DUE “PARADIGMI” A CONFRONTO: IL LINGUAGGIO POLITICO PRIMA E DOPO TANGENTOPOLI (II capitolo – 1.)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO”

CHIETI – PESCARA

DIPARTIMENTO DI LETTERE, ARTI E SCIENZE SOCIALI

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONI LETTERARIE

L’ITALIANO DELLA POLITICA TRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA

RELATORE CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Emiliano Picchiorri Chiar.ma Prof.ssa Maria Teresa Giusti

LAUREANDO

Dario Lorè

Matricola n. 3171312

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

 

II Capitolo .1.  Il “paradigma della superiorità” e il “paradigma del rispecchiamento”

La campagna elettorale del 1994 è considerata concordemente come lo spartiacque tra la vecchia e la nuova politica italiana. A far da collante tra questa ricerca e lo sviluppo di nuove forze politiche, si pone anche un nuovo modo di comunicare che, per mezzo dei leader, si diffonde e trova spazio tra la gente comune nel parlato, talvolta anche nello scritto, quotidiano.

Tullio De Mauro aveva già precedentemente rilevato delle discrepanze tra i vari linguaggi settoriali che si andavano delineando nell’Italia repubblicana. Diverse indagini ISTAT evidenziavano, inoltre, come il tasso di alfabetizzazione fosse aumentato anche grazie alla presenza della televisione in tutte le case degli italiani. In questo contesto a partire da una serie di interventi legislativi dei primi anni Novanta e di violazioni delle leggi già di per sé accomodanti per i privati, si è andato instaurando in Italia un regime di duopolio, in cui dominano la Rai con le sue reti pubbliche, spesso interferite dai partiti politici di maggior peso, e le tre reti commerciali del gruppo Fininvest, tenute in vita dalla pubblicità. Nonostante potesse sembrare che lo spettatore iniziasse a gradire trasmissioni in cui si assiste alla degenerazione della banalità in volgarità, alcune isole di resistenza hanno continuato a mostrare che non necessariamente la televisione dovesse tendere al ribasso. Di conseguenza si è vista la diffusione delle trasmissioni di divulgazione scientifica.[1]

I processi innovativi, però, non sono riusciti a eliminare definitivamente i dislivelli culturali della società. È cresciuta l’esigenza di sapersi orientare nel flusso di informazioni, enorme rispetto a ogni epoca passata, in un mondo non più bipolare.

Per tutte queste ragioni, i vari settori della società hanno dovuto adeguare il loro modo di rivolgersi ai propri utenti; la politica, tra questi, rappresenta un caso del tutto particolare.

In  un saggio su politica e linguaggio, De Mauro ha osservato che <<nel considerare il linguaggio dei politici in azione conviene non fermarsi a singoli usi e abusi ed è invece utile considerarlo per il possibile in un orizzonte più ampio e cioè in rapporto alle sue fonti più o meno nascoste o dimenticate vedendolo come un indicatore dei processi di trasmissione e sedimentazione culturale>>.[2] Si tratta di un modello di analisi diverso da quello classico, che nel Novecento ha il suo esempio più celebre nel saggio di George Orwell Politics and English Language (1946), in cui si guarda soprattutto all’ambiguità e oscurità del linguaggio politico, e lo si considera parte di un perverso disegno di potere, ritornando quasi in maniera perpetua al concetto introduttivo di questa ricerca: la demagogia. Del resto, la condanna degli abusi linguistici dei politici nella convinzione che la lotta politica produca e utilizzi deformazioni semantiche delle parole è un tema ricorrente che attraversa l’intera storiografia greca e latina: il capostipite è Tucidide, al quale sono succeduti Sallustio, Livio, Tacito, Cassio Dione e Seneca.

La menzione di Seneca sottolinea che non erano solo gli storici ad avvalorare un’analisi negativa. In effetti il testo principe della ricerca sul linguaggio dei politici nella Grecia tra fine del V e IV secolo a.C. è un testo filosofico fondamentale nella storia del pensiero e della cultura europea, la Repubblica di Platone.

Per quanto riguarda invece i lavori italiani dedicati al linguaggio politico, De Mauro constatava che la maggior parte delle ricerche soffrisse di una <<visione restrittiva dei fenomeni>>, pur se nobilitata dalla finalità di smascherare gli abusi linguistici.[3] A una visione più ampia avviano gli studi di un nuovo ramo che prende il nome di politolinguistica. In Italia questi studi sono stati sviluppati da Lorella Cedroni. Il termine politolinguistica intende dare una cornice estesa e unitaria ad analisi, studi, riflessioni di politologi, sociologi, linguisti sul tema delle interrelazioni tra linguaggio e politica visto sotto diverse prospettive.

La politolinguistica cerca principalmente di uscire dalla strettoia lessicale e concettuale per cui in italiano e altre varie lingue si adotta un solo sostantivo, politica e similmente il solo aggettivo politico, per abbracciare e qualificare l’intero insieme delle condotte e dei livelli del governo delle comunità. La via d’uscita lessicale, semantica e concettuale di cui ormai largamente si avvale la politologia è richiamare la diversa lessicalizzazione corrente nell’inglese che usa, in corrispondenza dell’unico vocabolo delle altre lingue, tre diversi vocaboli: policy, polity, politics.

Alla luce di questa tripartizione Lorella Cedroni, nelle sue analisi del linguaggio politico soprattutto italiano, ha recuperato e fatto valere sul piano linguistico il cascade model elaborato da Karl Wolfgang Deutsch[4], per il quale vi sarebbe un permanente trasferimento discendente di elaborazioni concettuali e termini dalla politics alla policy attraverso cinque strati socioculturali: le élites politico-culturali, le élites di governo, la rete delle comunicazioni di massa, i leader locali e, infine, il popolo.

La sociologia, il modello a cascata, la statistica demografica mettono in luce la diversa composizione e stratificazione di ciascuna singola comunità, da un lato e, dall’altro, gli studi linguistici areali (diatopici) e sociolinguistici (diastratici) mostrano la varietà e i conflitti di diverso norme d’uso e diversi usi di una stessa lingua. La politoliguistica tematizza e studia questo terzo livello, quello delle relazioni che legano le contrastanti policies e i vari comportamenti sociologici ai comportamenti linguistici, ai loro usi e abusi nell’esprimersi, intendersi e, spesso, fraintendersi.

Nel corso del ventesimo secolo l’analisi del linguaggio politico, a causa del ruolo svolto dalla propaganda nei regimi totalitari, ha ricevuto una connotazione negativa che spesso si continua ad attribuire anche alla comunicazione politica praticata negli attuali contesti democratici. Sembra che il linguaggio politico sia definibile soltanto in negativo, chiarendo ciò che non è: non è una lingua tecnico-specialistica ma un insieme di discorsi accomunati dal riferimento a tematiche o a contesti politici che utilizza parole in buona parte ordinarie; e non è mai, o quasi, discorso chiaro e comprensibile, ma il politichese, una lingua oscura e quanto mai contorta, che per la sua incomprensibilità appare più adatta a farsi veicolo del “secretum imperii” che a servire la chiarezza democratica.[5]

Non avendo un vocabolario tecnico, è opinione comune che la lingua della politica possa essere considerata non specialista o tecnica in senso stretto. Una parola è “tecnica” quando ha un significato rigorosamente determinato e univoco e circola in ambienti ristretti, specialistici appunto. Le parole della politica appaiono invece piuttosto comuni perché hanno una circolazione ampia e sembrano ben comprese da tutti. Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento le parole democrazia, borghesia, capitalismo, maggioranza, costituzione, opposizioni e molte altre erano veri e propri lemmi specialistici, alla portata dei soli pochi politici e intellettuali protagonisti di quella storia.[6] Da quel momento, però, quei termini si sono progressivamente diffusi, sono diventati patrimonio della collettività grazie all’estendersi del regime democratico. Oggi sembrano aver perso ogni traccia di tecnicismo, tanto che si può sostenere che il linguaggio politico <<non [sia] propriamente un linguaggio settoriale>>.[7]

Il linguaggio politico dimostra la tendenza a tecnicizzare lemmi della lingua comune. Alternanza, consultazione, larghe intese sono parole dell’uso comune a cui l’attualità politica assegna un significato tecnico.[8] Un altro aspetto è la facilità con cui la lingua politica produce neologismi tecnici, come bicamerale o pentastellato, i quali invadono ampiamente la lingua comune. C’è poi da ricordare che la lingua politica attinge volentieri ai tecnicismi di altre lingue speciali (del diritto, dell’economia, dell’amministrazione, ecc.) o di lingue straniere.

È necessario distinguere tra “lingua della politica” e “lingua dei politici”, cioè tra varietà d’uso degli studiosi e varietà d’uso dei politici militanti: se la prima presenta un certo grado di formalizzazione, con un lessico in buona parte specialistico e tendenza all’univocità semantica, la seconda può dirsi settoriale solo in senso lato non disponendo di un lessico tecnico e tendendo all’ambiguità dei significati.[9]

La lingua dei politici ha come destinatari tendenzialmente tutti e come intenzioni quelle di informare, comunicare idee e progetti, suscitare partecipazione e consenso emotivo. Tale forma comunicativa, pur fondandosi sul lessico politologico tradizionale, si apre a comprendere anche il lessico quotidiano e i diversi lessici propriamente settoriali, costituendo un’entità linguistica eterogenea che dispone di un ventaglio lessicale e contenutistico estremamente diversificato.

Il linguaggio politico è fortemente orientato sul destinatario, è il perno attorno a cui ruota ogni argomentazione, poiché è dal suo consenso che dipende la sopravvivenza politica di chi quell’argomentazione propone. Il politico deve quindi fondarsi su un’adeguata conoscenza del destinatario, del suo ruolo sociale e ideologico e della sua competenza interpretativa, del sistema culturale di riferimento e dei problemi del contesto socio-ambientale in cui vive; una sorta di “grammatica di riconoscimento”[10] del ricevente che orienta la programmazione e l’elaborazione testuale del discorso e la scelta di una regia discorsiva al posto di un’altra, permettendo di anticipare l’interpretazione del ricevente. Quanto al destinatario una distinzione va fatta tra chi aderisce e chi no al medesimo sentire politico dell’emittente. Possiamo distinguere una comunicazione politica “rituale” e una “argomentativa”.[11] La prima è rivolta a un elettorato di appartenenza ed è tesa a rafforzare l’identità: l’emittente ha a che fare con un ricevente che già aderisce alla sua stessa ideologia e che gli chiede semplicemente di esplicitare e giustificare meglio opinioni condivise in maniera forse fino a quel momento intuitiva. La seconda è rivolta invece a un elettorato d’opinione per chiederne il consenso: il destinatario non aderisce a priori all’ideologia e alle posizioni proposte dal politico, ma il più delle volte è incerto su quale posizione prendere e deve essere convinto. Esiste inoltre la dichiarazione politica fatta in funzione di altri gruppi politici. La lingua di queste dichiarazioni è spesso oscura a chi è estraneo al settore, oltrepassa il cittadino.

Nella progettazione di un discorso politico i condizionamenti del mezzo di comunicazione utilizzato hanno un peso notevole: diversi sono i procedimenti di produzione, circolazione, ricezione messi in atto da stampa, radio, televisione, manifesto, volantino, ecc., e ciascun canale richiede l’adozione di specifici tratti linguistici e di peculiari regimi testuali e semiotici.

Il messaggio politico si diffonde soprattutto grazie a stampa, televisione e, più recentemente, Internet.[12] La politica senza televisione sarebbe oggi inimmaginabile, non perché l’azione politica non abbia una propria autonomia, ma perché la sua pubblicizzazione, e spesso persino la legittimazione delle persone e delle decisioni, passa innanzitutto attraverso gli schermi televisivi. La televisione ha moltiplicato le forme della comunicazione politica con interviste, dibattiti, tribune politiche, ecc., che hanno progressivamente ridotto i comizi di piazza.[13] Se prima i politici si rivolgevano a un pubblico formato soprattutto da aderenti e simpatizzanti e la comunicazione era assertiva ed enfatica poiché volta non a persuadere, ma a rafforzare, oggi il messaggio televisivo è destinato a un pubblico enormemente più ampio e ideologicamente e affettivamente differenziato, il che implica radicali trasformazioni nella logica e nella tecnica comunicativa. Il messaggio politico televisivo si connota sempre più spesso come discorso suasivo[14], oltre che persuasivo, e in ciò presenta non poche affinità con il linguaggio pubblicitario.

È pensiero comune che la genesi del grande cambiamento sia stata l’avvento della Seconda Repubblica. La crisi dei partiti tradizionali, infatti, è stata innanzitutto una crisi linguistica. La mitologia del nuovo ha reso improvvisamente vecchie le formule che fin dal dopoguerra avevano caratterizzato il discorso politico.

Giuseppe Antonelli ha parlato di passaggio dal “paradigma della superiorità” al “paradigma del rispecchiamento”: da una parte il politichese tradizionale della Prima Repubblica, dall’altra le strategie comunicative del marketing politico; dalle proverbiali “convergenze parallele” attribuite ad Aldo Moro, all’evidente semplicità di <<un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno, prospera e serena>>.[15]

Per capire meglio come si è evoluto il linguaggio della politica nei primi anni Novanta del secolo scorso sarebbe corretto esaminare i modi comunicativi degli anni precedenti, risalendo dal referendum su repubblica e monarchia del 1946 fino ad arrivare, appunto, a Tangentopoli e all’inizio della Seconda Repubblica.

La DC, che meglio ha saputo gestire il dialogo con le masse, difendeva il “regime” (parola che solo in seguito estenderà la sua connotazione negativa) e lo “Stato democratico” contro le “diffamazioni” della stampa comunista e di quella reazionaria, proponendosi sin dall’inizio come forza di mediazione tra i due “estremi”. La contrapposizione era verticistica tra i due capi dei grandi partiti di massa, Togliatti e De Gasperi: il leader trentino aveva uno stile sobrio e misurato, i cui concetti chiave erano il servizio e la lealtà verso le nuove istituzioni repubblicane; non mancavano tuttavia appelli emotivi al pubblico, quando gli si rivolgeva direttamente con concreti agganci deittici spazio-temporale o pronominali. Palmiro Togliatti invece, con la sua retorica pacata ma solenne nel repertorio di citazioni classiche, letterarie e religiose, aveva affinato negli anni Venti le proprie tecniche argomentative nel dibattito interno al partito: i suoi testi erano saldamente strutturati, con maggiore attenzione alla dispositio più che alla exornatio; lo stile era lucido e tagliente, didascalico anche nell’uso scientifico del lessico.

Tra gli altri, Pietro Nenni, leader del PSI, era votato all’attacco diretto attraverso neologismi a effetto, suffissazione incisiva (<<stato chiesastico>>), formule originali e ampio utilizzo di metafore.[16]

Alla fase più aspra della guerra fredda, in cui era significativo l’afflusso di anglo-americanismi integrali (leadership, partnership, summit) e di calchi (bipolarismo, super-potenze, caccia alle streghe), seguiva un periodo di dibattito politico più fluido. Grazie alla popolarità di cinema e televisione venivano assorbite nuove mode linguistiche; la politica ha scoperto il nuovo mezzo e il pubblico scopre i politici: le prime tribune elettorali hanno decretato il successo di oratori di spicco, tra i quali il missino Giorgio Almirante.

Il dibattito degli anni Settanta è stato ben rappresentato da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Quello di Moro era spesso un discorso politico interno: punto di riferimento per la sinistra del partito, lo statista sintetizzava le contraddizioni del momento utilizzando l’immagine metaforica di un castello in cui il partito rischiava di soffocare. La sua lungimiranza lo aveva portato a proporre la formazione di un governo di grande coalizione che avesse accolto anche il PCI di Berlinguer.

Spiccavano il tono colloquiale, l’insistenza sui temi del confronto e della responsabilità; è da osservare il fatto che la DC non venisse quasi mai esplicitamente nominata e che l’attenzione fosse rivolta al futuro; cautela e ambiguità sono accentuate dall’uso dell’impersonale. Nonostante tutto il linguaggio di Moro presentava notevoli complessità che si potevano cogliere nella frequenza degli avverbi e nel ricorso a parafrasi, eufemismo e ossimori (oltre alle convergenze parallele, è da annoverare anche costruttiva neutralità).

Quello di Moro era un linguaggio oscuro per la maggior parte degli italiani “normali”, affermava Pasolini, perché usava anche parole prese in prestito dalla lingua tecnica dell’industria (produttività, investimenti, infrastrutture di trasporto…), e perché usava le strutture morfologiche e sintattiche tipiche dei linguaggi altamente formali. Pasolini affermava qui l’idea che il linguaggio politico non si desse per sé una lingua tecnica; d’altra parte, lo vedeva costretto a una sorta di “bulimia lessicale” che lo portava a fagocitare altri linguaggi tecnico-specialistici.

Il giudizio di Pasolini sulla lingua politica si era quindi trasformato in un giudizio etico più che strettamente linguistico. Al problema linguistico dell’uso dei tecnicismi in contesti non tecnici si sovrapponeva la valutazione etica dell’operato di un ceto dirigente ben definito. Oggi, i “nuovi politici” parlano in un altro modo: premono <<il pedale della chiarezza, della comprensibilità>>[17], semplificando lo stile dei loro discorso rinunciando volentieri a usare le strutture morfosintattiche che producono difficoltà alla comprensione e utilizzando invece i <<periodi brevi e lineari e un vocabolario comprensibile che [i politici del passato] non usavano>>[18].

Il segretario della DC era solito potenziare il suo discorso con una serie di regole enunciative, finalizzate a compendiare la <<buona sostanza delle cose>> tipica del linguaggio di Moro. Infatti la modalità del sapere veniva combinata strategicamente con quella del dovere, per concludere con la modalità del fare, molto frequente nelle allocuzioni di Moro. Era inoltre molto diffusa la dicotomia lessicale tra “società civile” e “società politica”, un’opposizione semantica sempre più manifesta e premonitrice di conseguenze negative per l’inasprirsi dello scontro tra “autorità” e “potere”, scontro che ha avuto il suo drammatico epilogo tra il marzo e il maggio 1978.

Moro, adottando la retorica della mitigazione, cui spesso aveva scelto di fare ricorso per poter affrontare con la freddezza e la razionalità necessarie le conflittualità della <<nostra democrazia difficile>>, parlava di <<sproporzione>>, di <<disarmonia>>, di <<incoerenza>> tra società politica e società civile, all’ascolto della quale negli anni successivi ha mostrato una particolare attitudine.[19]

Sempre a proposito dello stilema dicotomico delle “due società”, specchio della crisi dei partiti, già avvertiti da Moro come meno propensi a risolvere i problemi della vita nazionale in termine di rappresentanza fiduciaria, è rilevante riscontrarne la genesi alla fine degli anni Sessanta. Il 1969, ad esempio, è stato sicuramente un anno gravido di messaggi emblematici e significativi, indispensabili per comprendere tutta la pregnanza del pensiero politico di Aldo Moro sviluppatosi nel decennio successivo. È stato capace di decifrare e definire le polemiche giovanili con parole di razionalità, ben comprendendo che sotto le tempeste della scuola c’era la responsabilità dei colpevoli ritardi governativi: <<L’emergere impetuoso dei giovani è il segno più rilevante del rinnovamento corso nella nostra società. Esso riassume in sé tutte le altre esigenze ed attese presenti nel corpo sociale>>.[20]

Il linguaggio di Moro era anche il <<grigio linguaggio della mediazione>>, come Tullio De Mauro intitolava l’articolo apparso sul quotidiano Paese Sera il 17 marzo 1978. Frutto di opzioni lessicali molto selezionate, acute, estremamente meditate, tanto da indurre lo statista in innumerevoli occasioni enunciative a discettare metalinguisticamente sul significato contestuale delle espressioni adottate.

Spesso Aldo Moro affidava alla funzione metalinguistica il compito di spiegare, di esporre i concetti trasmessi dai propri messaggi politici, negoziando in tal modo con i destinatari i particolari sensi del codice utilizzato.

Secondo Moro, il politico era tenuto a esercitare il linguistico diritto di denunciare le condizioni congiunturali della realtà, come affermava nell’intervista rilasciata al settimanale L’Espresso del 15 aprile 1973, nella quale si impegnava ad adottare un determinato comportamento, cioè a esprimere con chiarezza l’opinione personale, assumendo quindi la responsabilità di fare la propria parte. Egli poneva come questione urgente la necessità di discutere, di argomentare, di contestare, al fine però di costruire in maniera propositiva: <<Si deve pensare, giudicare, proporre, protestare, costruire insomma. È complicato ma vale la pena di farlo>>.[21]

Per tutto l’arco degli anni Settanta, lo statista incitava la propria parte politica a saper valorizzare il “nuovo”[22] senza avere timore dell’ignoto, a interpretare con “discernimento” e “prudenza” la società e i suoi segni, anche se fossero espressi in forme disordinate e inquietanti.

Egli rivendicava di aver riconosciuto e compreso nel ’68 quei caratteri di originalità e di novità che sarebbero maturati e si sarebbero sviluppati negli anni successivi anche in forme violente.

Moro non risparmiava considerazioni sulle incognite della cosiddetta <<terza fase>>[23], cioè di quell’ardua stagione socio-politica preparatoria della compartecipazione governativa DC-PCI da lui stesso coordinata e negoziata.

Ma è all’ultimo discorso proferito da Moro, il 28 febbraio 1978, che dobbiamo fare riferimento per sottolineare ulteriormente un linguaggio inconsueto, carico di intensità espressiva, come del resto il prolungato e difficile momento politico ispirava.

Al culmine della <<strategia della tensione>>[24] si coglieva tutta intera l’inquietudine dello statista di aderire a un’intesa programmatica assolutamente inedita con il Partito Comunista, necessaria però per poter restituire una sorta di tregua a <<questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili>>[25], formula incisiva con cui il leader connotava la peculiare identità antinomica italiana.

Diverse erano le strategie espressive di Berlinguer, collocate naturalmente nell’alveo dello stile teorico-didascalico, antiretorico, della sinistra. C’era un forte richiamo all’<<analisi delle condizioni oggettive>>, al rigore morale e alla serietà intellettuale. Molto presente era il lessico didattico di matrice marxista: giusto/sbagliato, correggere, spiegare, lezione, dottrina, errore, deviazione; le poche metafore erano spaziali o meccaniche (panorama, spazio d’azione); l’argomentazione era ordinata ma rigidamente logica, austera, ben concatenata dall’uso dei coesivi, dominata dall’impersonale. Rara la presenza di tratti colloquiali; tra le parole chiave si segnalavano eurocomunismo e questione morale[26].

I loro discorsi erano pensati per essere capiti da persone già addentro alle questioni politiche <<e non da semplici cittadini. Per questi ultimi le parole del politico risultavano delle cortine fumogene>>.[27] Spesso queste frasi e queste parole vengono utilizzate per simboleggiare la complessità del politichese.

Tuttavia si è incominciato a parlare di politichese solo negli anni Ottanta. In questi anni la soglia di tolleranza dei cittadini nei confronti dei politici ha iniziato ad abbassarsi. Una delle prime testimonianze la si può trovare in un articolo di Giampaolo Pansa ne “L’Espresso” del 20 giugno 1982 in relazione a un’affermazione di Ciriaco De Mita, il quale era appena stato eletto segretario della DC: <<Ottenere una maggiore rispondenza fra le decisioni dell’autorità pubblica e gli interessi della collettività.>> Ovvero, si richiedeva “un migliore funzionamento delle istituzioni”.[28] Il suo accento spiccatamente meridionale e la sua oratoria ricca di subordinate e parallelismi erano motivo di continue parodie, anche se avevano portato Gianni Agnelli a definirlo <<un tipico intellettuale del Mezzogiorno, di quella formazione filosofica, di quella tradizione di pensiero tipica della Magna Grecia>>.[29]

È stato dunque da questi episodi che il politichese ha iniziato a prendere piede.

<<Il politichese>>, in una delle più celebri definizioni tratta dalla premessa al Dizionario del politichese di Gino Pallotta risulta essere <<una lingua nella lingua, un gergo particolare nato all’interno del discorso politico e che ricorre di continuo nei giornali, nelle riviste, alla televisione. Spesso, i termini di questa neolingua, appaiono oscuri e criptici, se si vuole capire che cosa veramente accade nel nostro paese, è necessario conoscerli e comprenderli a fondo perché essi contengono, in una sintesi estrema, il significato più riposto della dialettica del potere>>.[30]

In quegli anni la politica faticava a cogliere i cambiamenti che avrebbe prodotto, di lì a poco, l’avvento della neotelevisione. Cipriani e Pasquino avevano osservato che <<la Tribuna, a livello di talk-show o di esibizione divistica, non sembra[va] aver dato buoni frutti>> e avevano intuito che i partiti avrebbero dovuto <<selezionare i comunicatori in funzione della tv>>.[31] Una parziale eccezione era rappresentata dal PSI di Bettino Craxi. Il giovane leader inaugurava uno stile comunicativo diretto e polemico; il ventaglio metaforico era più ampio, il lessico era brillante, arricchito di esotismi (la celebre espressione giri di valzer diventava giri di lambada) ma anche di latinismi (fumus persecutionis). Spregiudicato nell’inventare a caldo battute sferzanti e slogan vincenti, Craxi aveva intuito il vento di novità della politica-spettacolo, fatta di divismo protagonistico e di presenzialismo, di attenzione al target, di massima esposizione alle luci della ribalta e di elasticità nelle performances.[32]

L’insofferenza verso il politichese tradizionale, dopo che gli anni Settanta e Ottanta avevano segnato un sempre più accentuato ricorso da parte dei principali partiti di governo a strategie di alleanza e a forzature istituzionali volte alla conservazione del potere, si faceva progressivamente più marcata man mano che ci si avvicinava al quinquennio 1989-1994, che vedeva la caduta del muro di Berlino, le inchieste giudiziarie, la scomparsa o la miniaturizzazione dei grandi partiti e la nascita di nuove formazioni politiche dalle ceneri di quelle scomparse o costituitesi in forma assolutamente inedita (è il caso di Forza Italia). Le nuove leggi elettorali, in particolare, con il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario e alla preferenza unica, contribuivano poi a modificare in modo significativo il più vasto contesto all’interno del quale aveva luogo il processo elettorale, modificando di conseguenza le modalità della comunicazione nell’ambito politico. Ciò che sembrava definitivamente tramontato era un modo di comunicare legato a una fase in cui la televisione non era ancora il principale mezzo di comunicazione politica.[33]

Si può inoltre facilmente convenire sul fatto che la politica sia ricca di –ismi, i quali nella lingua corrispondono agli –esi. Non a caso, un nuovo fenomeno è stato introdotto nella campagna elettorale del 1994 che ha inaugurato la stagione del berlusconismo: il gentese. Già Tullio De Mauro, infatti, in quello stesso periodo aveva rilevato un uso più costante e frequente della parola “gente”. Qualche mese dopo, a novembre, Berlusconi stesso sarebbe arrivato a dire che <<chi è scelto della gente è come se fosse unto dal Signore>>.

Ma prima della celebre discesa in campo di Berlusconi, già Umberto Bossi e la sua Lega avevano lasciato un segno indelebile sulla tradizionale lingua della politica. Bossi infatti aveva cominciato la sua propaganda politica all’insegna di un linguaggio che lui stesso definiva <<il linguaggio della gente>>, <<colorito>>, <<molto popolare, molto più diretto>> rispetto alle forze <<imborghesite nel Parlamento>>.[34] A questo si va ad aggiungere una sorta di protezione delle varietà regionali e dei dialetti del nord Italia. Grazie anche ad alcune campagne pubbliche, la Lega è riuscita con successo a farsi percepire dai mass-media e quindi dall’opinione pubblica, nel dibattito politico-giornalistico e anche da fette di mondo accademico, sia italiano che estero, come il partito più attivo nella difesa del pluralismo linguistico italiano.

Tra le campagne leghiste più note, si ricordano quella del 1988 in favore della toponomastica e della segnaletica bilingue italiano-dialetto (che è riuscita anche a coinvolgere esponenti parlamentari di area popolare-autonomista, sinistra laica federalista ed ecologista)[35] e quella per la riforma della Legge 482/99, criticata per aver lasciato fuori dalla tutela ampie aree linguistiche come quelle di Veneto, Lombardo e Piemontese e che nel 2006 ha portato Davide Caparini e altri dodici leghisti a presentare alla Camera una successiva proposta di legge.[36]

 

 

[1] T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Editori Laterza, Roma, 2008, p. 97.

[2] T. De Mauro, A proposito di politica e linguaggio in L’italiano della politica e la politica per l’italiano, a cura di R. Librandi e R. Piro, Franco Cesati Editore, Firenze, 2016, p. 65.

[3] Ivi, p. 66.

[4] K. W. Deutsch, Politics and Governement, How People decide their Fate, Houghton Mifflin, Boston, 1970.

[5] A cura di R. Petrilli, La lingua politica. Lessico e strutture argomentative, Carocci Editore, Roma, 2015, p. 16.

[6] Si veda a questo proposito E. Leso, Lingua e rivoluzione.  Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Venezia, 1991.

[7] L. Serianni, G. Antonelli, Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica, Bruno Mondadori, Milano, 2011, p. 153. Per la loro ampia diffusione, parole quali democrazia o parlamento non sono tecnicismi della politica secondo i dizionari.

[8]Ivi, p. 137. Secondo Serianni e Antonelli, la tendenza a introdurre nuove accezioni tecniche per lemmi della lingua comune, e non veri e propri neologismi tecnici, sarebbe tipica dei linguaggi non specialistici e vicini alla lingua comune.

[9] M. V. Dell’Anna, P. Lala, Mi consenta un girotondo. Lingua e lessico nella Seconda Repubblica, Mario Congedo Editore, Galatina, 2004, p. 23.

[10] P. Desideri, Teoria e prassi del discorso politico, Bulzoni, Roma, 1984, p. 16.

[11] P. Giglioli, I due codici comunicativi in La comunicazione politica in Italia, a cura di Jader Jacobelli, Editori Laterza, Roma, 1989, pp. 83-88.

[12] G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-128.

[13] È opportuno distinguere tra politica nazionale e politica locale, M. V. Dell’Anna, P. Lala, Mi consenta un girotondo…, cit., p. 26.

[14] U. Eco, Il messaggio persuasivo in Le ragioni della retorica, a cura di G. Fenocchio, Mucchi Editore, Modena, 1986, pp. 11-27. Eco intende per discorso “suasivo” un discorso che mette in opera tecniche di persuasione che non si presentano apertamente come tali.

[15] G. Antonelli, Volgare Eloquenza…, cit., p. 22.

[16] R. Gualdo, Il linguaggio politico in Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a curi di P. Trifone, Carocci Editore, Roma, 2009, pp. 250-251.

[17] R. Gualdo, M. V. Dell’Anna, La faconda repubblica: la lingua della politica in Italia (1992-2004), Manni Editori, San Cesario di Lecce, 2004, p.  25.

[18] A cura di R. Petrilli, La lingua politica…, cit., p. 21.

[19] P. Desideri, La <<voce della ragione>>: il linguaggio politico di Aldo Moro in L’italiano della politica e la politica per l’italiano a cura di R. Librandi e R. Piro, cit., p. 443

[20] A. Moro, Una politica per i tempi nuovi, Agenzia <<Progetto>>, Roma, 1969, p. 158.

[21] P. Desideri, La <<voce della ragione>>…, cit., p. 448.

[22] M. Medici, La parola <<nuovo>> come impegno e come visione politica nel linguaggio politico di Aldo Moro, in “Sallentum”, V (1982), 1, pp. 3-7.

[23] P. Desideri, La <<voce della ragione>>…, cit., p. 449.

[24] La strategia della tensione è una teoria politica che indica generalmente un periodo storico molto tormentato della storia d’Italia, in particolare negli anni settanta del XX secolo, in particolare negli “anni di piombo” e che, mediante un disegno eversivo, tendeva alla destabilizzazione od al disfacimento degli equilibri precostituiti.

[25] A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, Garzanti, Milano, 1979, p. 388.

[26] Cfr., Cap. I.

[27] G. Antonelli, Volgare Eloquenza…, cit., p. 24.

[28] Ivi, p. 25.

[29] Ibidem.

[30] G. Pallotta, Dizionario del politichese, SugarCo Edizioni, Milano, 1991.

[31] I. Cipriani e G. Pasquino intervista a “La Tribuna” di Jader Jacobelli, 1989.

[32] R. Gualdo, M. V. Dell’Anna, La faconda repubblica…, cit.

[33] M. V. Dell’Anna, P. Lala, Mi consenta un girotondo…, cit., p. 147.

[34] G. Antonelli, Volgare Eloquenza…, cit., p. 27.

[35] M. Tani, <<Tutto per i dialetti, niente attraverso di essi>>. La politica linguistica della Lega Nord dalle origini a oggi tra dichiarazioni programmatiche ed effettiva prassi scrittoria in L’italiano della politica e la politica per l’italiano…, cit., p. 717

[36]Ivi, p. 718. Il testo è presente sul sito della Camera dei Deputati.