FILIPPO TURATI E L’EUROPA

di Gian Piero Orsello

Intervento pubblicato sul libro “Filippo Turati cinquant’anni dopo” Edizioni Scientifiche Italiane – 1983

Il nome di Turati è obiettivamente legato al tema dell’unità europea, tanto intrecciato a quello della lotta al fascismo, cioè all’anti-Europa, come “quel cancro abominevole, per sua confessione, si vanta di essere“, affermava Turati nell’intervista a “Le Quotidien” del 15 dicembre 1929, inserita nell’antologia intitolata Per gli Stati Uniti d’Europa, a cura di Pier Carlo Masini, con introduzione di Aldo Garosci, per iniziativa della Fondazione Turati.

Il pur importante contributo dato da Filippo Turati alla indicazione della prospettiva europea, intende sottolineare l’apporto a tale causa venuto dal pensiero e dall’azione socialista, ingiustamente ignorati o non sufficientemente rammentati da quanti spesso ricordano i precursori della lotta per la Federazione europea e li ritrovano, nel secolo scorso, ai primordi della Giovine Europa, nel pensiero di Giuseppe Mazzini e nella testimonianza di Cario Cattaneo, per scendere, poi, a questo secolo e rievocare il contributo di molti protagonisti della cultura e della politica, da Benedetto Croce a Luigi Einaudi, a Gaetano Martino, da Carlo Sforza a Ugo La Malfa e della visione indubbiamente europea, connaturata a tutta la sua azione politica, di Alcide De Gasperi.

Non intendiamo minimamente disconoscere o attenuare il grande contributo venuto alla causa dell’unità europea dagli illustri pensatori e statisti indicati, come conosciamo bene nell’area del pensiero e dell’azione socialista gli importanti apporti dati con lunga coerenza da Giuseppe Saragat e da Pietro Nenni, soprattutto negli ultimi anni della loro azione politica, come ricordiamo, altrettanto bene, il contributo all’idea d’Europa venuto dall’ala più consapevole del socialismo europeo, dalla socialdemocrazia austro-tedesca, da Otto Bauer a Willy Brandt, dal socialismo francese da Aristide Briand, a Jean Jaurés, a Leon Blum, a François Mitterand, ai sintomi positivi, pur in una situazione non facile del laburismo inglese.

E’ fondamentale, nella storia del pensiero socialista italiano, il riferimento all’Europa, che ci viene, in piena esaltazione nazionalista e al culmine quasi dell’ubriacatura fascista, dall’intuizione meditata e tempestiva di Filippo Turati, il quale non a caso, nella citata intervista al giornale francese, ricordava giustamente l’aspirazione europea del grande apostolo Giuseppe Mazzini, ma aggiungeva subito dopo che il contributo dei socialisti alla causa degli Stati Uniti d’Europa non poteva mancare proprio per la loro natura di “internazionalisti per definizione“.

Nella lunga e coerente linea evolutiva del pensiero di Filippo Turati il riferimento all’unità dell’Europa non è quantitativamente ricorrente per dettagli e costanza, anche si occorre dire che tutto il quadro della concezione politica di Turati non solo non contrasta, ma sostanzialmente coincide sempre con una impostazione sostanzialmente europeista: la sua opposizione al colonialismo, fin dall’epoca della prima guerra italiana in Africa (1887), la sua dura lotta contro l’interventismo nella prima guerra mondiale (1914), l’iniziativa di pace, in piena guerra nei confronti dei socialisti francesi e la mozione presentata in Parlamento “per la salvezza d’Europa” (1916), il discorso alla Camera dei deputati a proposito dell’Alto Adige (1920) in relazione alla ratifica del Trattato di S. Germano – che precorre problemi e soluzioni di grande attualità nel secondo dopoguerra – la lettera ad Arthur Henderson, dopo la prima vittoria elettorale del partito laburista inglese (1923), sul tema del libero scambio, con una visione in larga misura anticipatrice degli argomenti che negli anni ’50 avrebbero dovuto portare all’unione doganale e alla comunità economica europea, e che contrasta una linea isolazionista, che avrebbe dovuto ripresentarsi nell’ambito del partito laburista e in particolare nelle Trade-Unions.

Ma è soprattutto un discorso di Turati alla Camera dei deputati, pronunciato nel 1919, sulle dichiarazioni del Governo Orlando in relazione alla defezione italiana dalla Conferenza della pace, che attira la nostra attenzione per la sua lucidità e per la sua lungimiranza, contro l’imperialismo diffuso e il nazionalismo non sopito, che avrebbero dovuto di lì a pochi anni precipitare il Paese nell’avventura e poi nella catastrofe, proprio in nome di quei miti contro i quali Turati elevava la propria condanna e pronunciava il proprio rifiuto, ribadito nella dichiarazione di voto pronunciata dall’esilio il 31 marzo 1929 di fronte alla forza del plebiscito per il regime fascista.

Dove la denuncia in Turati, anche in polemica con socialisti di altri Paesi, della regola dei due pesi e delle due misure nella valutazione delle ragioni dell’indipendenza dei popoli; vi è la previsione del rischio della balcanizzazione dell’Europa, che anticipa la valutazione del pericolo da est – che nella citata intervista del 1929 definirà con linguaggio colorito e di moda “il pericolo giallo” -; vi è l’avvisaglia di un altro rischio, che pure denuncerà poi nella stessa intervista, anche se nel quadro di affermazione di solidarietà con gli Stati Uniti d’America, che anticipano la visione kennediana della partnership, quello di una progressiva “apertura all’Europa al dominio americano“.

Vi è soprattutto l’auspicio della pace “fra la grande cooperativa delle genti” e l’affermazione perentoria ed esplicita, che pure dovrà riprendere successivamente, degli Stati Uniti d’Europa, la riduzione dei problemi nazionali alla dimensione “dell’importanza che possono avere in uno Stato le circoscrizioni di una provincia, la separazione di uno o più comuni”, mentre invece con tutta la forza dal proprio temperamento vibrante sottolinea “la fraternità degli animi, gli aditi aperti ai commerci ed alle influenze intellettuali, l’affratellamento degli interessi“.

E’ l’eco di una polemica che in un leader della sua statura, in un socialista della sua fede, in un democratico della sua tempra non poteva non fare aggio su visioni e su prospettive che pure egli percepiva distintamente e che avrebbe portato all’attenzione dell’Internazionale Socialista e nei discorsi che avrebbe pronunciato nell’ultima parte della sua vita nei Congressi di Bruxelles e di Vienna. Sono i problemi legati all’influenza oggettiva della rivoluzione sovietica, ma al rifiuto della logica leninista e delle ragioni che avrebbero indebolito la classe operaia italiana con la scissione di Livorno del 1921, contro la quale egli energicamente si batté nei confronti dei fautori della creazione di un Partito Comunista legato all’obbedienza a Mosca ed alla Terza Internazionale. In questo senso, ci sembra più che mai opportuno un suo discorso, che ha sempre avuto un grande rilievo politico, ma che di fronte alla evoluzione dei fatti può assumere anche un significato premonitore.

Allora, al Teatro Goldoni di Livorno, il 19 gennaio 1921, Filippo Turati rivolto a coloro che si accingevano ad avviarsi verso la nuova esperienza comunista, affermava: “A noi può dolere che questa situazione ci divida fra noi, ci allontani tutti dalla meta, ci faccia perdere anni preziosi (…) sacrificando il proletariato alle nostre divisioni ed alle nostre impazienze (…) ogni scorciatoia allunga il cammino giacché la via lunga è anche la più breve perché è la sola“.

E Turati aggiungeva: “Il fenomeno russo è uno dei più grandi fatti della storia (…) ma la sua riproduzione meccanica è storicamente e psicologicamente impossibile (…) perché la sua forza è nel suo peculiare nazionalismo; esso avrà una grande influenza nella storia del mondo come opposizione agli imperialismi (…), ma è pur sempre una forma di imperialismo“.

E concludeva così il proprio discorso, Filippo Turati, rivolgendosi agli scissionisti, con termini che, a parte la speranza dei tempi, possono considerarsi veramente profetici: “Tutte queste cose voi capirete fra breve” –purtroppo sono passati sessantenni! (rif. al 1983)– “e allora il programma che state elaborando (…) vi si modificherà tra le mani e non sarà che il nostro vecchio programma (…). Se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, che rimanga come elemento di società siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via (…) e dovete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe“.

Sono affermazioni queste che, soprattutto alla nuova luce dei fatti, possono apparire premonitrici. Nell’attuale situazione di evoluzione e di ristrutturazione della sinistra italiana che ci riguarda direttamente, non siamo mai stati indifferenti alla collocazione del PCI ed al dibattito in tale partito, il cui ruolo, per la sua rappresentatività tra le masse popolari e per il peso politico assunto, non è mai stato privo di conseguenze per lo sviluppo della democrazia italiana. E certamente non è un caso che il PCI ha assunto diversamente da quanto non è avvenuto negli anni ’50 al momento dell’avvio verso la politica comunitari, una scelta sostanzialmente differente da quella di altri partiti comunisti dell’Europa occidentale nei confronti della costruzione europea e del disegno costituente in atto per sollecitazione soprattutto del Parlamento europeo eletto a suffragio universale sulla base della non dimenticata iniziativa di un vecchio federalista come Altiero Spinelli.

Come Turati con la sua idea della Federazione europea, considera più di un decennio prima del Manifesto di Ventotene dei confinati antifascisti – prima della Resistenza e dell’apporto dato da molti socialisti e da molti democratici “la via di salvezza” per l’Italia piegata sotto il giogo fascista.

Il problema degli Stati Uniti d’Europa si confonde, dunque, con il problema della sconfitta del fascismo, che Turati vede chiaramente, non solo come misera condizione per l’Italia “Mezzogiorno d’Europa“, ma come minaccia incombente, sempre più vicina per le nazioni che nel cuore dell’Europa, “avevano l’illusione di aver conquistata la libertà“. Turati spera, nonostante le critiche della citata lettera al partito di Mac Donald, nel laburismo inglese; considera “un passo decisivo verso l’unione europea, la costituzione in Francia di un governo stabile di sinistra“; ma, soprattutto. Turati conta sull’impegno per l’Europa dei socialisti in ogni Paese e, dunque, anche in Italia, affermando che “se i socialisti, abbandonando le loro preoccupazioni di ordine interno, si ponessero da un angolo visuale altamente internazionale, avremmo ben presto causa vinta”.

Nella sua “Europa, storia di un’idea“, Carlo Curcio sottolinea “la sonora istanza europeistica levatasi dai partiti socialisti democratici europei (…) eredi di qui primi riformatori che fin dal tempo della rivoluzione francese avvertirono la necessità di conferire un significato sociale all’Europa (…) per riempire il vuoto nella ragion storica dell’Europa (…). La formula dell'”Europa socialista” parve divenire prevalente e dominante (…).

Il socialismo avrebbe dovuto aiutare gli Stati europei ad unirsi, scardinando il mito della sovranità nazionale e realizzando la federazione europea che non avrebbe potuto essere realizzata “sul capitalismo dell’Europa continentale che, a giudizio dell’importante esponente del pensiero laburista inglese Cole“, che considerò Turati la personalità di maggior rilievo del socialismo italianoappariva minato fin nelle fondamenta“, con una valutazione che se appariva fortemente caratterizzata dalla scelta ideologica, sembrava, tuttavia, lontana dall’effettiva capacità produttiva espressa dalle società industriali dei Paesi dell’area comunitaria nel secondo dopoguerra. In questa direzione deve muoversi con impegno e con energia un’iniziativa sul piano comunitario delle forse impegnate nell’Internazionale socialista e nel Partito del socialismo europeo, per troppo tempo superate da altri nel perseguimento del disegno europeo.

A questo impegno non deve e non può mancare l’apporto del riformismo presente in Italia, giacché esso ha le carte in regola per rivendicare una scelta di iniziativa europea e di coerenza con le prospettive federali maturata in anni ormai lontani, una vocazione che riempie di contenuto tutta la nostra battaglia verso una società più libera e più giusta, verso soluzioni che non possono più racchiudersi alle dimensioni nazionali, ma che devono spaziare nella prospettiva dell’unità politica dell’Europa, di un potere costituente per il Parlamento europeo, di un effettivo governo europeo. Guardiamo ai positivi esempi delle democrazie socialiste nel nord Europa che hanno saputo trasformare sostanzialmente il rapporto uomo-società e cittadino-Stato, senza cedere ad esperienze di tipo diverso ne ovviamente a quelle condizionate dal determinismo burocratico, che riducono l’individuo a schiavo forgiato dall’indottrinamento propagandistico, ma nemmeno a modelli validi in altri contesti, tuttavia non applicabili alla realtà del continente europeo se non a prezzo di un sacrificio delle nostre autonome radici culturali e della nostra pluralistica organizzazione democratica non assoggettabile alle semplificazioni di una logica mercantile, misurata soltanto dallo sviluppo capitalistico.

Giuseppe Saragat in opere lontane e in testimonianze recenti ha dato risposte ineguagliabili agli “assertori di posizioni neoliberistiche talvolta ammantante di qualche giaculatoria socialistica” ricordando la fondamentale distinzione tra democrazia politica e liberismo economico, con ciò convalidando il convincimento di operare nel giusto per l’edificazione di una società che sappia vincere sui criteri di un assetto sociale asetticamente e totalmente preda del culto del consumismo, sull’insufficienza e sui limiti di un modello orientale soltanto secondo gli interessi dello sviluppo capitalistico. Siamo convinti che la strada del socialismo avanza di pari passo con la dilatazione di una pratica democratica che impronti progressivamente di sé società e Stato; siamo convinti che il progresso economico e sociale, che il socialismo realizza, ha una propria legittimazione morale, in quanto libera e sviluppa la personalità umana; siamo convinti, infine, che l’uguaglianza giuridica, economica e sociale che il socialismo persegue è lo strumento per realizzare una più alta convivenza civile fra gli uomini, un più equilibrato e armonico sviluppo della comunità. Ma siamo anche convinti, e l’esperienza storica dimostra, che non possiamo attendere l’avvento del socialismo senza operare attivamente per modificare le situazioni come esse si presentato e che tale modificazione si realizza attraverso il metodo democratico ed un gradualismo di azione, che non può far dimenticare la necessità, giorno per giorno, come cittadini e come uomini, di regolare i conti con i problemi che si pongono all’interno della società e dello Stato e che ci impegnano a soluzioni conseguenti come democratici.

Giustamente Saragat, con una costante fedeltà e con una ripetitività quasi pedagogica, si è posto da sempre il problema dell’integrazione della libertà politica e della giustizia sociale, tanto di libertà da consentire la giustizia sociale, tanto di giustizia sociale da garantire la libertà, non solo come metodo e modello formale, ma anche come tessuto e contenuto reale. Dobbiamo accentuare quel senso del sociale che costituisce un presupposto indispensabile per una società democratica ancor prima che per una società socialista. Occorre distinguere tra pluralismo politico e liberismo economico: il primo non si identifica con il secondo, la logica del profitto non si concilia con la proposta di una società democratica e socialista, mentre il pluralismo politico è garantito dal sistema democratico, non dalla ferrea legge della concorrenza economica, specie quanto essa non è corretta dall’equitativo intervento dello Stato.

Dobbiamo accrescere il nostro interesse per i problemi posti prima con l’attuazione ed ora con la crisi del Welfare State, prendendo atto che pur con le difficoltà riscontrate e considerando i risultati raggiunti, non esistono modelli alternativi, in grado di assicurare un rapporto più fecondo nella partecipazione dei cittadini alla comunità nazionale nel suo divenire sociale, come nella prospettiva di un’armonizzazione comunitarie. Come voleva Turati, al quale Leo Vallarli ha riconosciuto il merito storico di aver lottato per inserire nello schema dello Stato democratico-liberale le istanze della classe operaia tradotte in legislazione sociale, la tematica del lavoro ha acquistato un rilievo fondamentale negli ordinamenti delle comunità umane contemporanee: il riferimento ai problemi sociali ha acquisito un’importanza crescente nelle Costituzioni più recenti degli Stati e ad essi è dedicata una più sviluppata attenzione da parte di varie organizzazioni internazionali, mentre la Comunità europea, che ha avuto fin dall’inizio finalità economiche, ma prospettive politiche non può tentare di forzare i ristretti limiti delle competenze previste dai Trattati istitutivi in tema di politica sociale.

Guardiamo alla soluzione dei problemi della società italiana, sotto molti aspetti gravi e difficili, puntando sull’Europea, non per compiere una fuga in avanti, non inconsapevoli delle difficoltà con cui la costruzione comunitarie deve quotidianamente misurarsi, ma perché la dimensione europea e il confronto che ne deriva, ci danno la certezza di operare in una prospettiva veramente giusta: si potrebbe, allora, affermare, mutando ancora la sostanza del pensiero di Filippo Turati: costruire l’Europa anche per rifare l’Italia, riprendendo, così, in una dimensione più larga, il filo conduttore di un importante discorso alla Camera del 1920 sulle condizioni economiche e sociali del Paese.

Il discorso di Turati al Congresso dell’unificazione socialista a Parigi nel luglio 1930 fu tutto rivolto alle possibilità del socialismo nella realtà internazionale e soprattutto incentrato sulle prospettive che avrebbero potuto aprirsi per il socialismo in Italia: “Potremo ridividerci? Non so, ma fosse anche (…) io traggo oroscopi favorevoli (…) il gradualismo si imporrà!”.

Nell’ultimo discorso pronunciato a Vienna ad un anno di distanza, nel luglio 1931, al VI Congresso dell’Internazionale Socialista, Filippo Turati riprende i temi già svolti nel precedente Congresso di Marsiglia dell’Internazionale Socialista (1925) – alcuni dei quali riecheggiati nelle lettere ad Anna Kuliscioff, riportate nel carteggio Turati-Kuliscioff, raccolto da Alessandro Schiavi – e ribaditi nel Congresso di Bruxelles, quando aveva affermato che “l’antico duello tra socialismo e capitalismo (…) si complica di nuovi elementi. Il conflitto è un altro: da una parte (…), il fascismo, dall’altra (…) mentre con i bolscevichi la separazione è netta e logica (…), la federazione democratica dei popoli“. Il discorso ritornava al fascismo che non è un problema soltanto dell’Italia ma un pericolo per tutti i Paesi dell’Europa, per cui occorre lottare per vincere, per la pace contro la guerra: “accreditare il fascismo per il vantaggio di un giorno è rinvigorire per un molto lungo domani il nemico istituzionale, il più insidioso e malefico della pace e del socialismo (…)“. Perciò “preconizziamo la Federazione europea!“, anche per evitare, come aveva scritto da Marsiglia alla sua Anna nell’agosto del 1925, che “l’Italia sia fuori dall’Europa e lontana ugualmente da tutti i paesi civili“.

Fin qui Filippo Turati, e opportunamente nel presentare il ricordato volume dei sui discorsi e scritti “per gli Stati Uniti d’Europa“, Pier Carlo Masini conclude: “Turati cade (…) dopo aver intuito ed imboccato la via giusta (…). Federalismo e mondialismo non potevano essere che deboli segnali in un universo di potenze che si preparava a consumare l’esperienza di una seconda guerra mondiale. Ma il corso delle cose, misurato non sui decenni ma sui secoli andava verso forme superiori di convivenza e di solidarietà (…), un itinerario tormentato e complesso”, per richiamare una frase di Aldo Garosci, “che non fu solo suo, ma di molti dei più alti spiriti dell’Europa (…) un’Europa che si costruisce non sul fondamento dell’Europa intera, come la concepiva Turati, ma su uno scoglio isolato, un promontorio di mondo moderno (…).

Credere che questa nostra Europa sia ancora quella di Turati (…) sarebbe fare oltraggio alla sua stessa filosofia (…) che sempre rimase fedele a quel suo concetto della graduale evoluzione”. Ma Saragat, nel centenario della nascita di Filippo Turati e nell’accompagnare le sue ceneri, con Leon Blum, al Monumentale di Milano, ci ha ricordato che “il merito immortale di Turati fu di aver saputo con una lucidità esemplare e con una coscienza infallibile vedere al di là della superficie e affermare il senso profondo della storia con un messaggio cui guardiamo come ad un indirizzo di validità perenne“. Siamo resi più certi dall’analisi e dalla visione di Turati della stretta concessione tra realtà interna e prospettiva europea, in quanto la battaglia per lo sviluppo della democrazia italiana non può mai dimenticare la più larga frontiera europea, come mai può essere considerata la posta in giuoco di una avvenire unitario per l’Europa dimenticando che l’appuntamento passa per noi anzitutto nel rafforzamento della nostra coscienza democratica. E’ appunto dall’insegnamento di Filippo Turati che vogliamo trarre tutte le connessioni per “la grande cooperativa europea” delle genti, per una Italia che non sia “sorda al duplice appello della giustizia e della civiltà“.