LA DIMENSIONE DELLA MEMORIA

[avatar user=”Pierfranco Pellizzetti” size=”thumbnail” align=”left” link=”https://www.ilfattoquotidiano.it/blog/ppellizzetti/” target=”_blank” /] di Pierfrando Pellizzetti

Ricordo mio nonno, Gino Murialdi. Colloquio con Paolo Murialdi*

“Mio padre parlava spesso del nonno.

Nei miei primi ricordi di bambino c’è il grande palazzo sotto la lanterna, a piazzale Giaccone, che papà mi portò a visitare spiegandomi che il nonno Gino era stato uno di quelli che più si erano impegnati per riuscire a costruirlo. La casa dei carbuné.

Se la memoria non mi inganna, legata all’edificio c’era una questione di docce che colpì la mia fantasia infantile. Gli scaricatori del carbone finalmente, grazie alla conquista di una propria sede attrezzata di impianti igienici adeguati, avrebbero potuto terminare la giornata lavorativa lavando via dal corpo la densa fuliggine che li ricopriva. Quella fuliggine che li trasformava in “uomini neri“, quasi a imprimere loro il marchio visibile dell’emarginazione.

La raggiunta disponibilità delle docce e la conseguente possibilità di pulirsi assumevano – dunque – il valore simbolico di una dignità riconquistata. Gino Murialdi tutto questo lo capiva benissimo. Capiva che era anche attraverso questi aspetti, apparentemente marginali, che si realizzava l’emancipazione del lavoro. Il nonno era un uomo pratico, abituato a privilegiare le questioni concrete e gli aspetti organizzativi. Forse troppo in anticipo rispetto ai tempi. Un riformista pragmatico in un’epoca in cui iniziano ad addensarsi le nubi di nuove tempeste ideologiche, di insorgenze estremistiche. Un anticonformista in rotta di collisione con ogni forma di conformismo, anche di sinistra.

L’uomo Murialdi, il laburista fortemente influenzato come tanti altri socialisti genovesi (penso a Canepa e al vecchio avvocato Rossi) dalle esperienze francesi, è soprattutto un grande organizzatore. Un uomo d’azione perennemente impegnato in nuove iniziative. Se nel 1903 è tra i fondatori de “Il Lavoro”; quando muore giovanissimo di infarto (non ha che 48 anni) sta recandosi in una cartiera ad acquistare la materia prima per stampare un altro quotidiano progressista, il nittiano “Il Paese”. Era il 14 dicembre 1920.

Nei racconti paterni – dunque – una sorta di manager di sinistra ante litteram, impegnato nel movimento solidaristico delle aristocrazie operaie del porto di Genova (bellissimo ed emblematico il nome della loro cooperativa di consumo, “L’Emancipazione”). Detto così, l’orizzonte operativo di Gino Murialdi sembrerebbe essere circoscritto al porto. Eppure, tempo fa Torino, mi parlavano del nonno sia Norberto Bobbio che Alessandro Galante Garrone e ne ricordavano l’impegno nelle lotte contadine. In effetti, nonostante fosse andato a Genova a studiare, era originario del basso Piemonte. Una doppia legatura, dunque: il mare e la collina. I suoi genitori – del resto – facevano entrambi i maestri elementari nella Val Bormida. Per questo, dopo essersi laureato a Genova, inizia a esercitare l’avvocatura nei luoghi nativi e anche mio padre vede la luce nella vecchia casa di famiglia a Cortemilia, tra Cuneo e Savona.

Quando uscirà dal Partito Socialista per le polemiche con una dirigenza massimalista genovese del tutto sorda al gradualismo (cui antepone quella retorica estremista che al nonno risultava altrettanto ostica), ritornerà ai luoghi d’origine. Presentandosi da socialista indipendente, sarà eletto deputato per due volte e sempre in collegi del basso Piemonte: Acqui nel ’13 e Alessandria nel ’19.

A proposito, Bobbio mi ricordava la risonanza dello scontro che, nelle elezioni del ’13, vedeva contrapposti nel collegio di Acqui mio nonno e un giolittiano famoso come Maggiorino Ferraris. La spuntò il nonno e anche questa volta la sua “modernità” ebbe modo di mettersi in evidenza. Nel romanzo “I Sansossi”, Augusto Monti racconta della campagna elettorale di Gino Murialdi che, fatto inaudito per l’epoca, utilizza un’automobile e gli elettori della zona vanno ai comizi per ammirare quella meraviglia della tecnica meccanica prima ancora che per ascoltare le parole del candidato.

Per lunghi anni si parlò dell’automobile scoperta di Gino Murialdi che sfrecciava per la Val Bormida. Si diceva, forse un uomo troppo in anticipo rispetto ai propri tempi, che ai primi del secolo già pensava la questione logistica come grande opportunità genovese, che affrontava i problemi in un’ottica sostanzialmente “imprenditoriale”.

Papà conservava la copertina di un numero de “L’Illustrazione Italiana” del 1903, dedicata alla visita di Vittorio Emanuele III al porto di Genova e che riproduce il nonno mentre gli tende un piatto con una pagnotta e un tovagliolo in segno di pacificazione.

Una vicenda che i massimalisti non riuscirono mai a perdonargli. Enrico Leoni nel 1905 lo indicherà come esempio di “degenerazione socialista”, Arturo Labriola lo attaccherà pesantemente nel Congresso del 1906. A poco serve rispondere, a chi lo accusa di “aver portato l’omaggio dei lavoratori al re”, di avere – in effetti – “accolto l’omaggio del re ai lavoratori”. A ben poco serve.

La scomunica per “degenerazione” accompagnerà il nonno anche dopo la morte. Quando, nel 1932, si edita il libro “Vent’anni di movimento operaio genovese” il nome di Luigi Murialdi viene cassato persino dalle pagine dedicate alla fondazione de “Il Lavoro” e al “contratto dei dodici mesi”.

Una “congiura del silenzio” continuata anche nel secondo dopoguerra: i riformisti come Murialdi erano gente da non citare neppure.

Ricordo – ad esempio – che vari anni fa feci visita alla figlia del vecchio Giuseppe Canepa, grande leader socialista genovese dei primi del secolo. La mia ospite, in quella occasione, mi mostrò un pacco di corrispondenza paterna di altissimo interesse storiografico. All’evidente interesse per “quelle carte” che andavo manifestando, mi raccontò che mai nessuno si era fatto avanti per consultarle. Mai le erano pervenute richieste in tal senso da studiosi e specialisti. Un evidente e non casuale esempio di “rimozione della memoria” a cui la sinistra condannò per lunghi anni la tradizione riformista del socialismo italiano.

Mi chiede se, con un nonno fondatore di giornali e un padre giornalista, la mia scelta professionale è dipesa da una vocazione familiare? Non credo proprio. Del resto, mio padre fece il giornalista dopo aver tentato vanamente altri mestieri.

Semmai nel nostro DNA c’è il socialismo riformista. E una certa propensione alle scissioni. Io stesso, per esempio, feci quella di Palazzo Barberini pensando di andare a sinistra…”.

 

*Paolo Murialdi, nato a Genova nel 1919, inizia la carriera giornalistica nel Secolo XIX. Dopo la guerra e l’esperienza partigiana, lavora come redattore al “Corriere della Sera”.

Dal 1956 al 1973 è capo-redattore de “Il Giorno”. Viene eletto presidente FNSI (Federazione italiana

della Stampa) per il periodo 1974-81. Ha insegnato e insegna scienza della comunicazione e storia del

giornalismo in numerose Università (Torino, Milano, L UISS).

Ha fondato la rivista “Problemi dell’informazione”. E autore di numerosi libri, tra cui: “La stampa italiana della Liberazione alla crisi di fine secolo” (Laterza) e “Storia del giornalismo italiano” (il Mulino).

Tratto daRagnatela di MareCompagnia Portuale Pietro Chiesa – Genova