di Claudio Magris
Alcuni anni fa, a Tolmezzo, in Carnia, un vecchio partigiano, Romano Marchetti, mi aveva regalato la fotocopia di un curioso documento. Marchetti era stato uno dei comandanti della brigata Osoppo, la formazione partigiana democratica che, mentre combatteva contro nazisti e fascisti, era stata proditoriamente aggredita, nell’eccidio fratricida di Malga Porzus, da un gruppo comunista connivente con le mire annessionistiche di Tito sulla Venezia-Giulia. Ma quel documento, che qualche tempo dopo Renzo De Felice mi disse di conoscere ma di non aver pubblicato, risaliva a un’epoca molto più antica. Era la relazione con cui suo padre, Sardo Marchetti, direttore didattico della scuola elementare di Tolmezzo, alla fine dell’anno scolastico 1907 non confermava l’incarico a un maestro supplente che si chiamava Benito Mussolini. Il direttore esprimeva questo giudizio con rammarico, perché riconosceva a quel docente precario indubbie doti, laboriosità, «una notevole disposizione all’arte educativa» e «non comuni risorse intellettuali», vanificate purtroppo da mancanza di metodo, disorganicità, disordine e difficoltà a imporre la disciplina agli scolari della seconda elementare.
Quella testimonianza di una vecchia e scomparsa Italia mi aveva indotto, in un articolo sul Corriere , a ricordare con umana simpatia quel supplente pasticcione ma affettuoso con gli scolari, che si guadagnava una vita grama a 75 lire al mese e, nel pieno delle sue scomposte passioni socialiste e anticlericali, si abbandonava a bislacchi ma generosi gesti di protesta rivoluzionaria, a rissosi amori e a vaghi sogni di giustizia sociale. Un insegnante confusionario ma non avaro di sé con i ragazzi; un uomo che, come diceva la scheda del suo direttore, se si fosse applicato con ordine «avrebbe potuto raggiungere un profitto molto migliore», sarebbe potuto diventare qualcosa di meglio di un duce.
Se pubblicassi oggi quel vecchio articolo, esso potrebbe suonare ambiguo. Quella simpatia nei confronti del supplente Mussolini potrebbe sembrare succube di quell’insinuante e aberrante falsificazione della storia e della memoria che da qualche anno va prendendo sempre più piede in Italia. L’iniziale revisionismo storico, talora oggettivamente motivato dalla necessità di rivedere o integrare la storiografia dei vincitori e soprattutto di correggere la strumentale retorica antifascista, sta divenendo sempre più sfacciatamente, una riabilitazione o addirittura celebrazione del fascismo e di quello peggiore. C’è, nel clima politico-culturale sempre più dominante, un’aggressiva negazione dei valori della democrazia e della Resistenza che forse ci costringe a ridiventare ciò che speravamo e credevamo di non venire più costretti ad essere, ossia intransigenti antifascisti.
Sono cresciuto, come molti miei amici, in una famiglia e in un’atmosfera di tradizione tranquillamente democratica, che mi ha insegnato la fermezza di giudizio unita alla pietà per i vinti e alla comprensione – che non significa giustificazione – delle cause storiche, delle responsabilità generali e delle passioni che possono condurre individui e comunità – che possono condurci – a errori, a scelte disastrose e ad azioni colpevoli. In questa visione, il fascismo sconfitto e finito era un doloroso capitolo di storia d’Italia, un fenomeno che era stato giusto e doveroso combattere. Esso andava compreso nei motivi che lo avevano generato e nei sentimenti che aveva destato, bollato nei suoi aspetti infami (dalla violenza squadrista alle leggi razziali, all’irresponsabile entrata in guerra), valutato con obiettività in alcuni suoi risultati positivi e nei fermenti contraddittori, talora non ignobili, che avevano indotto, specialmente all’inizio, anche alcuni spiriti generosi, spesso divenuti poi suoi avversari, a credere in esso. Bisognava e bisogna capire come e perché uomini quali ad esempio Pietro Iacchia, caduto combattendo contro i franchisti in Spagna, avevano inizialmente creduto nel fascismo e come e perché uomini di retto sentire avevano creduto nella Repubblica di Salò.
Il presupposto di questa comprensione era l’inequivocabile condanna del fascismo quale regime democratico e illiberale, quale ideologia sciovinista e talora razzista, quale movimento totalitario. E’ dal mazziniano mio padre Duilio, antifascista del partito d’azione e poi repubblicano, che ho imparato a non dare mai del «fascista» a chi professa opinioni che avverso o anche detesto. Ricordo con tanto affetto un mio carissimo cugino morto a diciott’anni nelle file di Salò e non mi passa per la testa di ritenermi migliore di lui, anche perché la mia età non mi ha dato nemmeno la possibilità di fare quella scelta disastrosa – ma essa resta disastrosa, perché se la causa per la quale egli è morto avesse vinto, il mondo sarebbe divenuto una Auschwitz.
Il fascismo era dunque una storia oltre il rogo; proprio perché l’antifascismo era l’indiscusso fondamento della vita civile; ci sembrava inutile – talora fastidioso o truffaldino – professarlo retoricamente o, peggio, usarlo nella nuova, diversa lotta politica del presente. Perfino dalle mie parti, ai confini orientali d’Italia, dove la brutalità fascista doppiamente brutale e stolta aveva esasperato le antiche lacerazioni fra italiani e slavi e innescato bestiali spirali di violenze e vendette, pareva finalmente di poter vivere in una tranquilla normalità democratica che non ha bisogno di sbandierare di continuo la fede nella democrazia e il valore della convivenza armoniosa e del rispetto reciproco. Sì, pensavamo che l’antifascismo fosse finito in quanto non più necessario, nel senso in cui lo auspicava un grande poeta avverso al fascismo e fuoruscito a Parigi, Giacomo Noventa.
Ma tutto questo è possibile solo sulla base di una condanna del fascismo così definitiva da non aver bisogno di essere ribadita; è possibile solo se si conviene, come ha detto peraltro tempo fa l’onorevole Fini, che nel ’43 la Resistenza era la parte giusta. È su questa base che si può comprendere e rispettare chi si è trovato dall’altra parte e chiudere per sempre il contenzioso. L’unità di un Paese non è una pappa che amalgama tutto nè una media fra gli opposti – Farinacci più Valiani fratto due – ma è la scelta di un sistema di valori in cui ci si riconosce. Un patriota come de Gaulle non fonda la Francia su una via di mezzo fra la Resistenza e Vichy, ma sui Compagnons de la Libération ; l’inno del patriottismo francese, la Marsigliese non è un’ammucchiata di tutti i contendenti bensì l’espressione di una scelta precisa in un momento di lotta, una scelta in cui il Paese riconosce la propria identità.
Da qualche tempo invece, in Italia, quel tacito fondamento viene a poco a poco scalzato; non si tratta di serene revisioni storiche, ma di una sorda apologia dei peggiori aspetti del passato. I confini della decenza si spostano pericolosamente. Alle nostre frontiere orientali diventa problematico o imbarazzante onorare le vittime della «Shoah» o del fascismo e si riattizzano irresponsabilmente quegli odi nazionali ed etnici che hanno insanguinato e mutilato quelle frontiere e oppresso ferocemente gli slavi e più tardi gli italiani. Il patriottismo viene imbrattato di regressivo nazionalismo e quasi di razzismo, con un vero oltraggio al senso dell’amor di Patria.
I responsabili di questa regressione non sono necessariamente i rappresentanti del partito che discende dal fascismo. Questa classe politica dalla coscienza foderata di trippa se ne infischia, sostanzialmente, di quello che è successo nella Risiera di San Sabba e anche nelle foibe e ha capito che può finalmente sfogare senza veli questo elementare menefreghismo, un tempo tenuto a freno da norme morali introiettate, accettate o anche subite, da autorità tradizionali, politiche o religiose, dalle regole della decenza civile, dalla coscienza e talora anche dall’ipocrisia, la quale in certi casi è pur sempre un argine all’indecenza, l’omaggio sia pur forzato del vizio alla virtù. È come se vaste cerchie di buzzurri morali – incoraggiati dalla caduta di ogni stile, che fa assomigliare la nostra società al mondo dostoevskijano del «tutto permesso» – scoprissero che è finalmente consentito mettersi le dita nel naso anche a tavola e si precipitassero ad approfittarne.
Le volgarità sono un aspetto di questo totalitarismo indistinto che si dilata come una pappagorgia. Sarebbe ben triste esser costretti, dinanzi a quest’acqua che sale dai tombini, a ritornare su trincee del passato e a ripetere pateticamente «no pasaran». Come dice Manzoni, i prevaricatori sono colpevoli non solo dei torti che fanno alle loro vittime, ma anche dei torti e degli errori cui inducono, per reazione, queste ultime. Per fortuna anche le loro goffaggini possono essere involontariamente utili: chi ha proposto, qualche anno fa, di proclamare il 25 aprile festa degli italiani anziché della Resistenza, credeva di negarla e invece le ha reso senza accorgersene omaggio, dimostrando appunto che il 25 aprile e non il giorno della marcia su Roma può essere una festa di tutti gli italiani.
Continuiamo dunque a ricordare con umano rispetto quel supplente non riconfermato nel 1907, senza lasciarci turbare da chi rimesta nel fango. Il fratello del grande studioso di mistica ebraica Gershom Scholem era un fervido ammiratore della cultura tedesca, a suo avviso la più alta d’Europa. Sopravvissuto alla «Shoah», viveva da vecchio in Israele e una volta un giornalista gli chiese, con petulanza, se credeva ancora nella grandezza della cultura tedesca. «Certo – rispose – non basta mica un Hitler qualunque per farmi cambiare idea».
L’immagine di copertina è tratta da un’opera dell’artista Roberto Finessi
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