INFLUENZE CULTURALI: IL POTERE DEI MASS MEDIA SULLA POLITICA, LA PROPAGANDA E IL CONSENSO (I capitolo – 2.)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO”

CHIETI – PESCARA

DIPARTIMENTO DI LETTERE, ARTI E SCIENZE SOCIALI

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONI LETTERARIE

L’ITALIANO DELLA POLITICA TRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA

RELATORE CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Emiliano Picchiorri Chiar.ma Prof.ssa Maria Teresa Giusti

LAUREANDO

Dario Lorè

Matricola n. 3171312

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

 

Nel mondo bipolare, allo sfoggio ideologico della propaganda degli stati del socialismo reale si contrapponeva il potere molto strutturato dell’apparato politico, economico e militare dell’Occidente. Un Occidente “propagandistico” in quanto persuasore occulto. Ma il crollo del Muro ha significato l’introiezione del “modello della propaganda” non solo da parte dei media ma anche dal popolo? È diventato universale? Le grandi narrazioni che identificavano Occidente e Oriente sono state più flebili. Anche nel campo dei vincitori c’è stata una crisi profonda dell’autorità politica tradizionale, delle mediazioni che fornivano identità su misura. La stessa organizzazione del potere militare ha conosciuto una complessa fase di ristrutturazione internazionale.

Oggi la divisione in blocchi non esiste più. Bisogna chiedersi se le tipologie con cui Chomsky ha definito il modello di propaganda dell’informazione ci aiutano ancora a comprendere il funzionamento dei media.[1] Senza dubbio questo sistema resta condizionato dalla struttura economica e aziendale delle imprese di informazione. A dominare è la logica del profitto, ma l’apertura di spazi di comunicazione impensabili appena qualche anno fa e la dimensione sempre più globalizzata dei messaggi e delle immagini veicolate da giornali, tv, computer stanno producendo mutamenti nella mentalità e nei comportamenti, sia nei consumatori, sia nei produttori di informazione. Senza dimenticare il condizionamento esercitato dalla pubblicità. Reale e virtuale si sovrappongono.

Nel modello di propaganda di Chomsky, la rete delle fonti di informazione dominanti, legate al governo e all’apparato militare e industriale, ha una grande forza.

L’uso di campagne aggressive contro i media, per condizionarli quando dimostrano un atteggiamento troppo critico, può affiorare nella contestazione ormai generale delle insufficienze di giornali e tv.

La linfa ideologica dell’anticomunismo, spirito vitale della propaganda occidentale durante la Guerra Fredda, ha perso il suo nemico. Questo non vuol dire che non si producano nuovi ideologismi capaci di guidare i più forti apparati del potere economico e politico. Eppure la stessa dinamica economica della finanziarizzazione postfordista e i suoi effetti in tempo reale hanno scosso gli assunti ideologici più estremi della vulgata neoliberista.[2]

Un gruppo di intellettuali francesi ha contestato la credibilità dell’informazione con toni neo-apocalittici. Pierre Bourdieu è stato capace di far vibrare le corde autocritiche del giornalismo quando ha descritto l’assoggettamento dell’audience e si è scagliato contro la regina dei media, la televisione. La televisione, per Bourdieu, è diventata un <<formidabile strumento di mantenimento dell’ordine simbolico dato.>>[3]

Sentirsi dalla parte giusta privilegiando le affermazioni sulle informazioni, aiuta davvero a evitare lo scoglio di un giornalismo supino? Nella figura del cittadino-spettatore, che ha sostituito il militante impegnato, si deve proprio leggere solo passività e condizionamento? Come interpretare l’esplosione di critiche rivolte all’informazione nell’Occidente?

Di fronte alla globalizzazione, si globalizza l’informazione stessa, con il proliferare di strumenti di comunicazione, lo sviluppo dell’informatica, della simulazione e l’allargamento generalizzato delle tecnologie dell’illusione.

La critica a questo ottimismo globale indica l’esistenza di differenze culturali incancellabili e di diseguaglianze relative. Le une e le altre potrebbero approfondirsi proprio in ragione della ricchezza di tecnologie e di sapere che si va concentrando nella Global Business Community.[4]

Tramontata l’eccessiva fiducia nella bontà di un intervento pubblico da parte degli stati, si è aperto l’interrogativo del se e come le nuove forme di esclusione possano essere combattute. La rivoluzione elettronica ha cambiato radicalmente la politica e ha aumentato esponenzialmente il peso dell’opinione pubblica. La missione dei media sarebbe quella di formare l’opinione pubblica senza barriere e manipolazioni. Ma il giornalismo ha ancora il ruolo di quarto potere capace di sorvegliare il potere esecutivo, legislativo e giudiziario? Le critiche opposte hanno descritto in realtà un effetto di spaesamento. Forse perché il capitalismo ha vinto in tutto il mondo la “fabbrica del consenso” ha perso rilevanza strategica.

La funzione prevalente del sistema dei media è quella di “specchio”, spesso opaco e deformante. Ma in questo specchio oggi si riflette una crisi verticale dei vecchi sistemi di potere e di autorità, dai governi nazionali ai partiti e ai sindacati, dalla chiesa alla famiglia e al rapporto tra i sessi. L’immagine riflessa non è bella e questo spiega l’attacco sempre violento al linguaggio dei media. Insofferenti i leader politici, ostili i soggetti che si sentono esclusi. Marginalizzati da un’informazione incapace di raccontare la società, di vedere in anticipo quanto sta cambiando nel mondo. Ciononostante i giornali e la tv possono riflettere i mutamenti sociali più rapidamente di qualsiasi altro strumento. La comunicazione diventa il paradigma stesso della conoscenza, e quindi del potere.[5]

Non è un caso che in molte democrazie occidentali gli equilibri tra i poteri si siano rotti, negli ultimi tempi, a vantaggio del potere mediatico, sempre più spesso intrecciato con quello giudiziario.

L’Italia, da questo punto di vista, ha rappresentato un caso emblematico. Il passaggio dalla “prima” alla “seconda Repubblica” è stato segnato dal conflitto per il controllo di una larga fetta del sistema dei media. La guerra tra i partiti e alcuni gruppi imprenditoriali ha avuto per oggetto la fine del monopolio pubblico televisivo, lo sviluppo della tv commerciale e il possesso di giornali e case editrici. Non per caso questo è stato il teatro dell’irresistibile ascesa politica del maggiore imprenditore privato nel campo dei media, Silvio Berlusconi. Il rischio di un’involuzione “telepopulistica” della democrazia italiana ha impressionato molto a livello internazionale.[6]

Il caso italiano è paradigmatico anche per il modo in cui la crisi della politica è stata accompagnata dal protagonismo del potere giudiziario contro la corruzione, amplificato e drammatizzato dai media, che poco si sono emancipati da una scelta di rispecchiamento ed enfatizzazione, spesso faziosa, quando hanno dovuto affrontare fenomeni e conflitti nuovi e imprevisti.

Si potrebbe dire che siamo di fronte a un modello di propaganda passiva. Quasi che i giornalisti siano disorientati di fronte a un mondo che non offre più le certezze del passato.[7]

Prima conseguenza di questo terremoto è stata la perdita di distanza tra la realtà e la sua rappresentazione. L’avvenimento in sé si è trovato squalificato. Non conta la sostanza e le sue determinazioni spazio-temporali, ma lo choc della rivelazione istantanea: la ricerca a effetto a scapito dei fatti.

Oltre al già citato clamore mediatico causato da “Tangentopoli”, c’è stato un altro evento giudiziario-politico che ha prodotto effetti destabilizzanti sul paese. Il 21 novembre 1994 viene recapitato un avviso di garanzia a Silvio Berlusconi, capo del governo, mentre presiede a Napoli un vertice internazionale dell’ONU sulla criminalità. L’accusa è stata quella di aver corrotto a più riprese, come responsabile della Fininvest, uomini della Guardia di finanza. Il “Corriere della Sera” è stato l’unico giornale a uscire in anticipo con la notizia. Clamore enorme, anche per la rilevanza della sede internazionale in cui Berlusconi è raggiunto dall’avviso. Quando Berlusconi ha subito la prima condanna da parte del tribunale, esplode la polemica retrospettiva. Il capo dell’opposizione ha lamentato di essere stato vittima allora di un golpe politico-giudiziario che di lì a poco avrebbe provocato la fine del suo governo. Riemergeva un particolare: il procuratore capo del pool, Francesco Saverio Borrelli, aveva informato dell’avviso di garanzia il presidente della Repubblica, Scalfaro, per la rilevanza politica e istituzionale dell’iniziativa. Ma lo aveva fatto solo a poche ore dalla materiale consegna del documento per timore che ci fosse una “fuga di notizie”.[8]

Questo aspetto della vicenda non ha mutato l’interrogativo sulle responsabilità penali di Berlusconi e sul peso del conflitto di interessi che accompagna sin dall’origine la sua carriera politica.

È stato emblematico del cortocircuito scattato tra conduzione delle inchieste sulla corruzione politica e intervento dei mass media sin dall’inizio della vicenda di “Tangentopoli”. La nascita di quel fenomeno è stata accompagnata dalla parallela formazione di una squadra di cronisti giudiziari delle principali testate giornalistiche e televisive che seguivano le inchieste diventando di fatto portavoce dell’azione dei PM. Alla domanda dei giornalisti sull’eccessiva dipendenza dell’informazione dalle fonti forti, costituite in questo caso dai magistrati, non giungeva nessuna risposta. Cominciava ad agire, attorno alle inchieste che andavano decapitando la vecchia classe dirigente, una “fabbrica del consenso” che, se all’inizio poteva corrispondere anche a una reazione alle resistenze del ceto politico, è finita poi con il contribuire specularmente allo spaccarsi del mondo dei media e dell’opinione pubblica in due parti faziosamente contrapposte. La prima quasi sempre pregiudizialmente a favore dell’opera dei magistrati, anche quando i metodi usati fanno dubitare del pieno rispetto delle regole di uno stato di diritto. Il secondo, altrettanto pregiudizialmente contrario, in nome dei princìpi del “garantismo”.[9]

L’agognato bipolarismo del sistema politico italiano ha rischiato così di trasformarsi in una strana divaricazione tra giustizialisti e ultragarantisti, che solo in parte coincideva con la più tradizionale articolazione destra-sinistra. Il circolo vizioso si è aggravato nel momento in cui il sistema dell’informazione è stato in gran parte dominato da interessi economici e politici opposti.

Se il sistema politico ha rischiato di incartarsi sulla questione giustizia, il sistema dell’informazione non è riuscito a fare molto meglio, lasciando aperta quella è stata chiamata “questione morale”.

Ancor prima che catalizzasse l’attenzione dell’opinione pubblica per mesi, a partire dal 1992, per comprendere meglio il suo sviluppo, la “questione morale” è stata al centro di una famosa intervista rilasciata il 28 luglio del 1981 da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari e apparsa il giorno dopo su la “la Repubblica”.[10] Berlinguer aveva esordito affermando che all’origine di tutti i mali d’Italia vi fosse la degenerazione dei partiti. Soffermandosi poi sulla “questione morale”, aveva detto che non si esauriva nel denunciare e mettere in galera ladri, corruttori e concussori che erano ai vertici della politica e dell’amministrazione. La questione morale” faceva <<tutt’uno con l’occupazione dello Stato>> da parte dei partiti di governo e delle loro correnti e con la <<guerra per bande>>. Era il cuore del <<problema italiano>> e la sua causa principale andava ricercata nella <<discriminazione>> contro i comunisti. Con l’ingresso del PCI al governo, si sarebbe messo fine a una <<stortura>>, a un’amputazione della democrazia, della <<dialettica democratica>> e della <<vita dello Stato>>.[11]

Berlinguer aveva usato parole molto dure per descrivere lo stato di degrado in cui versava il paese, ma al momento di fornire indicazioni politiche forti si era limitato a chiedere che i comunisti entrassero nel governo.

Nel momento in cui è diventato presidente del Consiglio, nell’agosto del 1983, Craxi si è rivelato senza dubbio un innovatore, incalzando, sul piano ideologico, il PCI, ma non si è reso conto di quale fosse lo stato reale delle cose. L’Italia si trovava in gravi condizioni economiche, ma Craxi non sembrava preoccuparsi molto della montagna rappresentata dal debito pubblico. Uno dei temi caldi è stato quello della scala mobile, sul quale argomento ha deciso di ingaggiare una battaglia, poi vinta, con i comunisti. Questo ha confermato quanto fossero grandi le attese sul suo conto, ma le ha ignorate e di fatto ha rinunciato a combattere una vera battaglia per il risanamento.[12] Forte del suo potere coalittivo, ha pensato di poterlo accrescere sviluppando la “politica invisibile”, ovvero quella che fa conto sulla “finanza nera”. Dal momento che il PCI e la DC avevano le loro fonti di finanziamento, Craxi ha deciso di colmare questa storica lacuna attraverso il ricorso al sistema, certo non nuovo ma illegale, delle tangenti. Secondo Vittorio Foa, Craxi non si rendeva conto dell’importanza della dimensione morale nella vita politica. Convinto che la pratica del finanziamento illecito riguardasse l’intera classe politica, non capiva che esisteva una morale comune distinta dalla logica giudiziaria.[13] Che il leader socialista non fosse capace di questa distinzione lo si è compreso quando, come già detto, è stato arrestato l’amministratore socialista del Pio Albergo Trivulzio. Il 3 marzo successivo, in un’intervista a Rai 3, Craxi parlava di Mario Chiesa come di un “mariuolo”.[14] Il segretario del PSI pensava di chiudere sbrigativamente l’incidente, ma che l’arresto di Chiesa costituisse una crepa che si stava aprendo nel sistema lo si è capito solo alle elezioni dell’aprile seguente.[15] A partire da allora, è iniziata una vera e propria “guerra civile fra i poteri” dello Stato.[16]

Il “Corriere della Sera” parlava delle elezioni del 5-6 aprile del 1992 come di <<elezioni terremoto>>, in quanto vedevano il successo di un partito antisistema, la Lega Nord, che ha ottenuto l’8,7% dei voti.[17] All’indomani del terremoto politico, Giuliano Amato riteneva, tuttavia, che il sisma fosse stato meno devastante del previsto, in quanto non aveva travolto il PSI. Anche Craxi era di questa opinione e non nascondeva le sue ambizioni per Palazzo Chigi.[18] Ma il guaio era che le nuvole nere che annunciavano la bufera di Tangentopoli si stavano minacciosamente addensando su Milano. La linea di difesa scelta dal PSI, ovvero di considerare quello di Mario Chiesa un caso isolato, incominciava a vacillare.

Non sbagliava Eugenio Scalfari quando scriveva che si era aperta una <<questione Craxi>>. Una questione che condizionava un’altra partita, quella per la presidenza della Repubblica. I partiti si trovavano in uno stato di impasse, da cui sono usciti, forzatamente, solo quando la mafia ha scelto di ricorrere senza indugi alla strategia stragista.[19] Su questa delicata vicenda ha scritto anche Indro Montanelli: <<a issare Scalfaro al Quirinale non sono stati i mille grandi (si fa per dire) elettori di Montecitorio, ma i mille chili di tritolo che hanno massacrato Falcone, sua moglie e il suo seguito>>.[20] A seguito di innumerevoli difficoltà Craxi si trovava a fare un passo indietro e a indicare Amato, che costituiva il governo il 28 giugno. Qualche giorno dopo, il 3 luglio, il leader socialista passava al contrattacco attraverso il celebre discorso che ha pronunciato alla Camera. In apertura, aveva dichiarato che avrebbe parlato il linguaggio della verità, da un’aula parlamentare e di fronte alla nazione. Andando al cuore della questione, aveva detto che buona parte del finanziamento politico era irregolare o illegale. Ma se quella materia doveva essere considerata puramente “criminale”, allora buona parte del sistema sarebbe stato un sistema criminale. Infine, e qui Craxi arrivava al punto cruciale del suo discorso, un finanziamento irregolare o illegale non poteva essere utilizzato <<come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica>>.[21] Il discorso di Craxi ha suscitato reazioni molto forti, soprattutto a sinistra. Achille Occhetto ha parlato di un tentativo di <<autoassoluzione di tutta la classe politica italiana>>, mentre Massimo D’Alema ha giudicato <<inaccettabile la chiamata di correo[22] alla responsabilità dei partiti nella questione morale>>.[23] D’Alema ha poi sostenuto che in quel discorso non vi era traccia di autocritica, ma Craxi non aveva avuto alcuna esitazione nel denunciare limiti, contraddizioni e degenerazioni dei partiti. Era arrivato anzi a dire che non vi era più molto tempo, poiché i “processi di necrosi” erano oramai a uno stadio molto avanzato. Bisognava reagire adottando anzitutto misure per riequilibrare la finanza pubblica. In secondo luogo, occorreva “ridefinire e riselezionare la spesa sociale e le protezioni dello Stato sociale, senza smantellarlo secondo le invocazioni dei peggiori conservatori”. Anche in questo campo, infatti, non si dava più nessuna possibilità di rinvio, poiché l’urgenza si imponeva <<nell’interesse soprattutto dei più deboli, di coloro che maggiormente [erano] bisognosi di sostegno e protezione>>.[24]

Commentando le prime misure, il presidente del Consiglio dichiarava che l’Italia era <<sull’orlo del baratro>> e con i provvedimenti approvati aveva fatto <<un passo indietro>>: il paese si trovava davvero in una situazione di emergenza finanziaria. Contestualmente, infatti, Amato presentava in parlamento una legge contenente quattro deleghe che impegnava il governo a riorganizzare, entro novanta giorni dall’approvazione, i settori della sanità, della previdenza, del pubblico impiego e della finanza locale. Dopo aver chiuso un accordo con sindacati e imprenditori sul costo del lavoro, il primo decreto si trasformava in legge, ma oltre alle misure prima richiamate ne conteneva altre. Fra queste, l’abolizione dell’equo canone e, soprattutto, la trasformazione in società per azioni di Iri, Eni, Ina e Enel.[25]

Altre misure sono state prese tra l’autunno e l’inverno di quello stesso anno. Nel momento in cui questi provvedimenti erano adottati, i sindacati protestavano duramente, ma la riforma del Welfare non era più rinviabile, poiché, come hanno scritto Giuliano Amato e Andrea Graziosi, i diritti sociali, a differenza di quelli politici e civili, sono <<diritti costosi>> e quindi non <<sempre e comunque esigibili>>.[26]

Negli stessi giorni in cui veniva approvata la Finanziaria del governo Amato, il 15 dicembre Craxi riceveva un avviso di garanzia da parte della procura di Milano per concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico.[27]

All’indomani, Andrea Barbato scriveva su “l’Unità” che era finita <<l’era dei congressi scenografici, i templi e le piramidi, le folle osannanti e gli illustri estimatori e i viaggi all’estero con i codazzi di un’Italietta che si credeva molto aggiornata, moderna, dotata di cultura di governo e di ossequio alle mode trascinandosi dietro stilisti e attrici in declino, nani e ballerine>>.[28]

Mentre la bufera di Tangentopoli investiva anche il PDS, il presidente del Consiglio e il ministro guardasigilli si adoperavano per trovare una soluzione politica, poi arrivata il 4 marzo, quando il Consiglio dei ministri approvava il “pacchetto Conso”. Il decreto Conso non nasceva dal nulla, ma recepiva un disegno di legge approvato nella prima commissione del Senato, presieduta da Antonio Maccanico, che depenalizzava il finanziamento illegale. Legittimato dall’approvazione nella competente commissione parlamentare, il governo faceva proprio quel testo trasformandolo in un decreto, benché il presidente della Repubblica avesse espresso la sua insoddisfazione mentre ancora se ne discuteva in Consiglio dei ministri.[29]

La reazione della stampa è stata veemente. Molto dura è stata, in particolare, “la Repubblica”, che prima ha scritto che il decreto rappresentava un <<mezzo colpo di spugna>> e poi ha parlato apertamente di <<governo dello scippo>>.[30] Che grandi giornalisti, o giuristi di vaglia esprimessero, anche con parole forti, il loro dissenso nei confronti dei provvedimenti del governo è del tutto legittimo. Eccezionale è invece il fatto che, a riprova dell’atipicità della situazione, fossero i giudici di Milano a dichiarare guerra al decreto Conso. Il procuratore di Milano leggeva un comunicato, sottoscritto anche da D’Ambrosio, Di Pietro, Davigo, Colombo e Dell’Osso, in cui era scritto: <<Il risultato del decreto sarà la totale paralisi delle indagini e l’impossibilità di accertare fatti e responsabilità. Noi però abbiamo il dovere di applicare le leggi, ma abbiamo anche il dovere di eccepirne l’illegittimità costituzionale>>. Al cospetto di queste reazioni, il presidente Scalfaro, con uno stop senza precedenti, decideva di non firmare il decreto preparato dal ministro della Giustizia.[31]

Un altro caso di rilevanza mediatica che ha segnato la fine del secolo scorso, contraddistinguendosi per la sua peculiarità, è stato il contrasto acutissimo tra il segretario del PDS, Massimo D’Alema, e l’allora direttore del “Corriere della Sera”, Ferruccio De Bortoli. Nei resoconti che “Il Giornale” ha dedicato ai verbali delle deposizioni di D’Alema e De Bortoli, tra le tante accuse, si leggeva: <<un classico caso del rapporto tra politica e informazione>> e <<un aspetto emblematico nei rapporti fra mondo dell’informazione e potere politico>>.[32] La tecnica giornalistica era quella tante volte usata dal quotidiano: verbali integrali o semintegrali di conversazioni che forse dovevano restare riservate. Titoloni e dovizia di commenti di contorno, che permettevano di aggiudicarsi il primato sull’interesse per la vicenda. Gli altri forse non lo hanno fatto perché sono già stati intimiditi dall’aggressività del segretario del PDS, giunto all’acme della sua ormai proverbiale ostilità per il giornalismo e i giornalisti?

Già, perché la scarsa considerazione verso la professione giornalistica dimostrata da D’Alema in decine di interviste, interventi, battute al vetriolo, ha conosciuto una decisiva escalation alla fine del novembre 1997, quando usciva sul “Corriere della Sera” un articolo del cronista parlamentare Francesco Verderami in cui si svela un <<piano di D’Alema per “ulivizzare” il sindacato>>.[33] Con tanto di cene segrete e di promesse di leadership al segretario della CISL Sergio D’Antoni. L’iniziativa del “Corriere” prosegue con interviste agli altri leader sindacali, tra cui il segretario della CGIL Sergio Cofferati. A questo punto D’Alema, dopo aver inviato una prima smentita, di fronte alla pubblicazione di altri articoli che continuano a dare per effettivo il suo “piano”, decideva di chiamare in causa l’Ordine dei giornalisti, con un esposto in cui si denunciava il fatto che per <<tre giorni consecutivi il consecutivi il “Corriere” ha scritto il falso senza citare alcuna fonte diretta o indiretta, senza interpellare né il sottoscritto né alcuno dei miei collaboratori, senza prendere in considerazione le smentite che erano state prontamente diffusi.>>[34] È una richiesta di interventi disciplinari contro il giornale, il suo direttore e i giornalisti. Il direttore del “Corriere” replicava all’iniziativa di D’Alema con un corsivo in prima pagina in cui lo paragona, quanto ad arroganza e autoritarismo contro i giornalisti, all’ex segretario socialista Bettino Craxi, e lo accusa, per di più, di avere <<l’abitudine, quando legge qualcosa di sgradevole, di rivolgersi agli azionisti.>>[35] Cioè di esercitare pressioni sulla proprietà del giornale. D’Alema passa alla querela, chiede due miliardi di danni, e sfida De Bortoli a giurare davanti al magistrato che quel che ha scritto il suo giornale è vero e provato.

Non si era mai verificato uno scontro così acuto, pubblico, e al massimo livello, tra politica e informazione. La vicenda, conclusa con la decisione di D’Alema di “fare pace” con i giornalisti ritirando tutte le querele contro quotidiani e periodici, ha dato luogo a esiti paradossali. L’Ordine dei giornalisti ha infatti deciso, nelle differenti regioni interessate, di adottare diversi provvedimenti, sia positivi, sia negativi.

Questo caso ha indicato anche un problema di natura linguistica e concettuale. Nulla di scandaloso e di segreto nel fatto che diversi soggetti politici intervengano per adeguare il ruolo dei sindacati al bipolarismo, peraltro incerto, del sistema politico italiano. Ridurre questo contrastato processo a una storia di trame oscure, se ha potuto rivelare qualche particolare più o meno piccante nei rapporti personali tra leader, ha rischiato di stravolgere la realtà, immolata sull’altare di una spettacolarizzazione a tutti i costi grazie allo schema del retroscena e del relativo scoop.

Naturalmente, simili reticenze, imbarazzi, degenerazione nel linguaggio, sul fronte della politica e su quello dell’informazione, sono la spia di una crisi radicale di autorità. Crisi che si consuma tra accuse roboanti e disfide volgari anche in ragione dell’eccessiva contiguità, tante volte osservata a proposito del caso italiano, tra ceto politico e professionismo giornalistico. L’attrazione e la repulsione reciproca tra politica e informazione somiglia a quella del tossico verso la sua dipendenza. Il problema non si risolve con la distanza fisica, giacché le trappole della spettacolarizzazione attraggono la preda, costituita da una politica che ha ormai pochi assi programmatici e simbolici a disposizione. E l’informazione deve personalizzare, agganciare il discorso a degli attori, mettere in scena un testo, anche se la qualità del copione non è eccelsa.

Risulta interessante da analizzare anche il dibattito, e poi la successiva approvazione nel 1993, che si è sviluppato attorno alla nuova riforma elettorale. In quei giorni i giornali informavano i loro che lettori che un gruppo di imprenditori, di dirigenti, di docenti universitari, per lo più settentrionali, aveva incominciato a riunirsi con l’obiettivo di creare una “rete nazionale”. A questi incontri aveva partecipato anche Silvio Berlusconi. Senza nascondersi, coloro che stavano tessendo questa rete spiegavano che la loro iniziativa scaturiva dalla volontà di impedire una “deriva a sinistra” del paese.[36] Una deriva tutt’altro che improbabile a causa degli effetti di ritorno di tre eventi: la caduta del Muro, Tangentopoli e l’approvazione della nuova legge elettorale. La caduta del Muro avrebbe potuto rappresentare una straordinaria occasione di modernizzazione della sinistra italiana. Tuttavia, benché il crollo del comunismo fosse in qualche modo annunciato dalla storia, il PCI si era lasciato cogliere impreparato e non aveva poi scelto di ridefinire la propria identità secondo un modello di socialismo democratico, occidentale ed europeo. Al contrario, aveva fiancheggiato quella forma di “giacobinismo giudiziario”, che per un certo periodo aveva dilagato in Italia, nella convinzione che spianasse la strada a una “politica buona” e a una “politica di buoni”.[37]

Il binomio costituito dalla caduta del Muro di Berlino e dalla scoperta di Tangentopoli aveva in effetti determinato la dissoluzione della DC e del PSI, sicché molti italiani erano rimasti di fatto privi di rappresentanza politica. Per questa ragione, in un’intervista a “la Repubblica”, Berlusconi aveva detto chiaro e tondo che bisognava <<dare un contributo alla soluzione della crisi del Paese.>> Occorreva anche un leader, che ancora non c’era, ma escludeva che potesse essere lui. Era invece convinto, e si tratta di un passaggio fondamentale, che <<la nuova legge elettorale [fosse] destinata a spostare gli equilibri di scelta degli elettori.>>[38]

Fin dal momento in cui stava prendendo corpo, Berlusconi aveva capito, prima di molti leader politici di lungo corso, che la riforma elettorale avrebbe comportato la formazione di un sistema politico completamente nuovo. Un sistema bipolare, sia pure “imperfettamente bipolare”, che non era compatibile con la “prassi tendenzialmente centrista” del sistema proporzionale e non consentiva che ci fosse <<un vuoto in corrispondenza di uno dei due poli in cui il sistema necessariamente si articola[va].>>[39]

La conferma che questa fosse l’intuizione guida la si trova in un’intervista rilasciata in quegli stessi giorni da Giuliano Urbani al “Corriere della Sera”. Urbani spiegava di far parte di un gruppo di persone che non voleva ritrovarsi un parlamento dominato dalla Lega e dal PDS. A spingere il gruppo ad agire era stato il ballottaggio di Milano del 20 giugno, che aveva visto la lega da una parte e una coalizione di sinistra dall’altra. La paura era che una situazione simile si ripetesse su scala nazionale, con la Lega che si prendeva il Nord, il PDS il Centro e ciò che restava della DC e della Rete il Sud. Ben consapevole del fatto che in tutti i paesi retti dal maggioritario il centro era destinato a scomparire, in quanto assorbito dalla destra o dalla sinistra, Urbani rilevava la necessità che ci fossero in Italia un “centrodestra” e un “centrosinistra” che mancavano. Se non ci fosse stata un’evoluzione del sistema politica in tal senso, si sarebbero infatti corsi tre grossi rischi. Il primo era un “duopolio” Lega-PDS, che avrebbe comportato una “balcanizzazione dell’Italia”, con una divisione tra Nord, Centro e Sud. Il secondo pericolo era che nel passaggio da un ordine politico a un altro prevalesse il “dilettantismo”. E il terzo era un “paradosso tutto italiano”, ovvero il riemergere di “pezzi di socialismo reale” proprio nel momento in cui il socialismo reale era fallito.[40]

Nello stesso giorno in cui rilasciava l’intervista a “La Stampa”, Berlusconi aveva precisato meglio il suo pensiero con un intervento shock. Aveva detto che se fosse stato chiamato a dover scegliere il sindaco di Roma non avrebbe avuto un attimo di esitazione. Avrebbe scelto Gianfranco Fini, in quanto rappresentante di quell’area moderata che, unita, avrebbe potuto assicurare un futuro al Paese. Rievocando quel passaggio, Berlusconi ha sostenuto in seguito che egli era stato nei confronti dei “postfascisti” <<come la fata Smemorina della favola di Cenerentola: erano delle zucche e li [aveva] trasformati in principi.>>[41]

Ma che i “postfascisti” non facessero i conti con la propria storia a Berlusconi non interessava più di tanto. Dal momento che aveva scelto di candidarsi alla guida della nuova coalizione moderata, egli poteva avere delle opportunità di battere le sinistre solo se si fosse alleato con tutti coloro che condividevano il medesimo obiettivo, sicché aveva deciso, con realismo politico e spregiudicatezza, di legittimare la destra del Movimento sociale italiano. Ovvero, come ha scritto Giovanni Sabbatucci, <<rimuovere quel fattore strutturale di inferiorità che [era] legato alle origini antifasciste del sistema repubblicano>> e che aveva rappresentato fino ad allora <<un limite insuperabile alle possibilità di espansione della destra.>>[42]

La legittimazione della destra “postfascista” era stata una mossa strategica di rilievo, ma, a ben guardare, era stato solo il primo passo che Berlusconi aveva fatto per costruire una coalizione che si potesse candidare alla guida del Paese con concrete possibilità di vittoria. Inseguendo il sogno di un “grande centro”, in grado di raccogliere i voti che per decenni erano andati alla DC, ha cercato di coinvolgere nel suo progetto Segni e Martinazzoli. Ma di fronte al loro rifiuto, sceglieva di impegnarsi in prima persona.

Non v’è dubbio che la discesa di Berlusconi nell’arena politica costituisse un’anomalia, ma molti sottovalutavano il fatto che egli apparisse agli elettori italiani una vera novità politica. Dopo un celebre incipit, in cui dichiarava il suo amore per l’Italia, Silvio Berlusconi spiegava di aver deciso di occuparsi della cosa pubblica perché non voleva vivere in un Paese non liberale, ovvero governato da uomini legati a un passato che era stato fallimentare sia sul piano politico sia su quello economico. Le sinistre italiane non credevano all’economia di mercato, non credevano alla libera iniziativa privata, non credevano nell’individuo. Non credevano che il mondo potesse essere migliore. In breve, <<non crede[vano] più in niente.>>[43]

Secondo Sartori invece, le alleanze elettorali che si erano formate in vista delle elezioni apparivano poco coese e basate su interessi strategici e non su convergenze programmatiche. Erano “ammucchiate”, non squadre di governo alternative.[44] Ben consapevole della distanza politica che separava la Lega da An, Berlusconi aveva puntato sulla differenziazione territoriale delle alleanze. Nello schieramento di sinistra le affinità ideologiche tra i partiti erano maggiori, ma non mancavano le divisioni, sicché le trattative erano particolarmente laboriose.

La gioiosa macchina da guerra era infine assemblata, ma veniva sconfitta da Berlusconi, che dava una forte accentuazione personalistica alla campagna elettorale e imprimeva una drammatizzazione allo scontro rilanciando, con successo, le antiche contrapposizioni ideologiche. I risultati delle elezioni del 27-28 marzo sancivano infatti la vittoria di Berlusconi e di Forza Italia, un’affermazione della Lega in regioni come Lombardia, Veneto e Friuli e un consenso senza precedenti per Alleanza Nazionale al Centro-Sud. Il centrodestra otteneva la maggioranza assoluta sia alla Camera sia al Senato.[45]

Sul dibattito mediatico che ha visto protagonista la “Prima” e la “Seconda Repubblica” sono state sostenute numerosissime congetture, ma una teoria in particolare, o uno studio per essere più precisi, ha destato l’interesse di questa ricerca. Nadia Urbinati e David Ragazzoni hanno constatato che dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi, nel 2011, si è fatta strada nell’opinione competente e giornalistica l’idea di una cesura: di una transizione da una “Seconda” a una “Terza Repubblica”.[46] Tuttavia se l’inizio di quest’ultima resta oggetto di dibattito, l’esistenza della “Seconda Repubblica” è stata assunta come dato incontrovertibile. Questo, nonostante la nostra sia sinora a tutti gli effetti, sul piano dell’ordine istituzionale, la medesima Repubblica definita dalla Costituzione che è entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Esperti e opinionisti hanno costantemente ripetuto che la “Seconda Repubblica” nasce dalle ceneri della “Prima” a seguito di Tangentopoli, con la conseguente “damnatio memoriae” di un’intera classe dirigente e l’imporsi, sulla “tabula rasa” di un sistema politico quasi del tutto azzerato, di figure nuove o sedicenti tali.[47] Come osservato da Sabino Cassese, uno dei maggiori paradossi della transizione dall’una all’altra Repubblica sta nel contrasto tra il liquefarsi dei principali attori collettivi che sono stati protagonisti della “Prima” e il ruolo preminente svolto nella “Seconda” da figure che di fatto appartenevano alla stagione passata.[48]

Questa continuità di lungo corso, come se le medesime dinamiche regolassero ciclicamente il passaggio da uno stadio all’altro della nostra storia repubblicana, è presente tutt’oggi. Ancora una volta, il sangue della “Prima Repubblica”, scorso nelle vene della “Seconda”, sembra continuare a fluire in quelle della “Terza”.

La tesi che si sviluppa recepisce questi elementi, ma procede in direzione diversa. La convinzione della Urbinati e di Ragazzoni è che tanto la “Seconda Repubblica” quanto i dibattiti circa l’avvento di una “Terza” non abbiano alcun fondamento istituzionale e fattuale, ma siano di natura esclusivamente ideologica. Si sono senza dubbio verificati cambiamenti profondi nel sistema politico che ha governato il paese, ma non è avvenuto alcun mutamento di sostanza del sistema istituzionale e costituzionale della Repubblica italiana.

Il divario tra l’auspicata riscrittura della Carta e la sua mancata realizzazione costituisce la vera continuità del nostro ordinamento; al contempo, rivela la natura fittizia di quella che per lungo tempo si è voluta definire “Seconda Repubblica”. Secondo la Urbinati e Ragazzoni, quindi, solo la modifica costituzionale avanzata dal Governo Renzi nel 2016, avrebbe sancito l’inizio di una vera “Seconda Repubblica”. Bisognerebbe partire da qui se si volesse comprendere l’idea, o meglio, l’ideologia della “Seconda Repubblica” imbastita e alimentata nel corso dei decenni.

Essi propongono una lettura genealogica del presente.[49] La vera “Seconda Repubblica” approvata dal Parlamento sarebbe stata il parto della prospettata “Seconda Repubblica”. Un termine coniato per esprimere quel che non esisteva più e al contempo non poteva ancora darsi. Ciascuno ha riempito l’espressione “Seconda Repubblica” di quel che desiderava, rigettava o semplicemente non riusciva a denotare con esattezza.

In sostanza, quella che per due decenni e mezzo è stata chiamata “Seconda Repubblica” è, a tutti gli effetti, la Repubblica nata prima con lo storico referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e poi con la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. L’espressione è stata coniata e si è imposta nel complesso contesto di eventi che hanno scosso l’immaginario politico. Di queste vicende storiche, due in particolare meritano di essere ricordate perché segnalate dagli studiosi e dagli opinionisti come originarie della “Seconda Repubblica”: una tutta interna alla vita politica del nostro paese; l’altra connessa alla congiuntura storica internazionale di quegli anni.

La prima è legata alla tesi più diffusa, quella che fa partire la fine indecorosa della “Prima Repubblica” dal 1992-1994[50], con riferimento a due eventi dirompenti, entrambi già citati in precedenza: da un lato, l’arresto di Mario Chiesa e la serie impressionante di indagini, processi e condanne che ha preso il nome di Tangentopoli; dall’altro, la nascita di un “partito azienda” – Forza Italia – che ha profondamente segnato la storia politico-istituzionale dell’ultimo ventennio.

Il secondo fattore va rinvenuto nella fine della Guerra fredda: essa avrebbe lasciato la classe politica allora al potere senza la protezione dell’alleato atlantico ed emancipato, così, tanto le istituzioni quanto le parti politiche dal divieto di pensare a un’alternanza nel governo del Paese.[51]

 

 

[1] N. Chomsky, E.S. Herman, La fabbrica del consenso, cit., pp. 16-17.

[2] A. Leiss, L. Paolozzi, Lo specchio in pezzi: il caso italiano, in N. Chomsky, E.S. Herman, La fabbrica del consenso, cit., p. 396.

[3] F. Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano, 1997.

[4] Si tratta delle persone o delle nazioni del mondo, considerate come strettamente collegate dalle moderne telecomunicazioni e come economicamente, socialmente e politicamente interdipendenti, nello specifico del campo degli affari.

[5] N. Chomsky, Il potere dei media, Vallecchi, Firenze, 1994.

[6] A. Leiss, L. Paolozzi, Diritti e rovesci dell’informazione – il giornalismo politico nell’Italia degli anni ’90, Sisifo, Roma, 1995.

[7] A. Leiss, L. Paolozzi, Lo specchio in pezzi: il caso italiano, cit., pp.  402-403.

[8] A. Leiss, L. Paolozzi, Diritti e rovesci dell’informazione…, cit.

[9] Ibidem.

[10] E. Berlinguer, La questione morale. La storica intervista di Eugenio Scalfari. Aliberti, Roma, 2012, p. 25.

[11] Ivi, pp. 47-40.

[12] L. Cafagna, Il “capitano” Craxi e la nave che ripartì, in “Mondoperaio”, luglio-ottobre 2003, pp. 117-120.

[13] V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino, 1996, pag. 363.

[14] Celebre intervista del marzo 1992 rilasciata a Rai 3, in cui Craxi definiva il “Caso Chiesa” una scheggia e lui un “mariuolo”.

[15] L. Di Nucci, La democrazia distributiva, cit., p. 112.

[16] Ibidem.

[17] L’Italia protesta, elezioni terremoto, in “Corriere della Sera”, 7 aprile 1992.

[18] B.T., Amato: Verso un polo progressista per poter rimettere insieme i cocci”, in “Corriere della Sera”, 8 aprile 1992.

[19] L. Di Nucci, La democrazia distributiva, cit., p. 113.

[20] M. Breda, La guerra al Quirinale. La difesa della democrazia ai tempi di Cossiga, Scalfaro e Ciampi, Garzanti, Milano, 2006, p. 36.

[21] B. Craxi, L’intero sistema politico è sostenuto da un finanziamento irregolare o illegale, Camera dei deputati, Seduta del luglio 1992.

[22] Si veda Vocabolario Treccani: Chi è imputato di un reato insieme con altri; chiamata di correo, accusa rivolta dall’imputato ad altra persona, indicata come partecipe del reato.

[23] I giudizi di Occhetto e D’Alema sono riportati in R.R., Il leader del PSI però insiste: basta col “teatrino dell’ipocrisia”, in “Corriere della Sera”, 5 luglio 1992.

[24] Craxi, L’intero sistema politico è sostenuto da un finanziamento irregolare o illegale, cit.

[25] Le dichiarazioni di Amato sono riportate in M.F.R., Amato: “La patrimoniale sulla casa vale una cena per tre persone”, in “Corriere della Sera”, 15 luglio 1992.

[26] L. Di Nucci, La democrazia distributiva, cit., p.116.

[27] E. Scalfari, Un cumulo di macerie, in “la Repubblica”, 16 dicembre 1992.

[28] A. Barbato, Il Ghino caduto, in “l’Unità”, 16 dicembre 1992.

[29] Intervista a Giuliano Amato, 12 luglio 2011, e Intervista a Luigi Covatta, 20 luglio 2011, in Il crollo. Il Psi nella crisi della prima Repubblica. Marsilio, Venezia, 2012, pp. 507-510, 539-543.

[30] E. Scalfari, Il governo dello scippo, in “la Repubblica”, 7 marzo 1993.

[31] Tangenti, Scalfaro blocca il decreto, in “Corriere della Sera”, 8 marzo 1993.

[32] A. Leiss, L. Paolozzi, Diritti e rovesci dell’informazione…, cit.

[33] M. D’Alema, E. Ghezzi, Parole a vista, Bompiani, Milano, 1998.

[34]Ibidem.

[35] A. Leiss, L. Paolozzi, Lo specchio in pezzi: il caso italiano, cit., p. 408.

[36] S. Luciano, Berlusconi cerca partito, in “La Stampa”, 27 luglio 1993.

[37] L. Cafagna, Cossiga, in “Mondoperaio”, settembre 2010 pp. 3-4.

[38] C. Brambilla, “Sì, la politica ha bisogno di noi”, in “La Repubblica”, 28 luglio 1993.

[39] G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 2003. p. 109.

[40] R. Chiaberge, Una “Cosa” né Lega né Pds, in “Corriere della Sera”, 28 luglio 1993.

[41] P. Di Caro, Berlusconi: se il Paese mi chiama…, in “Corriere della Sera”, 24 novembre 1993.

[42] Sabbatucci, Il trasformismo come sistema., cit., p. 108.

[43] S. Berlusconi, Discorso della “discesa in campo”, 26 gennaio 1994. Il testo è riprodotto in Discorsi per la libertà, Mondadori, Milano, 2013. p. 5.

[44] G. Sartori, Poli elettorali? No, ammucchiate, in “Corriere della Sera”, 12 febbraio 1994.

[45] D. Campus, L’antipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi. Il Mulino, Bologna, 2006, pp. 139-140 e 150-151.

[46] Sull’avvenimento di una forma ibrida di regime politico aveva già scritto M. Calise, La Terza Repubblica. Partiti contro presidenti, Laterza, Roma-Bari, 2006. Cfr. N. Urbinati, D. Ragazzoni, La vera Seconda Repubblica. L’ideologia e la macchina, cit., p. 9.

[47] P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna, 1991.

[48] S. Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato. Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 358-362.

[49] La prospettiva genealogica e l’enfasi sulla potenza autopoietica del discorso sulla “Seconda Repubblica” distingue da analisi originali di quei decenni, tra le quali E. Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Feltrinelli, Milano, 1996, e M. Prospero, La Costituzione tra populismo e leaderismo, Franco Angeli, Milano, 2007.

[50] Il Parlamento del 1993 venne definito “degli inquisiti”: L. Ricolfi, L’ultimo Parlamento. Sulla fine della prima Repubblica. Carocci, Roma, 1993; id., Urbinati e Ragazzoni, La vera seconda Repubblica, cit., p. 23.

[51] N. Bobbio, “Com’è finita male la Prima Repubblica”, in “La Stampa”, 20 gennaio 1993.