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di Pierfranco Pellizzetti
Appena pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli un’eBook, scritto da Paolo Gerbaudo, che racconta la trasformazione dei partiti politici nell’era di Facebook e Amazon: “Nuove organizzazioni politiche come il M5S, Podemos, France Insoumise e Momentum integrano nel loro modus operandi le tecnologie digitali e le nuove forme di interazione e cooperazione che sono divenute il simbolo della generazione millennial”. Ma se ci sono le innovazioni positive, restano ancora molte le contraddizioni e limiti di questo nuovo modello organizzativo. Ecco perché c’è ancora bisogno del partito tradizionale.
«L’ultima rivoluzione politica, la rivoluzione contro il
clero politico e l’usurpazione potenzialmente iscritta
nella delega, resta ancora tutta da fare»[1].
Pierre Bourdieu
«Un partito non è, come vorrebbe la dottrina classica
(o Edmund Burke), un gruppo di uomini ansiosi di
promuovere il bene pubblico […]. Un partito è un
gruppo i cui membri si propongono di agire di concerto
nella lotta di concorrenza per il potere politico»[2].
Joseph A. Schumpeter
Il cerimoniale Hi-Tech
«Io con un click, semplicissimo, decido se fare la guerra, se uscire dalla Nato, se essere padroni in casa nostra, se avere una sovranità monetaria»[3], sbraitava Beppe Grillo il 25 gennaio 2012.
Ora, cosa dovremmo pensare della clickdemocracy pentastellare, tanto idealizzata dal suo Guru, alla luce della vicenda grottesca, emersa in questo aprile 2018? Il programma elettorale del Movimento, varato nel 2017 con grandi strombazzamenti sulla sua compilazione collettiva on line, grazie al contributo progettuale di militanti a migliaia, e che ora risulta largamente rimaneggiato (o meglio, edulcorato) da manine invisibili; via, via che ci si stava avvicinando alla possibile conquista della Presidenza del Consiglio per il proprio capobranco in piena svolta democristiana. Insomma – scrive Matteo Pucciarelli – «ci sono due programmi elettorali nei Cinque Stelle; uno discusso e votato dagli iscritti, il secondo deciso dai vertici del Movimento. Il primo non conta nulla, sul secondo garantisce direttamente Luigi Di Maio»[4].
Questo per dire che – a differenza di Paolo Gerbaudo, autore dell’e-book Feltrinelli “Il partito piattaforma. La trasformazione dell’organizzazione politica in età digitale” – bisognerebbe andarci cauti nel certificare un presunto nuovo che avanza. Specie nell’attuale fase storica in cui – come diremo – la mistificazione della realtà risulta ancora più del solito l’arma preferita dal Potere per imporsi e autoperpetuarsi.
Anche perché la digitalizzazione dell’organizzazione di partito – a ben vedere – sembra più un cerimoniale (come dicono in Toscana) “acchiappacitrulli” che non un radicale cambiamento; sulla strada agognata di mete belle quanto misteriche: la democrazia diretta, la disintermediazione, la libera espressione della volontà generale, la riduzione delle leadership al rango di semplici portavoce.
Raccontiamocela fino in fondo: il mantra “uno vale uno”.
Ennesimo abbaglio di un’epoca circuita dalla retorica Hi-Tech, a fronte del tangibile arretramento dell’effettiva capacità innovativa (il tempo della finanza è impaziente e la privatizzazione orienta più alla speculazione che all’investimento, entrambe condizioni estremamente sfavorevoli alla ricerca di base).
«Un numero in aumento di economisti si chiedono se la rivoluzione tecnologica non sia stata gonfiata in maniera forviante. […] Non siamo tornati a un rapido progresso economico. Anzi: una ripresa c’è stata, una sola, dieci anni fa. Da allora viviamo nell’epoca di iPhone, iPad e iQuelchetipare, ma crescita e redditi sono tornati alla fiacchezza degli anni 70-80. Le nuove tecnologie sono più divertenti che indispensabili». Gadget con cui drogare un mercato saturo e diffondere smartpatia tra giovanetti, nella migliore(?) tradizione USA di virare il mass-market a induzione artificiosa di orientamenti all’acquisto (dai jeans alla musica pop, al junk food/drink).
Sicché per convenire con Gerbaudo sull’avvento del nuovo modello di “partito piattaforma” («tale perché integra nel suo funzionamento una serie di piattaforme online a partire dai social come Facebook e Twitter, per la comunicazione esterna, e vari servizi di messaggeria istantanea come WhatsApp e Telegram per la comunicazione interna») avremmo bisogno ci dimostrasse fattualmente che l’adozione dei tools ICT determini un effettivo salto di qualità (come minimo fuori dal comune) nella relazione tra le varie componenti di partito e nella struttura partecipativa, trasformandosi in un vero e proprio “scheletro organizzativo”. Una mirabolante discontinuità positiva, trainata da Internet e dall’Information and Communication Technology.
Ad oggi diciamo semplicemente che chi se lo poteva permettere ha fatto largo uso del servizio Big Data, messo a disposizione da quelli che il massmediologo bielorusso Evgeny Morozov chiama “i Signori del silicio”, per macroscopici condizionamenti del corpo elettorale: “l’ascesa dei dati e la morte della politica”[5] democratica, di cui abbiamo avuto un disgustoso assaggio nel saccheggio delle informazioni per violare gli indirizzi privati di 50 milioni di utenti Facebook da parte di un’agenzia di marketing politico (Cambridge Analytica) pagata da sostenitori dello stesso Donald Trump.
Per il resto l’adozione delle cosiddette “tecnologie indossabili wireless” consentono semplicemente modalità poco costose e piuttosto efficaci di “rendezvousing” («riunirsi per partecipare a una successiva attività di gruppo»[6]); poco più di una convocazione per attività militanti di base. Appunto, preliminari.
Lo stesso che vale anche per il più celebrato esempio di crowdsourcing, di wikigovernment: il varo della nuova Costituzione d’Islanda, che si pretenderebbe elaborata su Facebook; quando la prima bozza – dopo una fase di ascolto – fu predisposta da un’Assemblea Costituente di 25 membri eletti. Per poi essere affossata dal Parlamento con un voto contrario nel marzo 2013. Sicché, dopo questa overdose d’utopia, trae conclusioni puntuali il blogger Fabio Chiusi: «i frutti più importanti dell’e-democracy si possono raccogliere non nella fase della decisione ma prima e dopo che queste decisioni siano prese. I dati aperti favoriscono il monitoraggio e la valutazione. Il crowdsourcing aiuta l’implementazione»[7].
Perfino la promessa di “de-gerarchizzare la decisione” va ridimensionata, se questa si riduce, nelle parole del portavoce di Occupy Wall Street David Graeber, a una semplice questione di bon ton relazionale: «l’essenza del processo di creazione del consenso sta nel fatto che, quando si tratta di prendere una decisione, tutti dovrebbero avere lo stesso peso e nessuno dovrebbe sentirsi vincolato»[8].
La successione dei modelli di partito
Sgombrato il campo dalle cadute modaiole nell’up-to-date, rimane sempre aperta la questione delle logiche che guidano il costituirsi e il susseguirsi nel tempo delle differenti strutture politiche. Partendo da una considerazione preliminare: ogni epoca ha il suo paradigma organizzativo generale, ricalcato sulla struttura dominante; per tutta l’epoca industrialista, di matrice aziendale: dalle ferrovie nella seconda metà dell’Ottocento alla fabbrica fordista nel Novecento. E attualmente? Nell’emergere di paradigmi leggeri e flessibili, che parlano il linguaggio della rete, la modellistica strutturale prevalente registra l’avvento della governance manageriale post-fordista del Toyotismo a “produzione snella (lean production) e – ancora prima – l’influenza del settore assurto alla posizione chiave nella creazione del valore, in questa fase chiamata post-industriale: la logistica. Diventata tale nel modo di produrre just-in-time e nel mondo ridisegnato dalla compressione spazio-temporale nel tempo zero della comunicazione informatizzata. Qualcosa di più e di diverso dalle semplici funzioni di trasporto, rifornimento e distribuzione, oggi si tratta dell’insieme di standard tecnici, infrastrutture e procedure che costituiscono la dimensione strategicamente globale dell’attuale fase dello sviluppo, occupando oltre il 20% dell’intera forza lavoro mondiale. Il vero epicentro in questa stagione del Capitalismo, in cui la distribuzione la fa da padrona sulla produzione. «Mentre – scrive David Harvey – lo spazio sembra rimpicciolirsi fino a diventare un ‘villaggio globale’ delle telecomunicazioni e una ‘terra-navicella’ di interdipendenze economiche ed ecologiche»[9]. A fronte di una tale tendenza dominante i sociologi bourdivens (allievi di Bourdieu) della parigina École des hautes études en sciences sociales Luc Boltanski ed Ève Chiappello sottolineano «l’omologia morfologica tra i nuovi movimenti di protesta e le forme che il capitalismo ha assunto nel corso degli ultimi vent’anni»[10]. Il periodo in cui si è definitivamente imposto il dominio dell’Economico sul Politico. Tema su cui si ritornerà in conclusione.
Restando alla questione dei paradigmi organizzativi, l’egemonia culturale dell’odierna logistica privilegia il modello di networking gergalmente definito “Hub & Spoke” – mozzo e raggiera – le cui principali caratteristiche, altamente adattive e a geometria variabile, risultano essere:
- La scarsa vulnerabilità alle turbolenze del mercato per l’assoluta intercambiabilità dei nodi;
- La veicolazione, attraverso le filiere e raggiere, di flussi sia fisici (merci) che virtuali (finanza e informazioni);
- Il ruolo del vettore, che non è di governo, bensì di accompagnamento delle molteplici dinamiche in gioco;
- La costante alternanza di elementi congiunturali nei fattori che orientano le scelte di localizzazione, che possono essere di natura economico-finanziaria, sociale o geografico-infrastrutturale.
Must che, declinati in politica, assumerebbero la seguenti configurazioni:
- L’intercambiabilità dei nodi si tradurrebbe nella nuova forma partito in una struttura leggera connessa su base comunicativa;
- L’attitudine a circuitare flussi reali e virtuali si rispecchierebbe nella capacità di trasmettere messaggi identitari e – insieme – chiamate per la mobilitazione;
- La funzione prevalentemente accompagnatoria del vettore porta a traslarne il ruolo nella concezione di leadership politiche collettive, in cui il singolo funge da portavoce;
- Il soggetto integratore, sia nella trasportistica che nell’ipotesi di partito hub and Spoke, è quello che si trova nelle migliori condizioni per svolgere questa funzione in base a criteri posizionali.[11]
Questo in astratto, inseguendo simmetrie e dando per compiuto l’esaurimento dei vecchi modelli di partito. Ma così non è; e i tempi per l’affermazione di un assetto funzionale al servizio del ritorno alla democrazia – lo si voglia modello “piattaforma” oppure “logistico” – non sono ancora maturi. E solo una nuova stagione di lotte potrà contrastare la perniciosa attitudine che “il morto ha di afferrare il vivo”.
Nella permanente mutevolezza del soggetto partito: dal club di notabili che si attivava alle scadenze elettorali, al tempo del Reform Act inglese varato nel 1832, al partito di massa otto-novecentesco socialista e popolare, per arrivare al partito acchiappatutto del secondo dopoguerra. Forme profondamente diverse, ma con un tratto comune: la natura duale, agonista e al limite antagonista, del quadro in cui operano. Roberto Michels distingueva “organizzazioni per una causa” dalle “organizzazioni per l’autoconservazione”; Alessandro Pizzorno ha contrapposto “sistemi di solidarietà” a “sistemi di interesse”[12].
Ma al tempo in cui giungeva a esaurimento la stagione del “Capitalismo sociale”, seconda metà degli anni Settanta, prendeva avvio un processo in cui il panorama politico iniziava ad accantonare le dinamiche competitive, al limite conflittuali.
All’imporsi della restaurazione NeoLib si accentua la tendenza all’omologazione della classe politica, sempre di più ceto indifferenziato; in cui la Sinistra si offre al comando plutocratico rendendosi disponibile a svolgere ruoli di caporalato del consenso. Il quadro “postdemocratico” descritto dal politologo Colin Crouch («le elezioni diventano gare attorno ai marchi, anziché opportunità per i cittadini di replicare ai politici»[13]); si impone quanto il giurista Bernard Manin denomina “democrazia del pubblico”, in cui la scena politica si trasforma nel set di un reality, dove i cittadini vengono declassati a spettatori.[14] E già in tempi non sospetti Manuel Castells percepiva l’aspetto perverso insito in tale deriva: «in ultima analisi i governi diffidano dei loro cittadini»[15]. Quindi si camuffano, mimetizzano, fingono di ssere ciò che più non sono: agenzie per la partecipaione democratica, quando – al contrario – si sono trasformati in strumenti di controllo del demos, a protezione dei propri privilegi castali. Ascensori sociali.
Quartieri indignati
Siamo proprio sicuri che i partiti nati dopo la crisi finanziaria globale scoppiata tra il settembre e l’ottobre 2008, con epicentro Wall Street, non rechino tracce dei passati modelli organizzativi della politica? E che i richiami all’internet-centrismo[16] sovente non siano altro che artifizi dialettici per marcare la propria fittizia estraneità rispetto ai tradizionali attori della scena pubblica?
Qualcuno potrebbe insinuare che tutti i portabandiera dell’Altra Politica risultano altamente tributari del leaderismo e dell’opportunismo, magari celati con la cosmesi di una proclamata diversità labiale. D’altro canto il premier greco Alexis Tsipras calpesta i risultati popolari del referendum anti-Troika per salvare la ghirba a Bruxelles, le lotte intestine di vertice sono all’ordine del giorno tra gli spagnoli di Podemos e i Cinquestelle di Grillo e della Casaleggio Associati si segnalano per le sistematiche espulsioni da Comintern staliniano di chi non si allinea al verbo dei Garanti.
Va detto che il quadro è ancora oltremodo confuso, per cui è ben difficile che possa emergere compiutamente un modello di organizzazione della militanza pubblica davvero alternativo. Anche perché dopo il 2011, l’esplodere del fenomeno degli “indignati” ha segnalato la presenza di una vasta area del corpo elettorale che dà segni di combattività contro l’aggregato plutocratico, dall’affarismo alla Casta (e persino ambienti della malavita organizzata). Opportunità che attira svariati imprenditori di partito; assicura consistenti successi elettorali a chi si candida a rappresentarla. Dunque, “piatto ricco mi ci ficco”, magari spacciandosi per ciò che non si è; e – così – aumentando la confusione nel campo dell’Altra Politica.
Eppure il potenziale di lotta resta notevole e crescente. Solo che aggrega pezzi di società diversi rispetto al passato: se negli anni Sessanta lo scontro era ancora “di classe” sullo sfruttamento e si svolgeva nei luoghi di lavoro, oggi – a mattanza compiuta dell’occupazione – l’avversario è piuttosto l’emarginazione. Mentre il campo indignato e le stesse forze che vorrebbero rappresentarlo rimangono ampiamente vincolati dalla colonizzazione mentale dei decenni scorsi.
Osserva l’antropologo Marc Augé: «gli stessi contestatori, quando fanno sentire la loro voce, sono prigionieri del mondo delle immagini creato dalla prodigiosa espansione dei media e della comunicazione elettronica»[17]. Gli outsiders ingabbiati nelle categorie linguistiche e concettuali degli insiders, contro cui si battono: l’handicap di giocare sul terreno altrui, certificandone il vantaggio egemonico. E poi c’è l’ingombro gigantesco, carico di ambiguità ed equivoci, rappresentato dalla presenza in campo della Sinistra istituzionale, che cerca di riaccreditarsi come forza di progresso e contemporaneamente mantiene le ormai croniche attitudini collusive. Tanto da far dire all’alcaldessa di Barcellona Ada Colau che «bisogna fare la sinistra, senza nominarla»[18]. Per non sputtanarsi.
Se vale ancora una volta la natura indissolubile del binomio strategia/struttura, la riconquista di una democrazia radicale grazie all’allestimento di una macchina da guerra per la sconfitta delle plutocrazie transnazionali in un Armageddon prossimo futuro; dove prima ancora della civiltà è in gioco la sopravvivenza dell’umanità. A cui occorrerà attrezzarsi, chiamando a raccolta tutte le forze intellettuali non compromesse con l’ordine dominante: la creazione di contenitori funzionali al mettere insieme diversità irriducibili, accomunate dal creciproco interesse per la riappropriazione di quel futuro espropriato dalla dittatura dell’Economico.
Sicché il vero terreno decisivo, su cui si gioca la partita per il recupero della sovranità popolare, non può che essere la riformulazione militante del concetto stesso di democrazia; plesso concettuale ben più articolato di un semplice sistema di regole formali: la civilizzazione fondata sulla decisione attraverso il dialogo e che – in quanto tale – legittima il dissenso. Per cui – come si diceva – nell’eclisse attraversata in questi decenni dalle cosiddette democrazie mature di Europa e Stati Uniti, abbiamo assistito all’emergere di importanti sperimentazioni alternative, ai confini dell’impero di lingua inglese; in numerosi Paesi latino-americani o nel Portogallo di Antonio Costa, premier anti-austerity (come anti-miseria, quando ancora era sindaco di Lisbona); laddove si è realizzata la congiunzione positiva di lotte parlamentari ed extraparlamentari. Sicché la politologa belga Chantal Mouffe, partner del filosofo argentino Ernesto Laclau in significative avventure intellettuali, asserisce che «il compito di rianimare la democrazia è della massima urgenza, ma sarà possibile portarlo a termine solo se i partiti di sinistra si lanceranno in un’offensiva contro-egemonica diretta contro il tentativo neoliberista di distruggere le istituzioni chiave del welfare state e di privatizzare il complesso della vita sociale, assoggettandola al dominio del mercato»[19].
Sicché– come si diceva – per fare questo occorrerà pensare una struttura funzionale a valorizzare tutte le energie da coinvolgere (in un lavoro di precisazione che va oltre la vaghezza del termine “popolo”).
In questo momento storico il comando plutocratico ridisegna il pianeta e segmenta le economie con la razionalità a senso unico dei corridoi geopolitici e le varie “vie delle sete”; mentre «la rivoluzione logistica traina una riorganizzazione del lavoro e della vita il cui obiettivo finale è sincronizzare le dissonanze del mondo globale al ritmo costante delle catene del valore e della produzione»[20].
Se è vero che l’attuale motore della trasformazione fa politica espropriando parlamenti e istituzioni democratiche, non sembri singolare recepire i criteri vincenti del suo modus operandi (il paradigma del networking configurato a raggiera, messo a punto nella movimentazione delle merci) per filiarne un modello organizzativo che aiuti a sconfiggere l’ennesima personificazione dell’assiomatica dell’interesse predatorio e i suoi innumerevoli corifei; mimetizzati o meno.
Fonte: micromega-online
NOTE
[1] _ P. Bourdieu, Proposta politica, Castelvecchi, Roma 2005 pag. 93 [2] _ J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, ETASlibri, Milano 1994 pag. 269
[3] _ F. Chiusi, “La rete di Grillo non esiste”, Limes 2013
[4] _ M. Pucciarelli, “Votato e cambiato è stato riscritto il programma M5S”, la Repubblica 18 aprile 2018
[5] _ E. Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio, Codice, Torino 2017 pag. 57
[6] _ M. Castells (a cura di) Mobile communication e trasformazione sociale, Guerini Associati, Milano 2008 pag. 188
[7] _ F. Chiusi, Critica della democrazia digitale, Codice, Torino 2014 pag. 128
[8] _ D. Graeber, Progetto democrazia, il Saggiatore, Milano pag. 175
[9] _ D. Harvey, La crisi della modernità, EST, Milano 1997 pag. 295
[10] _ L. Boltanski, E. Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Sesto S. Giovanni 2014 pag. 408
[11] _ P. Pellizzetti, Società o barbarie, il Saggiatore, Milano 2015 pag. 249
[12] _ A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 1993 pag. 101
[13] _ C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003 pag. 116
[14] _ B. Manin, Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010 pag. XI
[15] _ M. Castells, Galassia Internet,Feltrinelli, Milano 2002 pag. 175
[16] _ E. Morozov, L’ingenuità della rete, Codice, Torino 2011 pag.137
[17] _ M. Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012 pag. 65
[18] _ G. Russo Spena e S. Forti, Ada Colau – la città in comune, Alegre, Roma 2016 pag. 148
[19] _ C. Mouffe, “La democrazia è conflitto”, MicoMega7/2015EST. Milano 1996 pag. 12
[20] _ G. Grappi, Logistica, Ediesse, Roma 2016 pag. 219
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