L’unità a sinistra

La sinistra italiana è indubbiamente quella che più a lungo ha vissuto l’esperienza del Fronte popolare nella sua tormentata storia.

Questa esperienza occupa un arco di tempo di oltre un quarto di secolo, dall’inizio degli anni Trenta fino alla fine degli anni Cinquanta. Quindi essa costituisce una parte importante, essenziale della storia del Partito socialista e del Partito comunista, e può essere giudicata compiutamente soltanto tenendo presente l’intreccio dei rapporti costanti dei due partiti, sia sul piano della polemica teorica, sia su quello dell’azione politica.

Occorre distinguere due fasi. La fase dell’esilio, in cui le decisioni politiche dei due partiti, organizzazioni esclusivamente di vertici all’estero, soprattutto in Francia, hanno scarsa eco sulla realtà sociale all’interno dell’Italia, dov’era possibile solo una difficilissima azione clandestina. E questa situazione di per se stessa predisponeva i due partiti sia alle polemiche aspre, tipiche della minoranza in esilio, sia alla ricerca di una qualche unità, per meglio salvaguardare ciò che c’era da difendere.

Una seconda fase, dopo la caduta del fascismo, in cui la politica del Fronte popolare ha una diretta rispondenza con la realtà italiana. Protagonista della politica del Fronte popolare fu certamente, per l’Italia, Pietro Nenni.

Il ruolo svolto in questa politica, dalla fine degli anni Venti fino alla metà degli anni Cinquanta, dall’esilio alla Liberazione, dalla istituzione della Repubblica alla crisi dello stalinismo, da questo leader socialista è stato oggetto di una meticolosa ed approfondita ricostruzione storica, basata su originali fonti documentali, da parte di Giuseppe Tamburrano.

Da tali ricerche è stato messo in luce, in modo inconfutabile, come Nenni fu iniziatore di questa politica ancor quando i rapporti tra socialisti e comunisti erano rapporti di violenta polemica. Pesavano su di essi i retaggi della scissione del 1921 e gli aspri contrasti che li avevano divisi, favorendo la vittoria del fascismo, e che si erano protratti anche negli anni dell’esilio.

In Francia, come s’è visto, dopo la riunificazione socialista, il PSI aveva aderito alla Concentrazione antifascista, costituita sulla base di un’alleanza con le forze liberal-democratiche e con quella liberalsocialista di Giustizia e Libertà; mentre il P.C. d’I. (Partito comunista d’Italia, come era allora la denominazione di questo partito) non solo era rimasto estraneo alla Concentrazione, ma aveva condotto contro la Concentrazione, e contro i socialisti in particolare, una campagna settaria e denigratoria, che aveva ripetutamente colpito lo stesso Nenni di persona.

Tuttavia la posizione di Nenni, nella Concentrazione e nello stesso partito, si contraddistingueva sempre per il suo dichiarato intendimento di perseguire l’obiettivo dell’unità di tutta la sinistra, dopo aver realizzato quello dell’unità dei socialisti – superando la divisione che tra di essi si era determinata in Italia prima dell’esilio – e l’unità con le forze democratiche antifasciste.

Perché Nenni insisteva in questo proposito? Per due ragioni: la prima, di ordine teorico, in quanto egli rifiutava il revisionismo liberal-socialista di Rosselli, ritenendo valido il marxismo come piattaforma ideologica della sinistra, e riteneva superato il riformismo, perché, a suo giudizio, rinunciava a una trasformazione rivoluzionaria della società, sia pure in termini democratici; la seconda ragione, più squisitamente politica, risiedeva nel fatto che la sua riflessione sull’esperienza della sconfitta della sinistra e della democrazia in Italia portava a ritenere indispensabile la convergenza di tutte le forze antifasciste Italiane ed europee.

Da parte comunista la risposta era però negativa. Soprattutto essa si fece incredibilmente faziosa quando la direzione del P.C.d’I. era stata letteralmente costretta dall’Internazionale comunista ad allinearsi alle tesi staliniane.

L’Internazionale comunista, presupponendo una crisi generale imminente del capitalismo, lanciava la parola d’ordine della rivoluzione in Europa e della conseguente lotta al socialfascismo, il quale, a detta dell’IC, operava per cancellare e annullare lo spirito rivoluzionario delle masse.

Questo allineamento repentino aveva provocato una crisi politica nel partito italiano, perché lo portava a smentire le tesi approvate al congresso di Lione del 1927, dove esso aveva trovato una unità di fondo sulla linea gramsciana, gestita in maniera centrista da Palmiro Togliatti, e sulla quale erano confluite le posizioni della destra di Tasca e della sinistra di Longo.

Togliatti era in quel periodo su posizioni sostanzialmente convergenti con quelle di Bucharin, sia per quanto riguardava l’analisi della società sovietica e le linee di costruzione dello Stato socialista; sia per quanto concerneva le valutazioni tutt’altro che catastrofiche della fase che il capitalismo internazionale stava attraversando, e la conseguente necessità di un’azione non settaria dei partiti comunisti occidentali, affinché essa si rivolgesse a creare alleanze più vaste, riallacciando migliori relazioni con i partiti socialisti dell’Europa.

In realtà, la posizione centrista di Togliatti (Gramsci era ormai fuori giro) e di Ruggero Grieco era più vicina a quella della destra di Tasca che non a quella della sinistra comunista.

Negli ambienti socialisti, e specie in Nenni, questa situazione politica determinatasi nel P.C.d’I., dopo il congresso di Lione, aveva indotto a bene sperare sulla possibilità di una ripresa della politica unitaria delle sinistre.

In questa prospettiva, dunque, essi ritenevano necessario respingere ogni seduzione revisionista, tipo quella proposta dai Rosselli, che giudicavano superato il marxismo in quanto incompatibile con la democrazia; sia le posizioni riformiste di Turati, di Modigliani, di Faravelli.

Queste impostazioni – così ragionavano Nenni e i suoi seguaci – non solo erano erronee, ma, se fossero state accolte, avrebbero ostacolato, o addirittura impedito, l’attuazione di una politica unitaria delle sinistre, una volta riconosciuta la sostanziale validità delle posizioni socialiste da parte di tutta la sinistra. Notevole fu quindi la loro delusione quando dovettero assistere a una svolta inusitata e repentina nella linea del P.C.d’I., una svolta che creava, tra l’altro, una condizione di rigida dipendenza dei comunisti Italiani dall’Unione Sovietica, in termini che fino ad allora non s’erano ancora verificati, e segnerà per lunghissimi tempi la vita e la strategia politica del comunismo italiano.

Questa svolta avviene con l’estromissione di Angelo Tasca che, rappresentante nell’esecutivo dell’Internazionale comunista, s’era rifiutato di avallare la scomunica nei confronti della cosiddetta “destra” del PC bolscevico, e degli altri partiti comunisti, a cominciare da quello tedesco. Tasca aveva ribadito, anche nelle successive riunioni del P.C.d’I. le sue tesi critiche sugli sviluppi dell’industrializzazione forzata in URSS, e del catastrofismo dell’Internazionale. Difese fino in fondo il diritto alla libertà di opinione e l’esigenza di garantire il dibattito politico nell’Internazionale e nei singoli partiti comunisti.

Erano le stesse posizioni assunte dal suo partito al congresso di Lione, due anni prima.

Togliatti e gli altri dirigenti accettarono la nuova linea che l’Internazionale, cioè l’URSS, imponeva in modo drastico. Tasca rifiutò invece di fare l’autocritica, e pertanto venne espulso alla fine del 1929.

Dopo la svolta di Togliatti e del gruppo dirigente del P.C.d’I., i rapporti tra comunisti e socialisti divennero rapporti tra nemici. Osserva Tamburrano che “i comunisti guardavano ai socialisti come al peggior nemico, e questo rendeva difficile, impossibile ai socialisti un dialogo“. Per oltre tre anni è un susseguirsi di attacchi, di polemiche, di ingiurie.

Fu solo dopo la vittoria elettorale di Hitler in Germania che Adler nell’agosto del 1932 propose l’intesa tra l’Internazionale socialista e quella comunista contro il fascismo e il nazismo trionfanti. Nenni, concordando sull’iniziativa, propose a sua volta nella relazione al XXII congresso del partito un’iniziativa analoga, di “unità proletaria“, ricevendone però una risposta negativa dai comunisti Italiani.

Ancora più evasiva è la posizione dei comunisti Italiani quando, nei primi mesi del 1933, il Comintern non sa dare una risposta precisa all’invito formulato dall’Internazionale operaia socialista (IOS) il 19 febbraio “per l’unità d’azione contro il fascismo e la guerra“. Anzi ancora di più si inaspriscono gli attacchi contro i socialisti e contro Nenni in particolar modo. Il gruppo dirigente comunista avverte che la possibilità di un’azione comune con i socialisti contro il fascismo comincia ad attirare l’interesse dei militanti dei due partiti, e giunge a calunniare in modo pesante il leader socialista, perché ne teme la capacità di influenzare la loro base in questa direzione. Perciò cercano di screditarlo e non esitano a ricorrere ad ogni mezzo.

Nenni non desiste dalle sue proposte e dalle sue motivazioni. Scrive: “L’angoscia degli operai, davanti alle nostre divisioni, viene dal sentimento che essi hanno del tragico sbocco reazionario di tutte le lotte intestine del proletariato”. Sono superate anche le resistenze che si erano manifestate all’interno dello stesso PSI. E al congresso di Marsiglia (17-18 aprile 1933) viene approvato un ordine del giorno in cui si afferma, come obiettivo, “l’unità organica della classe operaia, lavorando alla sua unità di pensiero e di azione“.

È il pieno successo della linea nenniana, all’interno del Partito socialista, che non viene confortato per il momento da un’adeguata accoglienza da parte comunista.

Si può a ragione affermare che la politica unitaria fu voluta innanzitutto e soprattutto dai socialisti, e da Nenni in particolar modo.

Questa iniziativa unitaria ha come suo riflesso una crisi nei rapporti tra il PSI e gli altri partiti democratici della Concentrazione antifascista, in special modo con il gruppo di Giustizia e Libertà che fa capo a Rosselli, il quale nel 1932 aveva pubblicato a Parigi il suo volume Socialisme Libéral che contiene una critica radicale del marxismo e del “vecchio socialismo” che ad esso si ispirava. Su tali presupposti, i Rosselli, Lussu ed altri avevano dato vita a un movimento per un “nuovo socialismo“, di cui avevano pubblicato il programma sul numero uno dei “Quaderni di Giustizia e Libertà” nel gennaio del 1932.

Il netto revisionismo rosselliano, il prestigio culturale e politico dei capi di questo movimento, rafforzato dall’intransigenza e dal coraggio da essi dimostrato nella lotta antifascista, in patria e all’estero, facevano di questa formazione un agguerrito concorrente politico del Partito socialista. D’altro lato, il PSI non ne poteva accettare l’ardito revisionismo ideologico, che sarebbe risultato in contrasto con la sua iniziativa unitaria verso sinistra, perché avrebbe aggiunto altri motivi alla già cruda polemica con il PCI.

Alla politica unitaria il PSI sacrifica intanto almeno un tentativo di aggiornamento dottrinario e di rinnovamento culturale, respingendo le sollecitazioni che provenivano in tal senso dal movimento del “nuovo socialismo“. Legato ai moduli di una stretta ortodossia rivoluzionaria collettivista; debole nei suoi raccordi con la realtà italiana e con la lotta antifascista interna al paese, nonostante il coraggio e il valore dei suoi militanti del Centro interno, il Partito socialista sembra giocare tutte le sue carte sulla iniziativa unitaria, che coglie nel segno quando mette in evidenza il persistente settarismo comunista e con esso la tragica astrattezza di una strategia politica basata sulla totale irrealtà di una possibile crisi catastrofica del capitalismo, e sulla conseguente possibilità di una rivoluzione a breve scadenza.

Per intanto il rifiuto di un qualsiasi discorso revisionista da parte del PSI conduce ad una crisi dei rapporti con Giustizia e Libertà e alla dissoluzione della Concentrazione antifascista.

Qui il piano nenniano riceve una parziale smentita dai fatti: invece di riuscire ad attrarre i comunisti nell’ambito di una più ampia concentrazione di forze democratiche nella lotta contro il fascismo, il PSI è costretto a mettere in crisi i rapporti di alleanza esistenti. In più esso deve rinunciare a un confronto con i comunisti sul terreno del superamento di quelle pregiudiziali ideologiche rigorosamente collettivistiche e rivoluzionarie che la storia aveva già in quegli anni mostrate discutibili e pericolose.

L’incapacità di rendersi conto delle sostanziali ragioni che spingevano Rosselli e i suoi a impegnarsi in uno sforzo di revisione teorica e di ammodernamento, appare nelle stesse affermazioni di Nenni, con cui egli motivava la rottura della Concentrazione antifascista, avvenuta il 5 maggio del 1934.

Nenni parlava di “pruriti antisocialisti del mondo piccolo borghese, i quali assumono generalmente la forma dell’antimarxismo“, e sosteneva che “col socialismo di Giustizia e Libertà il partito non ha comunità né di mezzi né di fini” per riaffermare, con toni marcatamente propagandistici, che “il socialismo marxista è classista, marxista, proletario, esso ha la sua base indistruttibile nella lotta di classe“.

Come si vede, non c’era stato alcuno sforzo serio di dare risposte ai problemi che venivano posti dal movimento revisionista. La polemica nenniana era volta a dimostrare che la responsabilità della rottura dell’alleanza ricadeva esclusivamente su Giustizia e Libertà, scrivendo: “La tendenza di Giustizia e Libertà alla egemonia, il suo sforzo ad individuarsi minavano fatalmente le basi della Concentrazione ed esigevano una chiarificazione. Questa è avvenuta e si è concretizzata nella rottura”.

In realtà era Nenni a volere questa rottura definitiva. È difficile infatti dargli ragione sulla sua contestazione del diritto di Giustizia e Libertà di darsi una propria identità politica, quando tutte le forze della Concentrazione, a cominciare dal PSI, ne avevano una propria e ben marcata. Quanto alla egemonia presunta di Giustizia e Libertà, egli ne dovrà presto conoscere ben altre, e fare i conti con queste in modo ben più duro.

La ragione per cui Nenni vuole la rottura con Giustizia e Libertà stava proprio nella sua convinta iniziativa unitaria verso il Partito comunista. Egli riteneva di assumere maggiore efficacia, presentandosi slacciato da ogni esigenza di rivedere criticamente il patrimonio ideologico che era stato alla base del fallimento della sinistra italiana di fronte al fascismo. Forse i tempi non permettevano di guardare tanto per il sottile. Ma così facendo si perseguiva, forse con maggiore successo, la politica unitaria; ma su un terreno, quello della resa ideologica al dogmatismo leninista, che avrebbe alla lunga indebolito anche i caratteri positivi di questa politica.

È in tale quadro che tre mesi e dodici giorni dopo lo scioglimento della Concentrazione, il 17 agosto 1934, viene sottoscritto il I Patto d’Unità d’Azione. Come mai il P.C.d’I. ha cambiato la sua posizione?

Sull’atteggiamento dei comunisti hanno influito alcuni fattori di rilevante importanza.

Il primo era dato dallo choc dell’avvento al potere di Hitler e dalla disfatta del Partito comunista tedesco, sotto la guida settaria di Thalmann.

Lo spettro del nazifascismo diventa un pericolo prossimo e incombente. I suoi successi imbaldanziscono le forze reazionarie in ogni paese europeo e i lavoratori si sentono in pericolo sia nella loro condizione economica e sociale, sia nei loro diritti di libertà: per loro la democrazia ormai non è più soltanto un complesso di istituzioni rappresentative, ma anche di istituzioni sociali (libertà di organizzazione, diritto di sciopero, sicurezza sociale) da difendere e da potenziare e contro le quali si muove l’attacco delle destre.

In questo scenario prende forza l’intuizione nenniana dell’efficacia della parola d’ordine dell’unità tra i lavoratori nella lotta contro il pericolo fascista. Questa nuova realtà è tanto più viva ed accettata in Francia, dove un mese prima, in luglio, la SFIO e il PCF hanno stipulato il loro patto unitario.