IL DISSENSO CON TOGLIATTI

Il più importante di questi dissensi si era verificato quando, subito dopo la guerra d’Africa e l’annessione dell’Abissinia, nell’estate del 1936, il gruppo dirigente comunista, con un articolo di Ercoli (Togliatti), sulla rivista del partito “Stato Operaio“, aveva lanciato un appello ai “fratelli in camicia nera” per una pacificazione del paese, cui era seguita una direttiva ai militanti comunisti che agivano in Italia ad entrare nelle organizzazioni fasciste per operare dall’interno di esse. Il PCI aveva fatto una sua analisi secondo la quale nella situazione italiana doveva registrarsi un indubbio rafforzamento di consensi al fascismo, di cui occorreva tener conto; e, soprattutto, avevano visto nell’avventura africana di Mussolini il segno di uno scontro tra il sorgente nazional-imperialismo di un paese più povero alla ricerca di spazi vitali, e le ormai consolidate posizioni colonialistiche dei paesi europei non fascisti. Da ciò essi traevano l’esigenza di una tattica politica più flessibile e, a loro giudizio, più realistica.

I socialisti (che non erano stati neppure avvertiti) reagirono, prendendo posizione con il “Nuovo Avanti”, in difesa di una posizione più intransigente. La questione suscitò un certo rumore, sembrava preludere a un incrinamento della politica unitaria. Ma il dissidio ben presto si appianò da solo, perché incalzavano gli avvenimenti che condussero alla guerra in Spagna, dove socialisti e comunisti, e tutti i democratici Italiani, si trovarono a fronteggiare i “fratelli in camicia nera”, in un drammatico scontro fratricida.

E nel corso di questa guerra, nel giugno del 1937, a pochi giorni di distanza dall’assassinio dei fratelli Rosselli, e la morte in carcere di Antonio Gramsci, due avvenimenti che rinsaldano i sentimenti antifascisti e lo spirito unitario dei militanti in esilio, si tiene il nuovo congresso del PSI, che riconferma la politica di unità, e con essa la leadership di Nenni, giunto dalla Spagna, cui farà presto ritorno.

Nenni deve fare una qualche fatica a fare accettare ai socialisti senza riserve questa linea (solo Modigliani risulta ad essa contrario, alla fine) perché il sospetto destato dall’appello ai fascisti non era ancora del tutto cancellato. Comunque il PSI accetta di entrare nell’organizzazione Unione Popolare creata ad iniziativa dei comunisti.

Il 26 luglio 1937 viene sottoscritto dai due partiti un nuovo Patto di Unità d’Azione.

Nell’anno successivo, due avvenimenti turbano la politica unitaria: il declino del Fronte popolare in Francia, il cui successo aveva impresso una forte sollecitazione all’unità tra gli Italiani; e la ripresa da parte dell’Internazionale comunista di una dura polemica contro le presunte responsabilità della socialdemocrazia. La ripresa di questa polemica era avvenuta con un articolo di Georgi Dimitrov alla fine del 1937, al quale Nenni replica con molta fermezza. Tuttavia i dissensi alla politica unitaria nel PSI vengono crescendo: accanto a Modigliani si schiera apertamente Tasca; mentre a fianco di Nenni prende posizione Saragat, il quale nei suoi scritti invita il partito a subordinare ogni giudizio critico alla necessità della lotta contro il fascismo.

L’occasione perché i dissensi tra socialisti e comunisti (e all’interno del Partito socialista) tornino ad avvampare venne data dai processi di Mosca, con i quali Stalin si sbarazzava ferocemente delle opposizioni e non solo di quelle.

Tutti i socialisti protestano e affidano il loro netto dissenso a una serie di articoli sul loro giornale apparsi dal marzo fino al settembre e conclusi l’1 ottobre con questo inconfutabile giudizio: “Il bolscevismo dalla concezione di un ruolo egemonico del partito è giunto alla intolleranza più assoluta… E chi non è nella linea, è un uomo da squalificare, da disonorare, da schiacciare”.

I comunisti fanno rispondere da Giuseppe Berti, con una durezza “staliniana” che mal s’addice al dibattito tra due partiti uniti dai vincoli di un patto unitario: tanto più che gli scritti socialisti polemizzavano con la direzione staliniana dell’Unione Sovietica, e non direttamente con il P.C.d’I., al quale ponevano solo dei quesiti sul suo atteggiamento di condiscendenza.

È all’interno del PSI, tuttavia, che gli effetti della polemica si fanno maggiormente sentire: mentre Modigliani, Tasca e Faravelli ne traggono l’opinione che il patto con il Partito comunista non possa proseguire, Nenni lancia uno dei suoi famosi slogan: “Viva l’Unità d’azione. I processi ci dividono, la lotta antifascista ci unisce”.

È una linea che risponde a una duplice esigenza: quella di mantenere ferme le posizioni ideali del socialismo anche nei momenti di maggiore difficoltà; e quella di preservare la forza unitaria della sinistra italiana in una fase dove l’unità appare la condizione essenziale per salvaguardare la stessa sopravvivenza dei due partiti di fronte all’incalzante offensiva delle destre e del nazifascismo.

Il Fronte popolare italiano risente di una situazione comune a tutti i Fronti popolari europei: dalla fase offensiva che si era avviata nel 1934, e che aveva portato ai successi in Francia e in Spagna, si era passati a una fase difensiva, dopo il ritorno della destra, culminato con la prova di forza bellica in Spagna. Il Fronte italiano, che aveva trovato ragione e forza in quei successi, cerca di resistere in questa fase difensiva. Ma anch’esso scricchiola e tende ad entrare in crisi sotto l’incalzare degli avvenimenti che scuotono la scena europea.

L’espandersi del nazifascismo in Austria, in Albania, in Spagna e in parte della Cecoslovacchia, rende sempre più precaria questa situazione.

Il Fronte popolare conosce la sua crisi definitiva con il Patto russo-tedesco. Da un lato l’allineamento del P.C.d’I. provoca una crisi in molte coscienze: da quella di Umberto Terracini, che scontava la sua condanna in Italia, a quella di Leo Valiani e Altiero Spinelli, che si dimisero dal partito.

Nenni tentò invano di distinguere tra un giudizio di condanna dell’URSS per quello che egli definì un vero e proprio voltafaccia e l’unità della classe lavoratrice, che tentò di salvare. Ma l’allineamento totale e compatto del Partito comunista alla svolta sovietica, rese illusorio e vano il suo tentativo.

Bisogna ricordare che il P.C.d’I. raggiunge in questa fase punte parossistiche di settarismo politico. Rimasto nelle mani dei dirigenti più filosovietici, esso va affermando, contro l’evidenza dei fatti, e contro le sue stesse recenti posizioni, l’equivalenza fra tutte le varie forme di capitalismo, sia quelle dei paesi democratici, sia quelle dei paesi autoritari. È un’aberrazione che lo stesso Terracini, pur privo della libertà in Italia, combatte, difendendo le tesi gramsciane del III congresso del partito, cioè le tesi che il regime politico e istituzionale non può essere indifferente al proletariato, e che il regime democratico è diverso da quello autoritario, ed è anche il più favorevole per lo sviluppo della lotta dei lavoratori.

Chi pagò il prezzo più alto alla crisi della politica unitaria, tra i dirigenti della sinistra italiana, fu lo stesso Nenni che fu costretto a dimettersi dagli organi dirigenti sostituito da un triunivirato formato da Morgari, Saragat, Tasca.

Il PSI dichiarò cessata ogni collaborazione con i comunisti e “inammissibile” l’appartenenza al partito di quei compagni che non accettassero tale direttiva. All’unità si sostituiscono le polemiche più furibonde: ma tutto ben presto si dissolse nel turbine della guerra, nel disperato calvario degli esiliati, i quali nella Francia occupata debbono sfuggire all’arresto o condurre comunque una vita di stenti. Quale giudizio dare su queste fasi del Fronte popolare italiano?

Si può dire che su di esso ebbero influenza notevole gli eventi esterni, sia in senso positivo che negativo: ad assecondare l’iniziativa unitaria – dovuta particolarmente a Pietro Nenni – servirono l’ascesa delle sinistre in Europa, la politica intelligente dell’Internazionale socialista, la svolta favorevole dell’Internazionale comunista; così come contribuirono a porre in crisi questa politica le situazioni di generale arretramento delle sinistre europee, i successi del nazifascismo, e, in modo clamoroso, la svolta del Patto russo-tedesco, e l’allineamento automatico dei comunisti alle giravolte moscovite.

Si può anche dire che la politica del Fronte fu politica di unità democratica ed antifascista, nonostante le conclamate aspirazioni rivoluzionarie: e ciò perché le ragioni per cui il Fronte era sorto erano di natura ben diversa da quelle che avrebbero dovuto preparare una rivoluzione. Erano ragioni di difesa della libertà e della restaurazione della vita democratica in Italia, che facevano premio su quelle – pur continuamente affermate – della costruzione della società socialista. Le ragioni che fecero sorgere il Fronte sono le medesime che, sostanzialmente, condussero a superare l’antica distinzione tra i mezzi e i fini dell’azione proletaria.

Si continuava ad affermare, tanto da parte socialista quanto da parte comunista, che la lotta democratica è il mezzo per realizzare l’obiettivo della società socialista (obiettivo che in quell’epoca coincide, in un modo o nell’altro, con il modello dell’URSS, sia pure, per i socialisti, corretto dalle deformazioni dello stalinismo). Ma si tratta di un’affermazione sempre più ritualistica: in realtà il mezzo diviene, gradualmente ma in modo inarrestabile, lo stesso obiettivo finale, cioè la costruzione di una società democratica e libera. Questa traslazione della democrazia da mezzo a fine getterà quel germe che darà i suoi frutti più copiosi nella lotta di Resistenza in Italia, e, dopo la Liberazione, sfocerà nell’atteggiamento con cui insieme socialisti e comunisti respingeranno ogni ipotesi di avventura eversiva, per dedicarsi interamente alla costruzione di uno Stato democratico. Hanno quindi radice in queste esperienze le culture politiche che connotano i due partiti della sinistra italiana, in modo differente dai partiti socialisti e comunisti del resto d’Europa e, forse, del mondo.

Un altro aspetto da sottolineare, che pesò e peserà sui rapporti di collaborazione tra socialisti e comunisti Italiani, è il problema dei rapporti con l’Unione Sovietica.

I comunisti dopo il 1929, cioè dopo l’estromissione di Tasca, mostrarono una ferrea identificazione con la politica dell’URSS; ciò che non fecero i socialisti i quali sacrificarono anche molti dei loro giudizi critici alle esigenze dell’unità, ma nei momenti decisivi mostrarono uno spirito di indipendenza che entrò obiettivamente in conflitto con la possibilità di proseguire la collaborazione: e ciò quando gli interessi dell’URSS non coincidevano almeno con quelli della lotta contro il fascismo.

Così avviene nel 1941, quando il 22 giugno l’aggressione tedesca al territorio russo manda in frantumi il patto sottoscritto da Ribbentrop e Molotov.

Infatti, nell’ottobre del 1941, a Tolosa, viene firmato un nuovo patto d’Unità d’Azione. Questa volta accanto a comunisti e socialisti, a firmare sono anche i rappresentanti di Giustizia e Libertà: Silvio Trentin e Fausto Nitti. Sereni e Dozza firmano per i comunisti (Togliatti era in Russia). Per i socialisti, con Saragat e Nenni, tornato alla testa del partito.

La presenza della formazione politica che si ispirava al liberal-socialismo dei Rosselli dimostra appunto che ormai il fine della costruzione della democrazia tende a prevalere su ogni altro, anche se la fraseologia dei socialisti e dei comunisti è, ovviamente, ancora vetero marxista e la bandiera della rivoluzione verbalmente non è mai ammainata.