli accordi in atto. Da un lato le stragi di mafia di fine maggio e inizio luglio e dall’altro l’ondata delle inchieste giudiziarie che in realtà si erano aperte con l’arresto, il 17 febbraio 1992, del socialista Mario Chiesa, sorpreso in flagranza di reato mentre riceveva una tangente. Il ciclone giudiziario di Mani Pulite[36] si era messo in moto e i vertici della classe politica non hanno tardato a subirne le conseguenze.

Il nuovo esecutivo è entrato in carica proprio nel bel mezzo della bufera giudiziaria. Gli avvisi di garanzia si trasformavano in altrettante sentenze di condanna, ma se questa era la spia del clima di imbarbarimento che si era instaurato nel paese, di cui portavano una grande responsabilità i media, appare fuorviante parlare di complotto della magistratura. Il sistema politico ha ceduto poiché i partiti non erano più da tempo strumenti di raccolta del consenso, ma avevano occupato lo Stato e contribuito al dissesto finanziario del paese.

Per fronteggiare la drammatica emergenza della finanza pubblica, a distanza di una settimana dal suo insediamento, l’11 luglio 1992, il governo Amato ha decretato il prelievo forzoso del sei per mille dai conti correnti bancari. Dopo questa misura-shock, tra l’estate e l’autunno fu varata una manovra pesantissima, che ha inflitto un duro colpo alla democrazia distributiva[37], poiché sono state fatte riforme che, per la prima volta, non avevano più come <<oggetto quanto e a chi dare, ma piuttosto cosa e a chi togliere.>>[38] Le misure di risanamento sono per loro natura antipopolari, ma quelle adottate da Amato lo sono state ancor di più perché a proporre l’aggiustamento dei conti pubblici era una classe politica delegittimata. I partiti, ciascuno per la propria parte, sono stati responsabili di aver fatto crescere in modo esponenziale il debito pubblico, impiegando dissennatamente le risorse. Risorse che peraltro avevano utilizzato anche per creare una “struttura fiscale parallela” per tassare le imprese che lavoravano con il settore pubblico.[39]

La “questione morale” è esplosa proprio nel 1992 ed è incominciata quella che, nel contesto di una crisi della democrazia, è stata definita una “guerra civile tra i poteri”. Una guerra che ha preso avvio da un episodio minore, come già detto in precedenza, cioè l’arresto di Mario Chiesa, un socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, che era stato colto con le mani nel sacco mentre intascava una tangente. Da lì era partita un’azione giudiziaria senza precedenti, che era stata sostenuta e valorizzata da un’imponente campagna mediatica che, per mesi, con un martellamento quotidiano, aveva presentato la “città politica italiana” come la <<polis delle tangenti per antonomasia.>>[40] Giornali e televisioni si erano gettati nell’impresa di screditare, radicalmente, gran parte della classe politica italiana, prendendo di mira, in particolare, la DC e il PSI.[41] Craxi è stato oggetto di un “accanimento esemplare”, è stato un vero e proprio “agnello sacrificale”, esattamente come Severino Citaristi, segretario amministrativo della DC, il “mite detentore del record italiano delle richieste d’autorizzazione a procedere”, ma con una “solida reputazione di galantuomo”.[42]

L’offensiva della magistratura, che ha decretato la fine della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista, si è scatenata a distanza di poco da due grandi eventi internazionali, la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica. Benché fosse stato spento il “faro di luce ideologico” del PCI, molti a sinistra si sono illusi che la scomparsa della DC e del PSI fosse una forma di vendetta della storia, che riconosceva infine la diversità nei comunisti italiani. Ma si sbagliavano, poiché le due catastrofi hanno finito per sommarsi. Il PCI era stato costretto ad ammainare la bandiera del nome, ma per una sorta di paradosso i suoi eredi hanno inizialmente tratto vantaggio da quel terremoto. Si trattava però di un’illusione, come si è capito di lì a poco quando Berlusconi ha deciso di entrare nella vita politica.[43]

Come già accennato in precedenza, nel 1992 c’era da affrontare un’altra grave emergenza, gli attentati ai giudici del pool antimafia. Grave a tal punto da costringere il parlamento a eleggere rapidamente Oscar Luigi Scalfaro come nuovo Presidente della Repubblica il 25 maggio 1992, esattamente il giorno successivo all’attentato che ha costato la vita al giudice Falcone, a sua moglie e agli uomini della scorta.

Tutte queste problematiche hanno accentuato la difficoltà dei vecchi partiti a proseguire con le loro scelte. L’acuirsi del caos giudiziario ha colpito anche alcuni leader in prima persona: a dicembre, il primo di loro, era Bettino Craxi. Navigava in cattive acque anche la DC la quale, a differenza del PSI, non poteva contare nemmeno su una leadership carismatica. I ripetuti tentativi di “costituente interna” di fine luglio 1993 così come la successiva nascita del Partito popolare[44], sono risultati tardivi e scarsamente risolutivi di una crisi complessiva della forma di rappresentanza politica dei cattolici le cui radici affondavano negli anni Ottanta.

Nello stesso 1993 il governo Amato aveva preparato una legge finanziaria “lacrime e sangue” che, tra gli altri provvedimenti, prevedeva il blocco dei pensionamenti per anzianità, la riduzione dell’assistenza sanitaria e il congelamento dei contratti del pubblico impiego. Un’attività di governo complicata per qualsiasi compagine si è rivelata ben presto proibitiva se si considera che soltanto nel corso del primo anno di legislatura sono giunte 385 richieste di autorizzazione a procedere alla Camera e 155 al Senato, per non parlare dell’elenco dei ministri colpiti da avvisi di garanzia che progressivamente sceglievano di dimettersi. Mancava solo un’ultima pennellata per completare il ritratto della fine del governo Amato. E questa è giunta con i referendum del 17-18 aprile 1993. Quasi l’80% degli italiani era andata al voto per abrogare, tra le altre cose, la quota proporzionale al Senato. L’esito referendario è stato interpretato come una sorta di chiusura di una non meglio definitiva “Prima Repubblica” e l’avvio di una fittizia, giuridicamente parlando, “Seconda Repubblica”.

Il voto amministrativo del 1993 sanciva il crollo irreversibile dei partiti di governo e a farne le spese era soprattutto la DC che non arrivava al ballottaggio in nessuna delle principali città italiane.

Il proliferare di liste civiche e l’avvio di una personalizzazione della politica locale incentivata dalla nuova legge elettorale illustrava l’evoluzione della situazione politica, la quale pareva favorevole alla sinistra in vista delle elezioni politiche alle porte.

In questo contesto di inedito vuoto politico Silvio Berlusconi ufficializzava il proprio ingresso in politica, progettato dall’estate precedente e annunciato il 23 novembre 1993 quando, in occasione dell’inaugurazione di un centro commerciale alle porte di Bologna, alla vigilia del secondo turno delle amministrative, aveva dichiarato il proprio sostegno a Gianfranco Fini, candidato per il Movimento Sociale Italiano[45] a Roma. Un ingresso nella scena politica che evidenziava il ridimensionamento dei partiti tradizionali e dei loro riferimenti ideali e organizzativi in favore di una nuova personalizzazione della leadership. Il 26 gennaio 1994, nel videomessaggio in cui annunciava la propria “discesa in campo”, Berlusconi ha utilizzato una retorica estremamente personalizzata e distante dal linguaggio politico tradizionale, debitrice della media logic.[46] Emergeva prima di tutto la propria storia di successo imprenditoriale e le virtù di una limpida dimensione privata esalta dalle foto di famiglia accuratamente poste in favore della telecamera.

L’insistenza sulla dimensione personale era rivelatrice di una nuova stagione politica nella quale i partiti erano destinati a trasformarsi progressivamente in strutture al servizio di un leader mediatico, che diventava il principale vettore del richiamo elettorale.

 

 

La nascita di Forza Italia[47] era emblematica di un riequilibrio dei rapporti di forza tra politica e televisione.

[1] N. Bobbio et al., Dizionario di Politica. Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1983, pp. 307-308.

[2] Adriano Prosperi in Andrea Bocchi, L’eterno demagogo, Nino Aragno Editore, Torino, 2011.

[3] G. Antonelli, Volgare Eloquenza: come le parole hanno paralizzato la politica. Gius. Laterza e figli, Bari, 2017, p. 21.

[4] N. Chomsky, E. S. Herman, La fabbrica del consenso. La politica e i mass media. Il Saggiatore S.r.l., Milano, 2014, p. 16.

[5] H. Gans, Deciding What’s news. Vintage, New York, 1980. La nota è ripresa da Chomsky-Herman i quali fanno riferimento alle tesi di Gans relative alle credenze che filtrano nell’informazione, rappresentando altri valori professionali insiti nell’attività giornalistica.

[6] N. Chomsky, E.S. Herman, La fabbrica del…cit., p. 9.

[7] N. Urbinati, D. Ragazzoni, La vera Seconda Repubblica. L’ideologia e la macchina. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016, p. 119.

[8] La Liga Veneta è un movimento autonomista e federalista fondato a Padova nel 1980 che combina  “la valorizzazione della civiltà, cultura e storia dei Veneti e in particolar modo della Repubblica Serenissima di Venezia, nel rispetto e nella collaborazione con tutti i Popoli, vicini e lontani, fedeli agli esempi e alla storia dei nostri avi e federalismo fiscale”. È stato il primo movimento del genere essendo nato sei anni prima della Lega Lombarda, a loro volta predecessori dell’odierna Lega Nord.

[9] P. Pombeni (a cura di), Storia dei partiti italiani, Società editrice il Mulino, Bologna, 2016, p. 238.

[10] N. Urbinati, D. Ragazzoni tendono a specificare nel loro saggio che prima di questa data ci sono comunque state proposte parlamentari. Al contrario, dai primi anni Settanta e sino alla fine degli anni Ottanta, dopo la Commissione Bozzi, gruppi parlamentari diversi hanno presentato disegni di legge per la razionalizzazione del bicameralismo, incentrandosi su due opzioni principali: monocameralismo e rappresentanza regionale. Si veda M. Galizia (a cura di), Forme di Stato e forme di governo, Giuffrè editore, Milano, 2007, pp. 31-110.

[11] Si veda G. Spadolini, “Prefazione”, in Il dibattito sulle istituzioni in Senato (18-19 maggio 1988), p. 9 (si è consultato il testo disponibile sul sito ufficiale del Senato italiano).

[12] La Democrazia Cristiana (abbreviata in DC e soprannominata Balena bianca) è stato un partito politico italiano di ispirazione democratico-cristiana e moderata, fondato nel 1942 e attivo sino al 1994.

[13] P. Pombeni (a cura di), Storia dei…, cit., p. 246.

[14] Francesco Cossiga (DC) è stato Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992.

[15] Nel Nuovo De Mauro, consultabile anche sul sito della rivista settimanale Internazionale, questa locuzione latina è presente anche come tecnicismo politico, così spiegato: “accordo che tende a escludere un’organizzazione o un individuo da un organismo decisionale, una formula di governo, ecc.” Nello specifico venne coniata da Leopoldo Elia, politico e giurista italiano, per denunciare il persistente rifiuto di molte forze politiche a considerare il partito comunista quale possibile forza democratica di governo. Queste forze temevano il legame tra il PCI e l’Unione Sovietica e i paesi satelliti, retti tutti da sistemi di dittatura.

[16] Uno dei termini chiave della ricerca, verrà approfondito nei paragrafi e capitoli successivi in special modo nelle parti relative ai mass-media.

[17] Il Partito Comunista Italiano (PCI) è stato un partito politico italiano di sinistra. Fu il più grande partito comunista dell’Europa occidentale, nato il 21 gennaio 1921 a Livorno come Partito Comunista d’Italia – sezione italiana della Terza Internazionale, a seguito del biennio rosso e della Rivoluzione d’ottobre, per la separazione dell’ala di sinistra del Partito Socialista Italiano guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, al diciassettesimo Congresso socialista.

[18] Una sintesi approfondita del messaggio presidenziale è disponibile sul sito ufficiale della Camera dei Deputati.

[19] Si parla di “deriva presidenziale” negli ultimi anni del mandato di Cossiga, nei quali, attraverso alcune scelte e alcuni atteggiamenti, sembrava che il Presidente volesse assumere anche il potere esecutivo così come accade nelle repubbliche presidenziali in cui il Presidente è sia capo dello Stato, sia capo del governo.

[20] Per anni di piombo, in Italia, si intende un periodo storico generalmente compreso tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni ottanta del ventesimo secolo, in cui si verificò un’estremizzazione della dialettica politica che si tradusse in violenze di piazza, nell’attuazione della lotta armata e di atti di terrorismo.

[21] L’appellativo “picconatore” gli è stato dato nella fase finale del suo mandato presidenziale quando ha iniziato una dura battaglia contro ogni parte politica, senza risparmiare nessuno e alcun tema, con foga dissacrante e veemenza politica.

[22] Il Partito Socialista Italiano (PSI) è stato un partito politico italiano di sinistra, il più antico partito politico in senso moderno e la prima formazione organizzata della sinistra in Italia, oltre ad aver rappresentato anche il prototipo del partito di massa. Alla sua fondazione, nel 1892 nella sala Sivori di Genova, ebbe il nome di Partito dei Lavoratori Italiani; successivamente a Reggio Emilia nel 1893 il nome venne cambiato in Partito Socialista dei Lavoratori Italiani; al congresso di Parma del 1895 assunse il nome definitivo di Partito Socialista Italiano.

[23] È quel tipo di governo destinato a restare in vita il tempo necessario per realizzare alcuni punti programmatici prefissati dalle forze politiche coalizzatesi per necessità.

[24] È il processo che anticipa lo scioglimento del PCI del 1991. Achille Occhetto, allora segretario del PCI ha annunciato la “svolta” durante una manifestazione in ricordo della battaglia partigiana della Bolognina.

[25] Il Partito Democratico della Sinistra (PDS) è stato un partito politico italiano (1991-1998) appartenente all’area della sinistra democratica e ideologicamente legato ai valori del socialismo democratico. È stato fondato il 3 febbraio 1991 a Rimini a conclusione del ventesimo Congresso del Partito Comunista Italiano, la cui maggioranza aveva sancito lo scioglimento e la confluenza nella nuova organizzazione.

[26] Il Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea (PRC-SE), anche noto semplicemente come Rifondazione Comunista, è un partito politico italiano di sinistra. È nato nel 1991 come movimento contrario allo scioglimento del Partito Comunista Italiano, inglobando poi Democrazia Proletaria e il Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista), con l’obiettivo di rinnovare e rifondare il comunismo nel nuovo millennio.

[27] È stato un partito politico italiano di sinistra, attivo dal 1991 al 1999, fondato da esponenti provenienti da diverse aree e nato come aggregazione tra forze cattoliche e forze di sinistra.

[28]Mondoperaio” è una rivista fondata da Pietro Nenni, esponente socialista, il 4 dicembre 1948 a seguito del Congresso di partito in cui Nenni è stato messo in minoranza. Si veda anche il sito internet della rivista.

[29] P. Pombeni (a cura di), Storia dei…, cit., p. 248.

[30] È l’atteggiamento di opposizione all’eccessivo fiscalismo, cfr. Nuovo De Mauro, consultabile anche sul sito internet della rivista settimanale Internazionale.

[31] La Lega Lombarda, il cui nome completo è Lega Nord – Lega Lombarda, è un partito politico regionalista e autonomista attivo in Lombardia, fondato nel 1982. Nel 1991 si è federato nella nascente Lega Nord, della quale attualmente rappresenta la sezione “nazionale” lombarda denominata Lega Nord – Lega Lombarda.

[32] Cfr. nota precedente.

[33] Il Maxiprocesso di Palermo è lo storico processo contro Cosa Nostra che coinvolse 475 imputati per diversi capi d’accusa, tra cui quello di associazione a delinquere di stampo mafioso. Si svolse nell’Aula bunker del Carcere Ucciardone di Palermo tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987.

[34] Trattato istitutivo dell’Unione Europea (UE). Firmato a Maastricht (Paesi Bassi), il 7 febbraio 1992, dai rappresentanti dei governi dei 12 Paesi membri della CEE, entrò in vigore il 1° novembre 1993. Il trattato ha segnato una nuova tappa nell’integrazione europea, contenendo le modalità per l’istituzione dell’UE e le regole per accedervi. Il trattato poneva principalmente le basi dell’Unione economica e monetaria (UEM), da attuarsi entro il 1999, mediante la creazione di una moneta unica e di una Banca centrale europea (BCE). Da Dizionario di Storia Treccani.

[35] P. Pombeni (a cura di), Storia dei par…, cit., p. 251.

[36] La locuzione «Mani pulite» è nata da Giorgio Amendola, deputato del PCI, durante un’intervista pubblicata a Il Mondo in cui affermava: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l’abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l’opposizione in una certa maniera». In un’accezione ristretta, «Mani pulite» fa riferimento al fascicolo aperto alla Procura di Milano nel 1991 da Antonio Di Pietro, mentre in un’accezione allargata «Mani pulite» fa riferimento alle indagini delle procure italiane negli anni novanta, che vertevano sulla collusione politica-imprenditoria.

[37] L. Di Nucci, La democrazia distributiva. Saggio sul sistema politico dell’Italia Repubblicana. Società editrice il Mulino, Bologna, 2016, p. 106.

[38] G. Amato e A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia. Società editrice il Mulino, Bologna, 2013, p. 193.

[39] L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia. Marsilio, Venezia 2012 (I ed. 1993), p. 62.

[40] L. Di Nucci, La democrazia distributiva…, cit., p. 107.

[41] L. Cafagna, Il tarlo dell’antipolitica, in “Mondoperaio”, gennaio-febbraio 2002.

[42] L. Di Nucci, La democrazia distributiva…, cit., p. 107.

[43] L. Cafagna, Il tarlo dell’antipolitica…, cit., p. 2.

[44] Il Partito Popolare Italiano (PPI) è stato un partito politico fondato il 18 gennaio 1994 da Mino Martinazzoli.

[45] Il Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale (MSI-DN) è stato un partito politico italiano di destra/estrema destra. Il Movimento Sociale Italiano (MSI) fu fondato il 26 dicembre 1946 da reduci della Repubblica Sociale Italiana, come Giorgio Almirante, Pino Romualdi ed ex esponenti del regime fascista, come Arturo Michelini e Biagio Pace. Nel 1972, dopo l’unione con il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica, il MSI ha aggiunto al suo nome la dizione Destra Nazionale, divenendo così Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale (MSI-DN)

[46] Il concetto di “Media Logic” fu introdotto dai sociologi Altheide e Snow, che, nel 1979, furono i primi a parlarne per identificare lo specifico riquadro di riferimento della produzione di cultura dei media in generale, e delle notizie in particolare. Gli elementi base della “Media Logic” sono i vari mezzi di comunicazione (nel contesto storico di Altheide e Snow erano per lo più televisione e radio), e i formati da loro utilizzati.

  1. Pombeni, La storia dei partiti…, cit. p. 258.

[47] Il Movimento Politico Forza Italia o semplicemente Forza Italia (FI), è un partito politico italiano di centro-destra, attivo dal 18 gennaio 1994 al 27 marzo 2009 e tornato attivo dal 16 novembre 2013. Presidente e leader del partito è stato, sin dalla sua fondazione, Silvio Berlusconi.