COM’E’ CAMBIATO IL LINGUAGGIO DELLA POLITICA A PARTIRE DAL 1992 (II capitolo – 2.)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO”

CHIETI – PESCARA

DIPARTIMENTO DI LETTERE, ARTI E SCIENZE SOCIALI

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONI LETTERARIE

L’ITALIANO DELLA POLITICA TRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA

RELATORE CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Emiliano Picchiorri Chiar.ma Prof.ssa Maria Teresa Giusti

LAUREANDO

Dario Lorè

Matricola n. 3171312

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

 

Negli ultimi vent’anni c’è stata un’attenzione crescente degli studiosi per il discorso parlamentare o per il linguaggio politico. Tullio De Mauro, nel 2010[1], aveva già fatto notare come non vi fosse una base di riferimento empirica che permettesse di gettare uno sguardo complessivo sul linguaggio parlamentare, di effettuare qualche confronto, di trarre qualche osservazione generale di sviluppo e cambiamento e forse anche di sottoporre a prova qualche ipotesi di lavoro.

Uno degli ultimi e più corposi lavori da questo punto di vista è stato effettuato tenendo conto delle discussioni parlamentari fino alle dimissioni del presidente Silvio Berlusconi durante il suo ultimo governo (12 novembre 2011).[2]

Per avvicinarsi a questo obiettivo non si è trovato un approccio più efficace e affidabile per effettuare confronti e analisi tra leader di diversa esperienza e orientamento politico, lungo un arco temporale abbastanza esteso da risultare significativo. La base testuale di questa analisi è rappresentata dagli Atti parlamentari che la Camera dei deputati pubblica con riferimento ai resoconti dei dibattiti in Assemblea.

Il corpus preso in esame ha prodotto un lessico di oltre 5 milioni di occorrenze per 91.000 parole distinte. Il periodo storico osservato è molto ampio e pertanto pesa, per ciascun leader, la durata della sua presenza nella Camera dei deputati e il suo stile discorsivo.

Ma c’è un cambiamento di linguaggio tra Prima e Seconda Repubblica? È sicuramente una domanda alla quale non si può dare una risposta univoca.

In un gruppo di ricerca avviato da Luca Giuliano questo argomento è stato affrontato da Isabella Chiari che ha rilevato: <<[…] osservare e discutere alcuni dati che ci permettono di dare una collocazione del lessico parlamentare entro il continuum delle varietà dell’italiano, utilizzando come indicatore non l’incidenza del lessico “tecnicizzato” bensì del lessico di base, cercando di mettere in luce se vi siano stati cambiamenti nel tempo e se gli stili dei leader politici rappresentati nel corpus differiscano per uso relativamente alle parole che costituiscono il nucleo più antico e più diffuso e compreso della nostra lingua.>>[3]

Se è vero che il linguaggio parlamentare sta fra lo scritto e il parlato[4], dovrebbe essere possibile rilevare questa posizione in un confronto del vocabolario di base nel continuum dei generi individuati da Isabella Chiari e Tullio De Mauro nel loro lavoro sul Nuovo vocabolario di base: <<Il vocabolario di base infatti rappresenta il nucleo più centrale del lessico italiano e comprende, nelle sue due fasce basate sull’uso produttivo le 5000 parole più usate nei testi e comprese da parlanti che abbiano completato la scuola secondaria inferiore (FO, ovvero il lessico fondamentale – prime 2000 parole in ordine di frequenza e AU, ovvero lessico di alto uso – ulteriori 3000). Si tratta di un nucleo lessicale che tende anche a una certa stabilità diacronica e che, in testi di dimensioni ampie, registra stabilità di occorrenza.>>[5]

L’indicatore assunto è il tasso di copertura: quante parole di un testo appartengono all’una o all’altra fascia del vocabolario di base. Quanto più alta è la copertura tanto più il testo si avvicina alla sua comprensione da parte di ampi strati della popolazione.

Isabella Chiari ci dice che nel Nuovo Vocabolario di Base il vocabolario fondamentale copre l’86,3% delle occorrenze, con punte più basse nella saggistica e più alte nel parlato. Se si considera invece la fascia successiva, l’alto uso, si osserva una media di 6,4% di copertura: da un minimo di 4% del parlato a un massimo di 8,7% della saggistica.[6]

In generale il corpus, complessivamente per tutte le legislature, si presenta con un lessico tradizionalmente collocato nella dimensione formale dello scritto-scritto.

Se passiamo alla osservazione di un eventuale spostamento verso il polo parlato nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, diciamo subito che non vi sono evidenze sufficienti o abbastanza solide né per confermare né per confutare l’ipotesi. Troppa la differenza tra la quantità degli interventi della Prima Repubblica rispetto alla Seconda. Troppo singolare invece la composizione del corpus in nessun modo “rappresentativo” del linguaggio parlamentare nel suo complesso.

Isabella Chiari registra effettivamente, nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, un avvicinamento verso il genere della stampa, tendenzialmente più vicino al parlato.[7]

Il discorso politico quindi si è rinnovato, abbandonando le ridondanze, le ambiguità e le oscurità del politichese, che basava la sua presunzione di autorevolezza su una finzione di scientificità.[8]

La discesa in campo di Silvio Berlusconi è stata rappresentativa di un’autorità fondata su presupposti nuovi, a partire dalla <<metafora che sta ad indicare una diversa forma di legittimazione, basata non più su una qualificazione per competenza politica stabilita da agenti esterni e collettivi [i partiti], ma sulla personale decisione di concorrere, sulla base di scopi autonomamente decisi e su una qualificazione derivante da una performance extrapolitica>>[9], ovvero il successo imprenditoriale. Nuova è stata anche l’oratoria berlusconiana: assertiva, franca, colloquiale e affettiva, eppure innervata <<da una batteria di tecniche retoriche>> abilmente dissimulate in modo che non fossero percepite come tali, ma come <<andamenti naturali di un discorso spontaneo>>.[10] Prima ancora di Berlusconi, del resto, Bettino Craxi aveva inaugurato una nuova stagione dell’oratoria, caratterizzata dallo stile diretto, dall’asprezza e dalla polarizzazione del campo politico, carattere <<in cui, a scapito della parola, proprio il carisma e l’immagine sono diventati sempre più decisivi man mano che la competizione per il favore dei cittadini si è spostata dalle sezioni di partito agli studi televisivi>>.[11]

Queste evoluzioni hanno fatto sì che si parlasse di marketing politico. Gianpietro Mazzoleni ha scritto: <<Il marketing elettorale è la testimonianza politicamente più significativa del riuscito connubio tra la retorica “classica” e le tecniche di persuasione moderne.>>[12] Con la perdita di peso delle ideologie e con la generale trasformazione di media e società in senso “commerciale”, la competizione elettorale ha subìto <<una trasformazione che l’ha avvicinata non solo idealmente alla competizione che avviene nel mercato, ed ha assunto i modelli di comunicazione vigenti nella sfera mercantile.>>[13]

Marketing elettorale e marketing politico sono due espressioni che derivano da un’unica formula usata spesso nel lessico statunitense. Espressioni inequivocabili come packaging politics “confezionare la politica” danno l’idea di strategie che puntano a costruire l’immagine di un prodotto-candidato per “sedurre informando” i propri elettori che assumono le sembianze di clienti.

Nel ristretto ambito linguistico, le conseguenze di questa assimilazione tra politica e pubblicità si sono fatte evidenti. La comunicazione politica ha infatti imparato, come già detto in precedenza, ad adeguare il proprio linguaggio al destinatario, abbandonando progressivamente la vecchia autoreferenzialità focalizzata sul mittente (politichese). Ha mirato a instaurare una relazione quasi amichevoli con l’elettorato e a suscitare in esso emozioni confortanti.

La politica ha seguito la pubblicità anche sul piano delle forme di comunicazione: la campagna elettorale del 1983 aveva aperto la strada all’uso degli spot televisivi; una volta che questi (a partire dal 2000) sono stati limitati a causa della legge sulla par condicio, il più antico strumento del manifesto elettorale  ha iniziato a riproporsi in una nuova chiave di lettura, dando visibilità a slogan pensati per lo scritto e ricorrendo a un abbinamento fra testo e immagine strutturato sul modello dei cartelloni pubblicitari.[14]

Messe al bando le <<convergenze parallele>> i politici hanno optato per l’uso di parole semplici per ribadire luoghi comuni in cui l’uomo della strada si sarebbe potuto riconoscere, è qui che avviene il passaggio tra paradigma della superiorità e paradigma del rispecchiamento. Se prima si puntava a impressionare l’uditorio rimarcando la propria superiorità culturale, ora si prediligono <<forme espressive immediatamente comprensibili e registri informali in grado […] di attivare nei destinatari potenti sistemi di rispecchiamento molto efficaci per la crescita del consenso.>>[15]

Com’era inevitabile, a un tipo di retorica se n’è solo sostituita un’altra, meno clamorosa ma più agguerrita, proprio perché i suoi artifici sono <<occultati da tecniche di persuasione modellate su quelle della pubblicità commerciale; e tagliate sui tempi rapidi, sulle forme brevi, martellanti e incisive.>>[16]

Si potrebbe quindi affermare che la <<degenerazione della retorica>> politica (come la chiamava Umberto Eco negli anni Settanta), stia prendendo strade nuove rispetto al passato, abbandonando la paralizzante oscurità che la caratterizzava per ricorrere soprattutto ad altri due tipi di trucchi: l’invettiva personale e gli accorati richiami ai valori più largamente condivisi, così universali da suonare ridondanti, privi di qualunque potere informativo.

Nella specifica realtà italiana, il declino del politichese è stato determinato più dalla perdita di credibilità della classe politica dovuta ai fatti di Tangentopoli che ad avvenimenti di dimensione planetaria come la caduta del Muro di Berlino.

Anche nel paradigma di rispecchiamento, però, non sempre s’intende mettere sullo stesso piano chi parla e chi ascolta. Piuttosto l’autorevolezza dell’oratore politico sembra giocarsi ora su un terreno diverso: non più la perizia retorica d’impronta umanistica, bensì la capacità di dominare i meccanismi dell’economia. Il fascino della terminologia finanziaria con la sua aura di efficienza manageriale ha sostituito il prestigio di quella filosofica e giuridica. Al latino, di conseguenza, si è preferito l’inglese; o meglio al latinorum si sostituisce, secondo una definizione di Gian Antonio Stella, l’inglesorum con cui i ministri dell’Economia cercano di abbindolare i cittadini.[17]

Si è anche parlato di “lingua a due velocità” poiché le scelte linguistiche corrispondo frequentemente a esigenze diverse. Dal punto di vista espressivo la politica è subordinata ai media e non viceversa: deve rispettarne le regole e i tempi, perché solo attraverso quel filtro può imporsi all’attenzione del pubblico. Però alcuni tratti sono largamente condivisi. Ad esempio la <<volontà di evitare il nome partito, screditato dalla pratica della cosiddetta partitocrazia>>[18]: un fenomeno che ha promosso la fortuna di forme sostitutive più o meno sinonimiche (alleanza, confederazione, tavolo, polo). Nella stessa direzione va il passaggio più o meno generalizzato dall’ideologia al programma o al progetto.

Allo stesso modo le citazioni d’autore vengono rimpiazzate dalle statistiche.

Il linguaggio politico contemporaneo però ha conservato alcuni tratti tipici della retorica tradizionale. I politici sembrano non poter fare a meno delle figure retoriche di ripetizione, tra cui anafora, anadiplosi, tricolon e poliptoto, le quali saranno approfondite nel paragrafo successivo.

 

 

[1] T. De Mauro, Il linguaggio della camera, in AA. VV. La camera dei Deputati a Montecitorio: storia fotografica, 24 Ore cultura, Milano, 2010.

[2] Gruppo di ricerca su “Il linguaggio della leadership politica tra la prima e la seconda Repubblica. Analisi statistica e linguistica dei discorsi parlamentari”. Finanziamento MIUR – Ateneo La Sapienza – Università di Roma. Coordinatore: Luca Giuliano: Componenti del gruppo: Sergio Bolasco, Isabella Chiari, Nora Galli de’ Pratesi, Fabrizia Giuliani, Gevisa La Rocca, Gianni Losito, Emanuela Piemontese, Alessandra Rimano, Gabriella Salinetti, Gilda Sensales, Paola Villani. Collaboratori: Cristina Antonetti, Alessandra Areni, Anastasia Cinti, Barbara D’Amen, Stefano Di Pietro, Diego Femia, Andrea Libratore, Marta Pititto, Francesca Socrate, Luca Tardella.

[3] I. Chiari, Il lessico di base del discorso parlamentare nel continuum dell’italiano, in Giuliano-Villani (a cura di), Il linguaggio della leadership politica tra la Prima e la Seconda Repubblica. Problemi di metodo e di ricerca, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma, 2015.

[4] M. Cortelazzo, Dal parlato al (tra)scritto: i resoconti stenografici dei discorsi parlamentari, in G. Holtus, E. Radtke, Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Narr, Tubinga, 1985, pp. 86-118.

[5] I. Chiari, Il lessico di base del discorso parlamentare, cit.

[6] L. Giuliano, La parola del leader: profili di linguaggio parlamentare a confronto tra la Prima e la Seconda Repubblica, in L’italiano della politica e la politica per l’italiano…, cit., p. 145.

[7] Ivi, p. 146.

[8] W. Pedullà, Breve storia dell’oratoria politica nell’Italia Unita, introduzione a Parole al potere. Discorsi politici italiani, Rizzoli, Milano, 2011, pp. CII s.

[9] C. De Santis, “Pensiamo, pensavamo e penseremo”: strategie di costruzione dell’autorità in L’italiano della politica e la politica per l’italiano, cit., p. 322.

[10] G. Fedel, Parola mia. La retorica di Silvio Berlusconi, in “Il Mulino. Rivista di cultura e di politica”, III (2003), p. 467.

[11] W. Pedullà, Breve storia dell’oratoria politica, cit., p. CXIX.

[12] G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 131.

[13] Ivi, p. 143.

[14] G. Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione 2.0, Società editrice Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 93-94.

[15] P. Desideri, L’italiano della Lega/1, in “Italiano e oltre”, VII, 1993, pp. 284-285.

[16] R. Gualdo, I nuovi linguaggi della politica italiana, in “Studi linguistici italiani”, XX, 2004, pp. 261.

[17] G.A. Stella, L’inglesorum del ministro, in “Corriere della Sera” del 6 ottobre 2004.

[18] G. Antonelli, L’italiano nella società…, cit., p. 96-97 e in M. Cortelazzo da Annali del Lessico Contemporaneo Italiano. Neologismi 1993-94, Esedra, Padova, 1995.