“LA LOTTA PER LA VITA” (1894)

Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO

Nell’Italia nord-occidentale: Giovanni Lerda, Oddino Morgari, Costantino Lazzari, Dino Rondani

 

Premessa

  1. Tra positivismo e massoneria (1880-1893)
  2. Lo sviluppo industriale e le origini del socialismo torinese
  3. Giovanni Lerda nel socialismo torinese (1888-93)
  4. Il modello socialista genovese
  5. Il decennio genovese (1893-1902)
  6. La lotta per la vita (1894)
  7. Il Congresso di Firenze (luglio 1896)
  8. Il socialismo e la sua tattica (ottobre-novembre 1896)
  9. La polemica con Bernstein (1897)
  10. Esilio svizzero (1898-99) e attività all’estero
  11. Il nuovo secolo e il “ferrismo” (1900-1906)
  12. La frazione intransigente (1906-11)
  13. Da Modena a Reggio Emilia (1911-12)
  14. L’impresa libica nel quadro dell’imperialismo italiano ed europeo
  15. Il congresso di Ancona, la guerra e il dopoguerra

Il suo primo tentativo di un’esposizione elaborata ed organica dei concetti divulgati in modo  frammentario  nei suoi articoli e comizi, fu il saggio “La lotta per la vita”[1] che riprese e allargò una recensione già apparsa nell’ “Archivio di psichiatria”, in polemica al libro di Jacques Novicow[2]Les Luttes entre les sociétés humaines et leurs phases successives” [3].

Al Novicow, che ap­plicava meccanicamente alla dinamica storico-sociale la metodologia evoluzionista darwiniana, contrappose la funzione nella realtà sociale dell’inizia­tiva umana  come forza organizzata in vista di obiettivi selezionati consapevolmente dai «bisogni» dei  diversi raggruppamenti di classe da cui, essendo contraddittori fra loro, nasceva inevitabilmente la «lotta per la vita».

Si trattava di un richia­mo alla funzione determinante dell’iniziativa umana, misconosciuta da chi riteneva che la storia fosse esclusivamente il campo di gioco meccanico di forze uniformi con un loro inevitabile svi­luppo. Lerda cercò di chiarire in che cosa consi­steva la intelligenza organizzatrice dei raggruppamenti sociali, e cioè quali erano le concrete forze storiche nelle quali erano venuti ad articolarsi e a formarsi quei gruppi o classi.

Parlando dell’uomo lo definì «una parte minima di un intero ed enorme organismo che gli si impone inconsciamente…che…non può reagire contro l’ambiente che in minima misura, essendone esso stesso saturo, e tanto meno poi egli può trasformarlo». In ogni società Io «sviluppo e l’opera di trasformazione non può prodursi che dalla massa».  Con ciò la funzione dell’iniziativa storica veniva trasferita all’interno della massa: “ora abbiamo degli individui ignoranti, che nulla comprendono, che nulla tentano determinatamente per un ideale elevato; ma i quali però, solo seguendo l’impulso dei bisogni che si fanno vivi nelle diverse classi cui appartengono, gettano lentamente le basi di un nuovo edificio sociale di cui solo più tardi la scienza studierà e determinerà il processo evolutivo».[4]

Affermando che «non già dall’individuo si  ha  la forza che deve condurre gli aggregati  umani a migliori  destini, ma sibbene dall’intera società o almeno da quella  parte di  essa che  rappresenta  le tendenze  evolutive,  che  in questo  momento  storico  vanno concentrandosi nel proletariato[5] poneva l’accento sulle ten­denze evolutive della intera società, la cui forza animatrice finiva per essere non l’inizia­tiva autonoma del proletariato, ma la “scienza che studia e determina il processo evolutivo”  di cui il proletariato era una particolare, provvisoria coagulazione. Gli artefici dell’iniziativa storica non potevano che essere gli «scienziati» socialisti delle leggi evolutive, che avrebbero agito nei confronti dell’organismo sociale così come “il biologo incrocia razze animali o innesta una specie di vegetale sull’altra”.

La sua formazione ed esperienza di propagandista lo portava­no a seguire certe valutazioni implicite: che le masse si muovono solo per motivi biologici-utilitaristici e che l’intelligenza e la vita morale possono animare le masse solo se ricevono un costante apporto educativo dalle «élites» pedagogiche del Partito.

Nel suo pensiero una cosa era la «rivo­luzione delle idee» e un’altra quella «degli ordinamenti», una cosa l’agitazione ideologica e un’altra il “rinnovamento fatale della società”, per cui si creava un duali­smo tra teoria e prassi, tra «scienza marxista» e «leggi fatali» della vita economica e sociale, colpendo così un  pilastro del pensiero marxista.

Sempre nel 1894, nell’intervista “a personalità del mondo letterario, artistico e scientifico[6] respinse qualsiasi attributo emotivo «al socialismo… che è scienza…[e].. deve per quanto possibile allontanare qualunque elemento perturbatore o deprimente che potrebbe condurlo ad una falsa interpretazione delle leggi che fatalmente si sviluppano nell’attuale momento economico e sociale».

Il Congresso di Firenze (luglio 1896)

Al quarto Congresso nazionale del PSI, tenuto a Firenze dall’11 al 13 luglio 1896,  facilitato dalla sua compagna Oda Olberg, già corrispondente della Wiener Arbeiterzeitung, iniziò l’attività di corrispondente di riviste socialiste tedesche ed austriache. Sul Sozialistische Akade­miker riportò le sue impressioni sul Congresso e sulla situazione particolare in cui si trovava il movimento operaio italiano dopo la caduta del Crispi[7].

Sul punto all’ordine del giorno “Organizzazione del Partito” relazionò Lazzari che sostenne l’impostazione che si era data il precedente congresso di Parma, basata sull’adesione individuale al posto di quella delle organizzazioni. Questo criterio, che si basava sul modello della socialdemocrazia tedesca, mentre il sistema delle adesioni collettive era caratteristico del laburismo britannico, fu motivato come prova dell’avvenuta maturazione nei singoli militanti di una consapevole coscienza di classe ma era nato da considerazioni di opportunità, come espediente  per sottrarsi alla repressione crispina: separare dalle sezioni di partito le organizzazioni di classe significava consentire a queste un almeno formale agnosticismo politico che le collocava nelle retrovie della battaglia preservandone l’esistenza per tempi migliori. La relazione di Lazzari insisteva sull’organizzazione politica  basata sui collegi elettorali, che era stata valida quando l’infuriare delle leggi eccezionali aveva costretto i lavoratori ad organizzarsi nell’unica forma legalmente riconosciuta, ma ora rivelava la sua incapacità di esprimere a livello più alto le istanze politiche degli strati popolari, e su ciò  si aprì un dibattito.

Per Lerda un’involuzione «radico socialista» si profilava nel socialismo italiano determinata da una sempre più grande distanza tra il gruppo dirigente del Partito socialista, che rischiava di diventare una “élite” sempre più orientata verso un «socialismo borghese carrie­ristico» e i settori popolari economicamente più svantaggiati, verso cui non erano sufficienti i discorsi rivoluzionari ma si doveva svolgere una propaganda capillare e farsi interpreti delle loro rivendicazioni ed esigenze per trasferirle a livello politico, cosa che riguardava anche gli emigrati, a favore dei quali Lerda sostenne l’istituzione di un ufficio esecutivo centrale del partito.

“Il socialismo e la sua tattica” (1896) e Georges Sorel

Giovanni Lerda fu tra gli iniziatori del revisionismo marxista in Italia: nel saggio “Il socialismo e la sua tattica” [8] mise in guardia da coloro che, interpretando in modo troppo rigido il materialismo storico, credevano che le trasformazioni sociali si producessero fatalmente e che la logica potesse determinare la storia.

Non era giusto dire che il socialismo sarebbe ar­rivato fatalmente a trionfare: per dirigere il movimento verso questo fine occorrevano le condizioni intellettuali e morali della società, venendo a mancare le quali “...si potrebbe avere anche un terribile e rigoroso feudalesimo industriale il quale, collettivizzando la produzione e regolandola per mezzo di sindacati internazionali, eliminando violentemente gli elementi coscienti ribelli, regolando sistematica­mente le nascite dei figli, forte di clientele e della supina acquiescenza di una folla di lavoratori, ai quali avrebbe accordato, a prezzo della loro libertà e della loro dignità, un relativo benessere, avrebbe ottenuto artificialmente di far convergere a proprio esclusivo vantaggio l’evoluzione economica che oggi si impone  come necessità”.

La sola cosa che si poteva affermare era l’avvento prossimo di una rivoluzione, ma non si poteva dire come sarebbe stata. Nell’attesa, e come preparazione della rivoluzione, occorreva rinsaldare la co­scienza socialista delle masse operaie, evitare l’imborghesimento dei quadri del partito e qualunque alleanza con altri partiti, non sopravvalutare l’importanza dell’azione parlamentare, rafforzare la lotta di classe tralasciando di incorporare le classi medie ormai prossime a morire, lottare contro ogni forma di opportunismo politico e ba­sarsi esclusivamente sulla forza del proleta­riato. Il partito socialista doveva es­sere consapevole di portare il vessillo di un diritto nuovo, che poteva realizzarsi solo con la distruzione totale della società.

L’accoglienza dello scritto da parte del PSI fu fredda: “Pubblicato nel 1897 quando, dopo il  Congresso socialista  italiano di  Firenze, l’idea dell’alleanza elettorale coi cosiddetti partiti affini aveva acquistato largo favore ed era caldeggiata da molti dei nostri migliori, quest’opuscolo non solo non ebbe fortuna, ma  i giornali  del Partito avendogli  negato l’onore della critica, passò sotto silenzio come se non fosse nato”.[9] Ebbe invece recensioni sulle riviste del movi­mento operaio tedesco e francese; quella sul  “Devenir Social[10] colse la compresenza di elementi evoluzionistici spenceriani e di una dialettica che,  senza  aver  assimilato la  lezione marxista,  spinta da esigenze di ana­lisi nuove, tendeva a scavalcarla per adeguarsi ad una realtà storica più complessa di quella in cui si erano  trovati  Marx  ed  Engels.

Georges Sorel in molte di queste idee vide delle conferme delle sue e su altre meditò fino a farle proprie. Allora fu l’impostazione etica del socialismo che più di tutto lo colpì: “È da dispiacersi molto che Lerda non abbia sviluppato più ampiamente questa teoria, la cui importanza filosofica non sfugge a nessuno. L’autore italiano trae, infatti, dalla concezione morale del socialismo dei principi che non si trovereb­bero facilmente per altra via. L’interesse e l’originalità delle teo­rie affrontate da Lerda sono grandissime; c’è da sperare che l’autore si deciderà, un giorno, a darne una esposizione completa e originale[11]

I due concetti fondamentali fatti propri da Sorel furono un’interpretazione del materialismo storico non dogmatica ma aperta alla rivalutazione degli elementi mo­rali e intellettuali, e la riaffermazione del principio della lotta di classe intesa come ferrea opposizione del proletariato alla borghesia oltre che netta distinzione del movimento socialista dagli altri partiti favoriti dall’avanzare del parlamentarismo. E se, sullo scorcio del secolo, fu sul primo di questi concetti che Sorel soprattutto si soffermò, con i primi anni del novecento, procedendo verso la sua teorizzazione sindacalista, affermò con sempre maggior vigore anche il secondo.

La recensione di Sorel dimostra come, oltre alla influenza esercitata su di lui dai primi scritti crociani sul marxismo e prima di fare il suo incontro nel 1897 con quelli di Saverio Merlino, lo scritto che allora più lo colpì fu quello di Lerda.

Su « Le Devenir Social »[12], analizzando per i lettori francesi la nascita e sviluppo del socialismo in Italia, Lerda disse con orgoglio della classe operaia italiana: «Elle est disciplinée, mais elle discute; elle a repoussé le  dogme de l’autorité que lui avait inculqué la classe bourgeoise, et elle n’agit qu’après s’ ètre decidée elle-mème, quelles que soient les atfirmations de ses chefs». Egli concepiva l’organizzazione operaia come spontaneità consapevole in una moralità socialista metastorica, palingenesi risolutrice dei confitti di classe al di là del movimento reale della storia[13].

La polemica con Bernstein (1897)

Il saggio “Il socialismo e la sua tattica” ebbe una coda nella polemica che egli ebbe nel 1897 con Bernstein.[14] Ancora nel 1925 Paul Froelich, scrivendo l’introduzione alle opere di Rosa Luxemburg cu­rate da Clara Zetkin e Adolf Warsky,[15] ricordò Giovanni Lerda come  uno dei socialisti con cui Bernstein entrò in polemica nel periodo in cui difendeva l’ortodossia marxi­sta.

Quando il saggio di Leda fu pubblicato Bernstein, che godeva con Kautsky del prestigio di depositario del marxismo, attraversava quel travaglio ideologico che lo portò ad essere l’eretico per antonomasia della Seconda Internazionale. Negli anni 1896-’98 entrò in contatto con i fabiani inglesi e scrisse sulla “Neue Zeit” la serie di saggi “Probleme der Sozialismus” che costituirono il primo nucleo delle “Voraussetzungen des Sozialismus” che il Congresso di Hannover scomunicò nel 1899.

Gli articoli “Klassenkampf und Kompromiss” [16] con cui Bernstein rispose polemicamente al Lerda e “Die Theorie der Zusammenbruchs und der Kolonialpolitik”, con cui replicò all’accusa di Belfor Bax di aver messo in dubbio la teoria degli scopi finali del socialismo[17] costituirono la prima rivelazione dell’eresia di Bernstein.

Nella polemica, invece di confrontarsi l’ortodosso Bernstein col deviazionista Lerda, si verificò un capovolgimento per cui fu Lerda ad esprimere un contenuto intransigente e rivoluzionario, trovando nell’antago­nista un revisionista che smantellava la sua costruzione teorica con la tecnica freddezza della dialettica formale.

Bernstein evitò di distinguere nella sovrastruttura mitologica concettuale del suo interlocutore le carenze speculative dalla parte genui­namente anche se confusamente rivoluzionaria. La precarietà del pensiero di Lerda lo solleticò a formulazioni teoriche che sviluppavano gli spunti evo­luzionisti-riformisti dell’apparato culturale di Lerda possi­bili di sviluppi teorici gradualistici, benchè l’accento ideologico fosse combattivamente intransigente.

Lerda sosteneva che lo sviluppo di una società è simile a quello dell’organismo biologico: come un animale o una pianta raggiungono la massima efficienza e la più alta potenza se le loro forze componenti vitali mantengono una funzionale compattezza nei confronti degli elementi estranei, così il movi­mento socialista potrà raggiungere la sua più grande forza se riuscirà a mantenersi rigorosamente refrattario all’introduzione nel suo corpo di elementi estranei che potrebbero innaturalmente e fatalmente accele­rare la sua crescita e decomposizione e quindi anticipare la sua estinzione come organismo autonomo. Per mantenere tale refrattarietà è necessaria l’oculata sor­veglianza della guida del Partito che tenga desta l’anima rivoluzionaria delle masse impedendo loro l’equivoco tra fittizio benessere economico e reale progresso socialista.

Bernstein fondò la sua polemica sulle ana­logie tra gli sviluppi storici della società e l’evoluzione degli organismi naturali, tra le fasi progressive delle classi sfruttate e gli adattamenti all’ambiente delle specie vegetali ed animali. La sua tecnica polemica consisteva nell’ironizzare sulle affermazioni senza respin­gerle, inverandole nelle formulazioni revisioniste del suo “Lotta di classe e compromesso”, che può considerarsi lo sviluppo unilaterale della parte “transigente” del pensiero del Lerda.

Dopo aver concesso la validità del parallelo tra organismo biologico e società, di cui aveva negato all’ini­zio la liceità, per avvalorare la sua tesi del compromesso contrapposta a quella dell’intransigenza, Bernstein affermò: «Ma anche se non si  potesse dedurre dalla storia e della natura alcuna analogia o argomento per il compromesso, il discorso di Lerda ci guadagnerebbe ben poco. Poiché appena egli   accenna alla  questione  delle  leggi di sviluppo della società umana, si rivolge subito contro “quelli che interpretano il materialismo nella sua forma più angusta”. Noi  supponiamo che  voglia  dire  “nella  sua  forma più estrema”. E rinfaccia loro che “forza e materia, quando si sono elevate a consapevolezza, hanno le  proprie leggi che,  pur  in  accordo con le leggi generali,  possono tuttavia modificarne gli effetti”. E continua dicendo che  “date  le  condizioni puramente economiche  della  trasformazione sociale perseguita dai socialisti, non è ancora data quest’ultima, ma che ad esse dovrebbero aggiungersi premesse intellettuali e morali”. In altri termini non sarebbe impossibile che si   adempisse un mutamento dell’ordine sociale, ma in una forma essenzialmente diversa  da  quella che deve essere perseguita dalla socialdemocrazia. Quest’ultimo è un pensiero del  tutto giusto che non perderebbe nulla del suo peso se si  aggiungesse che in un tale  sviluppo,  anche  se  soltanto  temporaneo, la preponderanza dei fattori economici spingerebbe pur sempre necessariamente ai fini perseguiti dalla socialdemocrazia»[18].

Le “premesse intellettuali e morali” che per Lerda possono consapevolmente modificare   lo sviluppo della trasformazione sociale, per Bernstein sono una pura sovrastrut­tura   formale che nulla aggiungerebbe al realizzarsi di una tras­formazione socio-economica.  Bernstein non afferma un inte­grale automatismo dei processi economici, la cui discutibilità si propone di affrontare nei suoi “Problemi del socialismo”; per lui i principi devono essere  intrinseci e politici, forza motrice integrata nell’assetto «rea­listico» e dinamico delle forze politiche esistenti. In tal senso le colla­borazioni e i compromessi con la borghesia, che si avviava a teorizzare, costituiscono uno strumento di direzione ideologica che garantisce una concreta accelera­zione: «economia di tempo e di forza» dei processi di trasformazione storica di una società.

Con ciò veniva abbandonata ogni prospettiva d’iniziativa autonoma di classe che muova aIl’attacco dell’assetto sociale antagonistico, mettendolo in discussione radicalmente nelle sue fondamenta. Il determinismo si ripresentava sotto le spoglie di una subordinazione al capitalismo, fittiziamente animate da quegli ideali  della conciliazione di classe in vista di una morale universale che avrebbero costituito il neo­kantismo del Bernstein.

Nell’accusare di astrat­tezza la normatività etica, la «intransigenza» suggerita dal Lerda al movimento socialista, e la sua fissazione pedagogica di formatore di masse, fino a schernirlo quale portabandiera che «corre molto attorno, ma fa assai poco», Bernstein sorvola sul carattere demistificatorio del formarsi di una coscienza di classe delle masse che “consente alla classe operaia il rifiuto della adesione acritica alla storia e quindi alle interpretazioni «realistico economistiche» che i detentori del potere danno a giustificazione del «loro» assetto sociale[19].

Secondo Bern­stein «Da diversi accenni del suo articolo si deve dedurre che Lerda ritiene la lotta della classe lavoratrice quale pura lotta di classe. Ma questo è un grosso errore. Per fare un esempio: un sindacato, in quanto tale, conduce sempre in modo mediato una parte della lotta della classe lavoratrice, in modo immediato rappresenta l’interesse particolare di un settore del proletariato borghese e un compromesso con quest’ultimo gli si addice perfettamente»[20]. Fu questa una delle prime af­fermazioni integraliste che egli  formulava contro la valorizzazione del momento soggettivo della lotta  di  classe, la parte più acutamente intuitiva del saggio del Lerda, e che la Luxemburg così gli contestò  «Secondo la concezione corrente il significato socialista della lotta sindacale  e politica consiste  in  questo: che essa prepara il proletariato, e cioè il  fattore soggettivo della trasformazione socialista, alla sua realizzazione. Secondo Bernstein consiste in ciò: che la lotta sindacale e politica deve limitare in modo graduale lo sfruttamento capitalista, sottrarre alla società capitalista sempre più il suo carattere capitalistico e darle quello socialista, in una parola deve attuare la trasformazione sociale in senso oggettivo»[21].   Due anni dopo, nelle sue “Premesse del socialismo” Bernstein, che aveva  rimproverato  l’automatismo economico  del   Lerda  e ripreso la  sua ingenuità  che vedeva  nel  latente  opportunismo parlamentaristico e carrieristico dei partiti  socialisti la degradazione della  “idea” e dei “principi”  così si espresse «il motivo economico oggi si presenta libero, mentre prima era rivestito di rapporti di forza e di ideologie d’ogni tipo. La società moderna è rispetto alle società precedenti assai più ricca di ideologia non determinata dall’ economia e dalla natura  agente come  forza  economica o meglio,  per non dare adito ad alcun equivoco,  il  livello oggi  raggiunto dallo  sviluppo  economico  lascia  ai   fattori   ideologici e in particolare a quelli etici un margine d’autonomia più grande che in passato[22]

Per controbattere queste «sensazio­nali» affermazioni Kautsky scrisse nel 1899 il pamphlet “Bernstein e il programma socialdemocratico”[23] e Rosa Luxemburg nella sua recensione puntualizzò: «Bernstein deve, almeno per salvare nella forma il programma socialista, rifugiarsi in una costruzione idealistica collocata al di là dello sviluppo economico e trasformare il socialismo stesso da una determinata fase storica dello sviluppo sociale in un “Principio” astratto»[24] “ontologizzando” l’ideologia sociali­sta in misura non molto diversa da quella di Lerda.

Lerda dopo la risposta conclusiva a Bernstein[25] sviluppò gli elementi di latente gradualismo della sua dottrina sui Sozialistische Monatshefte, organo teorico ufficiale del revisionismo: nel 1898 il saggio Pessimismo e Storicismo [26] e nel 1900 Il significato della razza per la civiltà[27].

In ambedue dilatò sempre più il primo elemento della sua dicotomia evoluzione-rivoluzione fino a ridurre i compiti dei partiti socialisti a quelli di una pedagogia antropologica, dello sviluppo più funzionale dei «centri nervosi» delle masse e della loro coscienza ridotta ad elemento di considerazione biogenetica[28].

Lo scritto che aveva dato luogo alla polemica con Bernstein fu tradotto nel 1902.[29] L’introduzione che vi premise risente dell’involu­zione riformista che lo indusse ad accentuare le posizioni economiciste-deterministe, fino a dissociare il socialismo dal­le «teorie di Marx» e «il movimento ascendente delle classi inferiori» dalle «disquisizioni accademiche»: “II socialismo italiano si è certo anche inspirato al   pensiero  poderoso del  grande  tedesco ma, sia la larga  e meno dogmatica  natura  del  nostro  spirito  nazionale,  sia  la  ripugnanza per le analisi   troppo  sottili  ed  unilaterali,  fatto sta che l’opera di  Marx rimase patrimonio di  studio agli scienziati, ma  non influì  nella  misura  che  molti  credono,  a  costituire  il  patrimonio  del nostro  pensiero  socialista . Ciò  significa   in   lingua  povera  che il socialismo non sta tutto e sta al di fuori delle teorie di Marx, e che per essere socialisti non è proprio necessario di essere marxisti…..In Italia l’unità del  Partito  non   può  essere  scossa   appunto  perché  le  finalità  del   socialismo  sono  accettate   in   teoria,   semplicemente   come   la risultante  probabile  e   non   bene   determinata   di   una   tendenza   nuova e reale che si produce nella società moderna,  in  forza  di cause economiche e di  ragioni  d’indole  materiale e morale;   perché  l’azione  socialista  nel  suo  complesso,  ed   indipendentemente  dagli   speciali   problemi teorici e dalle disquisizioni  accademiche,  si  afferma con  un  movimento  ascendente delle classi inferiori diretto alla formazione di quegli elementi ed  alla conquista di  quelle attività  funzionali  che  renderanno  possibile «una trasformazione profonda di tutto il meccanismo sociale»[30].

Esilio svizzero (1898-99). Attività all’estero

Di fronte alla stretta reazionaria del ministero Pelloux, per sottrarsi all’arre­sto emigrò clandestinamente in Svizzera nel maggio 1898[31] ritornando nell’apri­le dell’anno dopo.

Le relazioni di collaborazione col movimento operaio estero che instau­rò come esule politico, propagandista e organizzatore nel mondo dell’emigrazione, corrispondente di riviste socialiste straniere, diedero alla sua attività  un aspetto di modernità, lontana dal provincialismo che caratterizzò l’apostolato socialista delle origini, e lo resero attento ai problemi della politica estera, al colonialismo e al pericolo di una guerra europea, al dibattito teorico del movimento socialista internazionale.

Erano anni difficili di crescita del movimento operaio euro­peo e nuovi imprevisti problemi di classe e di solidarietà si imponevano di fronte al fenomeno della emigrazione e del conseguente crumi­raggio di cui si rendevano responsabili gli emigranti sostituendo il lavoro dei loro compagni di diversa nazionalità. L’internazionalismo del movimento operaio era messo a dura prova e se ne rese conto Lerda in Svizzera e poi in Germania, dove fu invitato dalla Direzione berlinese della S.P.D. dopo il Congresso di Imola del 1902.[32]

La sua attività di propagandista nelle zone di transito alpino del flusso migratorio degli operai verso la Svizzera e la Germania, nel Trentino, sulle montagne del Friuli, dove si recava su slitte trainate da cani,[33] nella Svizzera dove si erano avute manifestazioni violente dell’insofferenza che la presenza di italiani «crumiri» destava nelle masse operaie dei cantoni tedeschi, era diretta soprat­tutto agli emigranti stagionali che tornavano nell’inverno e che si trovavano a lottare sia contro lo sfruttamento dei padroni stranieri, che contro l’ostilità dei compagni di lavoro svizzeri e tedeschi. Caldeggiò un Ufficio esecutivo centrale del Partito a tutela degli emigranti italiani all’estero.

Il suo invito alla solidarietà di classe da parte degli italiani verso i loro compagni svizzeri allorché questi ultimi passavano all’azione diretta contro il fronte padronale, si concludeva costantemente con l’appello ad un’azione coordinata nell’ambito delle organizzazioni politiche e sin­dacali in terra straniera, come nella Schweizerische sozialistische Partei italienischer Sprache, in cui si esercitava già da tempo[34] l’azione del Vergnanini.

Lo stesso appello di “solidarietà internazionalista ad un’altra giustizia” lo ripropose nel Baden dove si recò su invito della S.P.D. per fare un giro di un mese e mezzo tra gli operai italiani emigrati come ad Amburgo dove i lavoratori italiani avevano subito violenze da parte dei loro compagni tedeschi, tanto che il governo italiano aveva posto il veto al  reclutamento di portuali da sostituire ai lavoratori in sciopero. Come accaduto nel Baden, il difficile lavoro di solidarizzazione che tentò di impostare tra le masse di quella città gli fruttò l’espulsione da parte delle autorità. Tornato a Genova, trasferì le sue esperienze nell’opuscolo Gli italiani all’estero, pubblicato nelle edizioni della Libreria Moderna del Ricci[35].

Nel 1907 la Direzione del partito lo incaricò di risolvere alcune controversie interne al socialismo del Canton Ticino[36], come aveva già fatto nel 1905 coi socialisti napoletani[37].

Il nuovo secolo e il “ferrismo” (1902-06)

Tra la sua forzata permanenza in Svizzera e il giro in Germania, la situazione in Italia era profondamente mutata in seguito all’azione concor­data di socialisti, radicali e repubblicani. Indette le elezioni politiche del giugno 1900 “II Martello” di Sestri Ponente annunciò la sua candidatura nel collegio di Voltri: l’aumentato prestigio di Lerda, circondato dal fascino dell’esilio da cui era appena rientrato, e la sua annosa instancabile attività di propagandista fecero sì che egli sfiorasse il successo come mai più gli sarebbe accaduto nelle successive candidature. Il suo avversario Pizzorni, in minoranza al primo scrutinio, fu poi eletto col ricorso a manovre illecite[38] nel  ballottaggio.

Rappresentante dal dicembre 1899 della Liguria al comitato nazionale del partito, al congresso nazionale del novembre 1900 a Roma fu eletto membro della Direzione, nella quale rimase fino al 1906, con Barbato, Alessandri, Lucci e Romeo Soldi.

Lerda, che fino ad allora aveva svolto una funzione di sollecitazione pedagogica, di popolarizzazione di concetti socialisti sui fogli locali e nei mille comizi in provincia, rivelò le sue carenze nella situazione di accresciuta  influen­za del PSI, che si trovava ora a muoversi non più solo in senso “tattico”, ma al centro del nuovo corso instaurato dalla duttile politica di Giolitti. Corresponsabile nella direzione del Partito in un momento in cui l’apertura giolittiana aveva disorientato l’organizzazione operaia, che era sopravvissuta all’assalto reazionario irrigidendosi nella resistenza, non riuscì ad elaborare una linea politica più dinamica e realistica.

Rimase fisso ai «principii», alle parole d’ordine imperative che avevano salvaguardato il Partito nei tempi difficili e si trovò dalla parte dei «rivoluzionari». Di fronte era la frazione riformista, disposta ad una linea d’azione gradualistica di collaborazione con le forze democratiche che credeva di vedere nella borghesia; vicino a lui collaboratori scaltri, ma indubbiamente meno onesti, come Ferri, la cui ambiguità sedusse per un breve tempo  Lerda, che divenne dopo il suo trasferimento a Roma uno dei più assidui collaboratori della rivista “Il socialismo“.

Il primo scontro con l’ideologia riformista del PSI fu con Treves che lo accusò di sterile astrattezza o addirittura di “misticismo” rivolgendo il suo sar­casmo  contro la vocazione degli “apostoli e patrocinatori di miseri”[39]. Sull’ “Era Nuova” Lerda rispose che Treves, opponendosi a che più spazio fosse dedicato sull’Avanti! alla «educazione delle masse», aveva il grave torto di sottovalutare l’impor­tanza del ruolo che nel movimento operaio deve giocare la propaganda[40] .

Al congresso di Imola del settembre 1902 votò l’ordine del giorno presentato da Enrico Ferri, che coagulò la vasta opposizione, da Arturo Labriola a Rinaldo Rigola, al riformismo turatiano e fu relatore sull’organizza­zione politica sostenendo «l’indipendenza» del partito per la difesa della unità di classe.

Questo congresso, che segnò un’esperienza amara nella sua carriera politica, con la proposta di Turati di abolire a causa della sua inefficienza la Direzione, a cui Lerda era stato eletto dal precedente congresso, dimostrò il disorientamento ideologico del Partito e denunziò con la vittoria di Enrico Ferri il carattere illusorio e sovrastrutturale delle differenziazioni ideologiche.

La sua permanenza genovese si concluse alla fine del 1902 con il trasferimento a Roma, dove fu tra i più assidui collaboratori e, dal dicembre 1903, redattore capo della rivista di Ferri “Il Socialismo” [41] dove dedicò molta attenzione alle esperienze straniere e ai problemi di legislazione sociale. In collaborazione con la moglie curò soprattutto la rubrica dedicata alla stampa e alla pubblicistica del movimento operaio straniero, con un particolare interesse verso alcuni aspetti dell’industrializza­zione, come la sopravvivenza di forme di lavoro a domicilio e di sfrut­tamento del lavoro minorile, l’educazione scientifica, la polemica antiprotezionista riguardo alla Svizzera e alla crisi industriale in Inghilterra.

Intuendo la tendenza alla ricomposizione di un blocco unitario delle forze borghesi in funzione antisocialista, sottolineò come la legislazione sociale fosse una politica paternalista comune alle classi dirigenti dei paesi dove esisteva un forte movimento operaio, e come intorno ad essa andasse ricomponendosi l’«antica alleanza» tra borghesia e Chiesa che la rivoluzione francese aveva scosso.

L’adesione al ferrismo fu di impronta moralistica, prodotto di quel pedagogismo delle masse al quale costantemente si richiamò. In tal senso interpretò le rumorose campagne di stampa di Ferri, come nel processo Bertolo[42]  e ne apprezzò i costanti richiami alla propaganda.

In rap­presentanza del gruppo di Ferri, uscito  vinci­tore dal congresso di Bologna dell’aprile 1904, fu confermato nella direzione nazionale. Con la dispersione del­la composita maggioranza ferriana-sindacalrivoluzionaria e la formazione di una corrente centrista maggioritaria denominata “inte­gralista” con Oddino Morgari e Francesco Paoloni, si fece promotore di un nuovo raggruppamento di «intransigenti» che il repubblicano Napoleone Colajanni definì «lerdismo»[43]

La frazione intransigente (1906-12)

Il primo nucleo della frazione si formò al congresso di Roma del 1906, dove la mozione da lui presentata, che si proponeva un rilancio dell’anti-ministerialismo e la riconferma del principio della lotta di classe, ottenne solo 1.161 voti su 34.000; al congresso di Firenze del 1908 la corrente si consolidò ottenendone 5.387, pari 19%. Al congresso di Milano del 1910 migliorò le posizioni col 24% dei voti; nel 1911 a Modena conseguì 8.600 voti su 21.000 e infine nel 1912 a Reggio Emilia con 12.550 voti superò le due mozioni riformiste che ottennero complessivamente meno di 8.000 voti (senza contare i riformisti di destra già usciti). Da notare che fu essenziale per la vittoria il contributo della federazione forlivese guidata da Mussolini il cui ruolo, marginale fino ad allora, con la nomina alla direzione dell’”Avanti!” assume statura nazionale.

In diverse fasi di aggregazione e sviluppo coagulò componenti e personalità  radicate nella tradizione socialista specialmente di derivazione “ferriana” e integralista assieme a esponenti provenienti dal Partito Operaio diffuso a Milano e in altre province lombarde e piemontesi nel decennio 1880-90, come Costantino Lazzari e Osvaldo Gnocchi-Viani; a loro si venne aggiungendo la Federazione giovanile ricostituita dopo la scissione sindacalista-rivoluzionaria del 1907 sotto la guida di Arturo Vella, al cui interno iniziava a svilupparsi la generazione più giovane dei Bordiga e dei Tasca che aveva fatto il suo ingresso nelle fila del socialismo tra il 1911 e il 1914  in pieno clima antiriformista e antipositivista

Al congresso di Milano del 1910 fu promosso un coordinamento, ma il passaggio ad uno stadio superiore con la costituzione in frazione avvenne con la pubblicazione il 1. maggio 1911 dell’organo ufficiale “La Soffitta”, la nomina dei responsabili regionali (agosto) e del Comitato Centrale (novembre).

Nel marzo 1911 Giolit­ti, che si presentò con un programma democratico imperniato sul suffragio universale e sulla gestione nazionale delle assicurazioni, ma tenendo segre­ta l’intenzione di andare in Libia, incontrò Bissolati, che rifiutò di entrare nel ministero non sulla base dei principi, ma perché “non credeva che il Partito socialista fosse maturo per partecipare al governo” Il Gruppo Parlamentare Socialista votò comunque la fiducia al governo.

All’indomani di quel voto apparve “La Soffitta”[44] che riprendeva polemicamente nel titolo l’affermazione di Giolitti sul preteso accantonamento del marxismo da parte del socialismo italiano[45] Questo l’editoriale di Lerda sul primo numero: “Noi abbiamo desiderato sempre un partito radicale in Italia, e ci saremmo acconciati e ci acconceremo, tanto meglio, a veder sorgere un partito magari radico-socialista; ma ciò che crediamo esiziale agli interessi del partito ed alla ascensione del proletariato è la partecipazione di uomini nostri al potere; è il vincolo, la soggezione, la depressione anzi delle residue attività combattive, inevitabile quando di un potere che non è, che non può essere nostro si devono subire le vicissitudini, le alternative e, peggio an­cora, le esigenze preponderanti di interessi che, per quanto rispettabili, non collimano sovente, sovente sono addirittura antitetici a quelli del proleta­riato[46]. Constatava nel partito “depressione, sconforto, smarrimento” e per la chiarezza auspicava che Bissolati uscisse dal partito e collaborasse con Giolitti

Gnocchi Viani a sua volta affermava che “i rivoluzionari intransigen­ti vogliono essere i Puritani del Socialismo[47]

Per l’an­tico e coerente intransigentismo e antiriformismo, per la popolarità conquistata nell’attività di propagandista e organiz­zatore, per il fatto di essere uno dei pochi pubblicisti che vantasse anche rapporti con il movimento operaio estero, Lerda ricoprì un ruolo di primo piano nell’orienta­mento e nell’aggregazione di quelle forze che, in corrispondenza della crisi degli equilibri giolittiani, nel PSI ponevano esigenze politiche nuove.

Partiva però da posizioni appartenenti a momenti in larga misura storicamente superati, che  le impellenti esigenze nella lotta interna al PSI, la crisi della direzione riformista e la scarsa preparazione culturale e politica degli esponenti della frazione intransigente, lasciavano in una sorta di ambiguità.

La polemica contro i riformisti di destra e gli organiz­zatori sindacali che auspicavano un “partito del lavoro” apolitico, la rivendicazione di una dire­zione centralizzata ed omogenea, il recupero del marxismo, il tentativo di dare “unità d’indirizzo ed una guida ed uno schema d’azione a tutto il movimento operaio” in contrapposizione “al socialismo pratico, frammentario, localista, corporativista e parla­mentare dei riformisti“, erano esigenze che emergevano nel processo di crescita del socialismo italiano.

Lerda fu un censore delle pose declamatorie, dell’improvvisazione, del verbalismo agitatorio di tanti suoi compagni di frazione e tese sem­pre  a ricercare le ragioni storiche ed economiche dei fenomeni, ma poi non seppe indicare al partito un obiettivo che andasse al di là della direttiva di «mantenere alta la forza educativa e direttrice dell’idea».

Il recupero del marxismo si tradusse nella riaffermazione polemica del valore prioritario della propaganda e dell’educazione delle masse sostenuto fin dagli anni torinesi.

Particolarmente marcata fu la difesa del ruolo del partito, ispirata dalla ammirazione per il modello tedesco. Fu sul tema della disciplina e dell’organizzazione del partito che si battè con particolare insistenza nel dibattito avviatosi nel 1911-12 nella sinistra socialista.

Fra un congresso e l’altro la frazione aveva lavorato alla sua organizzazione e ora che disponeva di una rete organizzativa, si apprestava a conquistare il partito sulla linea del “distacco assoluto e reciso dai riformisti

Appaiono in gestazione gli elementi ideologici e psicologici del  massimalismo, che prenderà il sopravvento a Reggio Emilia con l’apporto temporaneo del “mussolinismo”. Prese rilievo il motivo del “socialismo che non muore” in opposizione alle dichiarazioni di morte presunta del marxismo ma anche in contrapposizione idealistica alla crisi teorica del socia­lismo, che gli intransigenti non ammettevano.

L’accento posto sulla classe fu l’elemento di fondo degli intransigenti, che cercarono di interpretare il risveglio proletario, di stimolarlo e rappresentarlo, distinguendosi in ciò  dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola dei primi del ‘900  che abbandonarono il partito e non si posero seriamente l’obbiettivo della sua conquista.

Se l’intransigentismo respingeva “la semplice tutela degli interessi” delle masse e la teoria soreliana dello sciopero generale del sindacalismo rivoluzionario, all’integralismo di Oddino Morgari e Francesco Paoloni rimproverava di ammettere, come i riformisti, la possibilità di collaborazione con i governi borghesi. Era la riaffermazione della priorità «dell’educazione socialista delle masse» fondata sulla considerazione delle «arretrate condizioni attuali del proletariato e della inconsapevolezza in cui esso si trova delle grandi leggi che dominano da storia».

Lerda era comunque consapevole dei limiti della corrente tanto da scrivere che “la frazione che finora ha assunto atteggiamenti solo negativi, non ha un programma nè un pensiero che possa guidare se domani dovrà assumere il potere”[48]; infatti la conquista della direzione del partito al congresso di Reggio Emilia nel 1912 non modificò l’azione del Gruppo Parlamentare rimasto in mano ai riformisti, i quali rilanciarono all’indomani della sconfitta l’iniziativa politica tanto nella Confederazione Generale del Lavoro quanto nella cooperazione e nelle amministrazioni locali, dove disponevano di un personale più qualificato di quello dei loro competitori di partito.

Gli intransigenti che avevano conquistato la guida del partito si sforzarono di varare una serie di riforme organizzative che trasformassero il PSI: la creazione di federazioni provinciali e regionali fu uno dei terreni fondamentali di questa azione di rinnovamento. Tuttavia, nonostante gli sforzi per smantellare il sistema delle autonomie…(…)…non riuscirono a capovolgere il portato di una tradizione ormai profondamente radicata[49]. Questo tentativo di ristrutturazione del partito restò in larga parte inoperante per la mancanza di funzionari, le difficoltà finanziarie e le resistenze locali, e il PSI restò un partito centro-settentrionale.

Proseguiva intanto la sua instancabile opera di propagandista, testimoniato dalle segnalazioni della polizia: nell’aprile del 1907 tiene una serie di conferenze nel Ponente ligure[50], a giugno alla Società A.Saffi di Genova, a settembre a Siena e a Castelnuovo Garfagnana. Nel novembre 1909 compie un giro di propaganda in provincia di Brescia[51]

Da Modena a Reggio Emilia (1911-12)

L’imperialismo fece la sua comparsa in Italia con l’impresa libica, che pose al PSI il problema dell’atteggiamento nei confronti del governo Giolitti e rappresentò un momento di coagulo del massimalismo.

Nel marzo 1911 Giolit­ti si presentò alla Camera con un programma democratico tenendo segre­ta l’intenzione di andare in Libia.[52]  Il Gruppo Parlamentare socialista votò la fiducia al governo che avrebbe trascinato l’Italia in guerra con la Turchia e il Paese si trovò in guerra senza dibattito, verificando  i limiti del Parlamento nello Statuto albertino.

La frazione intransigente uscì tempestivamente il 1° ottobre con un combattivo manifesto “Contro l’avventura di Tripoli” da cui emergono i limiti dell’analisi delle forze imperialiste e quindi anche della linea di lotta proposta. ll manifesto insisteva sullo “sperpero di denaro“, l’“inorgoglimento del nazionalismo“, il pe­ricolo di “altre imprese dilapidatrici“, il sacrificio di “sangue e di vite proletarie“, la “minaccia di più esperta e pericolosa reazione” aggiornando su posizioni combattive i motivi ideologici e sen­timentali comuni ai socialisti non revisionisti e concludendo:”tutto ciò il socialismo non può arrestare in un attimo, non può impe­dire in un giorno, non può respingere per opportunismo. Tutto ciò efficace­mente e vittoriosamente si combatte rimanendo sempre nella propria diret­tiva politica”. Richiamava infine l’attenzione sul fatto che l’esercito era “composto di figli di proletari” e invi­tava a tutte quelle “manifestazioni che il proletariato vorrà fare a tutela dei propri interessi e a dimostrazione del fatale antagonismo fra esso e la borghesia[53]

Il Congresso di Modena (15-18 ottobre 1911) si tenne pochi giorni dopo l’inizio della guerra e fu anticipato di un anno (i congressi si convocavano ogni due anni e quello precedente si era tenuto nel 1910 a Milano) per discutere sul “ministerialismo” di Bissolati e dei riformisti di destra.

Lerda intervenne “sottolineando la necessità per il PSI di «non cessare di ritenersi il rappresentante dì una dottrina che ha per postulato la necessità di un radicale e profondo mutamento della società intera» e di preoccuparsi in primo luogo dell’educazione politica delle masse. In polemica con Bussi disse che la genesi dell’impresa tripolina erano circostanze lungamente maturate  e che non poteva meravigliare coloro che non si erano mai illusi di fare diventare socialista un governo borghese. Criticò la politica priva di mordente ideologico svolta dal Partito nelle organizzazioni sindacali e cooperative e controbattè la teoria secondo cui l’appoggio socialista a Giolitti era reso necessario  dall’esigenza di ottenere il suffragio elettorale universale e la Cassa Pensioni. Rimanendo fuori si poteva ottenere molto di più che «facendo gli intrusi, gli accaparratori, con scapito della dignità del Partito, della propaganda e del valore morale ed effettivo di tutta l’azione socialista sul Paese fra le masse». Senza dubbio era possibile ottenere riforme utili mediante l’attività parlamentare. Ma era cessata la partecipazione delle masse a tali riforme, si voleva che esse lasciassero traccia e servissero al miglioramento dell’uomo”.[54]

Dopo il congresso di Modena e in vista della conquista della maggioranza Lerda, che confessò di non avere le capacità e le attitudini di un capo, aprì[55] una discussione sulla piattaforma ideale e programma­tica della frazione che fu una tappa significativa nella formazione del gruppo dirigente del massimalismo d’anteguerra.

Egli affermò di non cre­dere ai dogmi ed alle formule, neppure a quelle del cosiddetto socialismo scientifico: “credo alla vita che è movimento” respingendo però l’empirismo dei riformisti ed ogni forma di dogmatismo: “sono un solitario che in molte questioni ed apprezza­menti sente diversamente e dai rivoluzionari e dai riformisti“. Partito dalla constatazione che “la frazione…ha un programma” solo negativo, e dopo aver premesso che si trattava non tanto delle “esi­genze della dottrina e della scienza” quanto di quelle “della disciplina, per la coordinazione del lavoro e per la psicologia delle masse“, la sua proposta aveva lo scopo pragmatico di dare al partito “una guida e uno schema dell’azione”.  Di contro al “socialismo pratico, frammentario, localista, corporativista e parlamentare” dei riformisti rivendicò la “necessità di una revisione” già invocata al congresso di Milano.

Si trattava di restituire al Partito socialista quella “unità di indirizzo” che il riformismo, aveva distrutto anche come “unità di movimento tendenziale” La discussione e l’elaborazione di un programma della sinistra rivolu­zionaria avrebbe dovuto innanzitutto procurare l’unità della frazione e garantire in un secondo tempo la “integrazione del pensiero del Partito socialista e del movimento proletario in una unità non infe­conda fattrice ed educatrice.”

In risposta Arturo Vella ammonì i compagni di “non cacciare anche dalla soffitta quel Carlo Marx che, volere o no, è l’unico che può dare a noi la fiaccola rischiaratrice per procedere innanzi nella buia notte della storia.[56]  Vedeva assai bene che si trattava di contrapporre “all’empi­rismo volgare dei riformisti, al pragmatismo inconsapevole degli integralisti ed al neoidealismo dei malcontenti una netta e salda concezio­ne del divenire socialista” che non poteva non essere il marxismo. Quanto al programma di Genova, esso doveva essere ripreso in mano, come bandiera, dalla frazione rivoluzionaria. Obbiettivo fondamentale della frazione, dunque, “ricostituire gagliardamente i quadri di un partito veramente di classe che deve poggiare l’azione sua sullo spirito del marxismo che va dal Mani­festo dei comunisti al programma di Genova (adattamento italiano del programma di Erfurt)”.

Vella assunse una posizione di difesa ideologica rispetto agli atteggiamenti oscillanti fra il tradizionale revisionismo e il nuovo pragmatismo che fermentavano in forme più o meno consapevoli e contrappose alle idee di Lerda le posizioni di Costantino Lazzari.[57] Infine promise una serie di articoli per profilare i “lineamenti per un programma di attuale azione per la nostra frazione, programma che chiamerei massimalista per la sua derivazione dai massimi principi”,

Già all’in­domani del congresso l’organo della frazione constatò i progressi nei confronti dei riformisti e delle posizioni intermedie e predispose gli animi alla conquista della  direzione del Partito. Dal Congresso di Firenze del 1908 a quello di Modena del 1911 la forza intermedia degli in­tegralisti divenne irrilevante e i gruppi riformisti erano scesi da 18 mila voti a 11 mila, mentre gli intransigenti da 5 mila erano quasi raddoppiati, sicché sull’onda degli avvenimenti, non fu difficile conquistare la maggioranza nelle federazioni principali, e andare al Congresso di Reggio Emilia con la vittoria già assicurata.

Alla conquista giovò anche quell’atteggiamento di combattività lo­cale, a contatto con la base, che i rivoluzionari tennero e che fu teorizzato da Serrati poco prima del congresso vittorioso. Preso dallo sconforto per la visione della “sfrenata vita borghese-capitalistica” che imperava in Italia, in quell’angoscioso “quarto d’ora di affarismo,” Serrati peccò di pessimismo e finì col ritenere che il Partito non potesse risollevarsi che il giorno in cui la borghesia si fosse spinta “fino al collo” nella speculazione e ne fosse soffocata. Intanto era possibile soltanto una via di ripresa e di riscossa: “Vado diventando localista perché mentre gli organi dirigenti del par­tito hanno dato il peggiore degli esempi e sono stati la pietra dello scandalo vi è invece fra le masse un terreno meravigliosamente fer­tile per la propaganda e la educazione socialista[58]

Al congresso di Reggio Emi­lia del 1912 Lerda si dichiarò a favore del­l’espulsione dal partito dei riformisti di destra filotripolini, ma auspicò una nuova mag­gioranza che includesse anche i riformisti di si­nistra (Modigliani) e presentò un ordine del giorno, approvato dal congresso, che pur affermando la ne­cessità di seguire il metodo intransigente e di presentare candidature socialiste in tutti i col­legi, lasciava alla Direzione la facoltà di autorizzare a votare nei ballottaggi per i candidati dei partiti affini.

All’ordine del gior­no presentato da Lerda era stato proposto di aggiungere quello di Francesco Ciccotti approvato al congresso regionale di Forlì, che escludeva «ogni alleanza coi partiti cosidetti affini, a primo scrutinio e in ballottaggio, nel campo politico e ammi­nistrativo», su cui si sviluppò la discussione interna alla frazione, riunitasi la sera del 6 lu­glio[59]. Lerda fece notare che la sua mozione sulla tattica elettorale esprimeva l’orientamento di tutta la frazione, meno le se­zioni romagnole, che in nome dell’unità invitò a ritirare il documento.

I romagnoli si impegnarono ad uniformarsi alla volontà della maggioranza che sarebbe emersa da una votazione la sera stessa e dopo una discussione[60], l’intransigenza nelle elezioni amministrative fu approvata con 35 voti contro 16, mentre l’intransigenza nei ballottaggi di quelle politiche ebbe 32 voti contro 19.

In una seconda riunione il giorno dopo, quan­do tutti i delegati avevano raggiunto Reggio, Elia Musatti chiese di ripetere la votazione, senza che ciò cambiasse il risultato. La prevedibile vittoria congressuale della frazione, ammonì Musatti, l’avrebbe posta in condizioni del tutto nuove: non si sa­rebbe più trattato di combattere su enunciazioni di principio, nella posizione privilegiata di chi sapeva di perdere, ma di affermare direttive che, per determinare il successo elettorale del partito, avreb­bero dovuto essere applicate in modo rigoroso, cosa non facile data la diseguale distribuzione delle forze del partito sul territorio nazio­nale e dati gli effetti imprevedibili della nuova legge sul suffragio al­largato, che rendeva difficile una soluzione univoca.

A fronte di 508 collegi elettorali il partito disponeva di un migliaio di sezioni: 900 da Roma in su, 78 da Roma in giù, isole comprese. Che cosa dovevano fare le 78 sezioni meridionali nei 201 collegi al di sotto di Roma? Porre candidature socialiste dappertutto, anche do­ve non esistevano sezioni? E nei moltissimi casi di ballottaggio che si sarebbero verificati là dove era possibile candidare un socialista ma non assicurarne l’elezione, e l’alternativa era tra ritirarsi e rimane­re battuti? Non era meglio concentrare le forze sul collegio della pro­vincia nella quale più facile si presentava la lotta? E in quale misura e prospettiva l’accesso al voto di nuovi strati proletari e popolari, in gran parte analfabeti, avrebbe modificato la situazione?

Il nodo della politica del par­tito nel meridione non fu sciolto nemmeno nella terza riunione, precedente la seduta congressuale pomeridia­na dell’8 luglio, in cui Mussolini chiese l’espulsione dei destri Bissolati, Cabrini, Bonomi e Podrecca per «determinati atti» e non per le loro idee politiche e in cui si discusse nuovamente sulla questione dei ballottaggi e delle elezioni amministrative. L’«Avanti!» riferì: «alla discussione molto animata, partecipano molti oratori, ma poiché l’ora è tarda, si rinvia ogni deliberazione a domani nel pomeriggio».

Se in sede di frazione i rivoluzionari avevano approvato la mozione Ciccotti, quando la mattina del 10 si giunse al dibattito in congresso fu proposto l’OdG Lerda, approvato senza votazione. La conclusione[61], che non era giustificata dai rapporti di forza, provocò la critica del riformista Nino Mazzoni: “Questo che doveva essere il Congresso della schiettezza crudele, che doveva risolversi nella più perfetta intransigenza, si trasforma in una intransigenza a pri­mo scrutinio, diritto della Direzione d’intervenire nei ballottaggi, e silenzio com­pleto sulle elezioni amministrative”[62]

Così Modigliani, che si era pronunciato per il diritto di intervento della Direzione anche nelle elezioni amministrative, prese atto con soddisfazione che aveva prevalso la «più blanda» delle due correnti in cui era divisa la frazione in­transigente, e concluse che la concezione riformista, pur sconfitta, si rivelava più rispondente al­la realtà e alle necessità del partito e al tempo stesso più audace e combattiva di quella vincente.

L’intervento di Mazzoni rivelò le divergenze tra gli intransigenti. Mussolini, per quanto invitato non prese la parola in questa fase.[63] Ciccotti negò che il suo OdG fosse orientato nel senso indicato da Mazzo­ni, e aggiunse che la mozione di Lerda, concernente solo l’indirizzo generale del partito, era quella ufficiale della frazione. Una volta affermata l’intransi­genza per le elezioni politiche era inutile ribadirla per le amministrative.

Lerda, dopo aver precisato di essere contrario ai blocchi, sottolineò la necessità di distinguere tra il campo amministrativo e quello prettamente politico, accennando ai numerosi comu­ni delle province meridionali, in cui il proletariato si trovava di fron­te le camorre, i clericali, ecc., e concluse affidando alla nuova Direzione il compito di impedire degenerazioni bloccarde.

A questo punto intervenne Giacinto Menotti Serrati, fautore dell’intransigenza assoluta, con una dichiarazione che stabi­liva a nome dell’intera frazione che la nuova Direzione doveva liquidare in tempi brevi i blocchi ancora esistenti.

A suscitare la reazione di Mazzoni fu che ancora una volta la questione della Massoneria era finita in coda nell’agenda del con­gresso. Mazzoni definì superficiale, moralistico e astratto l’approccio al proble­ma da parte del partito. Oltretutto non si teneva nel mini­mo conto il cambiamento che si era verificato nella politica della Massoneria che, da espressione di un vago anticlericalismo liberaleggian­te agli inizi del secolo, era diventata un vero e proprio partito politico tra gli altri, infiltrato nelle organizzazioni operaie (a comin­ciare da quelle a carattere economico, in cui più facile era coltivare piccole ambizione e vanità individuali) per svolgervi un’opera di me­diazione, culminata appunto nel popolarismo e nel bloccardismo[64].

Questa lezione proveniva da un riformista esperto, che dirigeva allora con Argentina Altobelli la Federterra, autore di numerose inchie­ste e relazioni sulle condizioni della classe lavoratrice nel Settentrio­ne, che nel corso delle polemiche post-congressuali definì la mozione Lerda un contrappeso all’ordine del giorno di Mussolini sui destri (Bissolati, Bonomi, Cabrini, Podrecca).

La formazione del Partito Socialista Riformista Italiano da parte di costoro costrinse la Direzione a definire con una cir­colare[65] il significato della lo­ro espulsione: si dovevano considerare espulsi an­che coloro che si rendevano solidali con i quattro deputati.

Ad evitare travisamenti e forzature l’editoriale non firmato “Concordi nell’azione” sull’Avanti! del 27 precisò che l’ordine del giorno Mussolini si era riferito ad atti specifici compiuti dagli espulsi e che «nessun pensiero, nessuna ten­denza, nessuna frazione» erano state coinvolte sia in esso, sia nelle delibere della Direzione55.  Ma lo stesso articolo, sostenendo che «l’ap­poggio ad indirizzi di governo» era stato dichiarato incompatibile con la permanenza nel partito dalla mozione Lerda, dava di questa un’interpretazione che lo stesso Mazzoni ritenne di dover subito contestare: “Opinione rispettabilissima che viene fissata per cauzionare una direttiva: ed alla quale noi ci dobbiamo sottomettere per dovere di disciplina. Ma “opinione” che noi abbiamo diritto di non condividere senza che ciò debba farci considerare esclusi dal Partito[66]. Questa precisazione mirava a salvaguardare l’attività e l’autonomia del Gruppo parlamentare socialista, che Mussolini dalla tribuna con­gressuale aveva stigmatizzato, dichiarandone esaurita la funzione. Mazzoni concluse dicendo che se i deputati socialisti non voleva­no limitarsi a essere una «minaccia de­corativa», ogni loro intervento implicava l’accet­tazione della schermaglia parlamentare che si determina nel gioco delle forze politiche, mentre un atteggiamento sistematica­mente negativo li avrebbe trasformati in altrettante mummie.

La nuova impostazione del lavoro organizzativo che Lerda propo­se doveva ristabilire le condizioni per un auten­tico partito operaio in cui alla «scienza borghese» dei delegati ai congressi, scelti perchè potevano permettersi le spese di viaggio, sempre pronti agli «interessi personali», subentrasse un lavoro rivolto alla base di «scienza socialista» o «filologia di Marx» con l’utilizzazione del denaro a disposizione del Partito.

Dopo l’approvazione dell’OdG antimassonico di Nino Mazzoni presentò le dimissioni dal Partito, che la presidenza del congresso considerò non avvenute. Nonostante ciò e  l’offerta della direzione dell’Avanti! che rifiutò, questo congresso rappresentò per lui l’inzio del tramonto.

In questo periodo si andò acco­stando ai riformisti di sinistra di Modigliani come dimostrava la tesi della necessità di dar vita ai blocchi nei piccoli comuni, e soprattutto la ricerca della costituzione di una maggioranza di centro, dopo l’espulsione dei bissolatiani. Del resto aveva dichiarato al congresso socialista piemontese del giugno 1912 che considerava l’intransigentismo come un fenomeno transitorio, valido fintantoché la propaganda e l’educazione non avesse­ro fatto uscire il proletariato «dalla sua condizione di inferiorità»[67]

Decisa, comunque, fu la sua opposi­zione al «mussolinismo».

L’impresa libica nel quadro dell’imperialismo italiano ed europeo

Lerda fu uno dei pochi socialisti italiani che, grazie alla conoscenza del tedesco, parteciparono ai dibattiti della Seconda Internazionale, introducendo nella stampa di partito tematiche  come quella della trasformazione del capitalismo in imperialismo, con i rischi di guerra mondiale insiti nella lotta per accaparrarsi le materie prime e gli sbocchi mercantili.

Se già nel 1893 sulla “Critica sociale” aveva fatto espli­cita professione di antimilitarismo, fu de­cisamente contrario alla guerra di Libia, in cui intravide un momento di svolta del­la politica estera giolittiana, giudicandola in parte il risultato dei processi di concentrazione industriale in atto nel paese e in par­te il tardivo tentativo  dell’Italia di inserirsi nelle competizioni capitalistiche internazionali. Al congresso di Reggio Emi­lia del 1912 si dichiarò perciò a favore dell’espulsione dal partito dei riformisti di destra filotripolini.

In una serie di lucidi articoli apparsi fra il 1911 e il 1912 sottolineò l’incapacità dei partiti socialisti della Seconda Internazionale di impedire quella guerra europea che gli sembrava sempre più inevitabile, ma da questa considerazione derivò solo la speranza che «il proletariato non si smarrisse ai fini della nuova, futura civiltà».

Il manifesto del Comitato centrale della Frazione,[68] che rivendicò solo al «socialismo non degenere, non viziato, non compromesso dalle arti governative nella direttiva della propria coscienza» il diritto di condannare l’impresa libica, oppose la concezione dottrinaria del socialismo senza accettare l’impo­stazione salveminiana e liberista dell’antitripolismo, che proponeva un criterio differenziato nella valutazione del colonialismo in rapporto al modello liberoscambista inglese, subita invece dai riformisti di sinistra, che nelle prese di posizione, negli articoli di stampa e nei comizi usarono le accuse di «tradimento» e «ingiustificata pazzia».

La guerra libica apparve agli intransigenti un’ulte­riore conferma dell’impossibilità di una collaborazione con la borghesia, e quindi come la testimonianza degli errori di indirizzo politico commessi dal riformismo nell’età giolittiana, e li portò a criticare sia l’opportunismo del gruppo bissolatiano che l’impostazione antitripolina di Treves e Turati e in genere tutte le prese di posizione «del­l’ultima ora».

Lerda al congresso di Modena accusò i riformisti di non capire che l’impresa libica era matu­rata lentamente e che aveva radici lontane.[69] Inserì l’impresa nella con­tinuità dello sviluppo storico del paese cogliendone le matrici economiche e quelle inerenti alla politica internazionale[70] nel quadro di un generale consolidamento a destra del potere della borghesia. Pertan­to la guerra libica non era attribuibile a fattori patologici ma era la logica di classe a portare la borghesia italiana a Tripoli nel quadro dei rapporti di forza interni che coglievano il movimento socialista in posizione difensiva o subalterna a seguito dell’indirizzo collaborazionista dei riformisti.

Mancava però un’analisi storica delle condizioni strutturali che avevano determinato la politica espansionistica dell’Italia, per cui l’indicazione della lotta al capitalismo finanziario o al nazionalismo appariva priva di riferimenti reali, quando addirit­tura non portava ad una valutazione positiva delle «virtù battagliere e conquistatrici della borghesia» perché avrebbero determinato nella classe operaia un maggior senso della propria autonomia[71].

Nel movimento socialista italiano gli intransigenti furono sostanzialmente assenti dal dibattito sul coloniali­smo e la questione tripolina[72] come evidenziò il disinteresse per una campagna di stampa contro il mito della terra promessa o la condotta militare-diplomatica, anche se interventi in questo senso non mancarono nella stampa locale (“La Conquista” di Bari, II “Grido del popolo” di Torino, “La lotta di classe” di Forlì). Non si operò alcun salto qualitativo rispetto al passato, e l’impresa libica apparve piuttosto come il momento di verifica delle vecchie posizioni, anticollaborazioniste e intransigenti.

Quando conquistarono la direzione del partito e dell’Avanti!, non modificarono la linea della campagna di stampa antitripolina tenuta dai riformisti, pur accentuando le note antigiolittiane e anticollaborazioniste. Sulla questione tripolina per l’insufficiente messa a fuoco del problema mancò anche l’omogeneità dei maggiori esponenti della corrente.

Lerda sulla Soffitta, partendo dal rifiuto della tesi riformista della guerra come parentesi, si fece promotore, nel quadro di un ripensamento generale sull’età giolittiana, di una attenta analisi della borghesia italiana nel primo decennio del secolo,

Lerda nel presentare un articolo di M.Terzaghi scrisse che «da solo valeva più delle migliaia di o.d.g. e di proteste con cui il PSI credeva forse di imporre il rientro dei soldati italiani dalla Libia» soprattutto per lo sforzo di illuminare le ragioni storiche e economiche dell’impresa con quei «criteri obiettivi la mancanza dei quali aveva fatto sì che l’opposizione socialista si fosse risolta finora in vani clamori»[73] .

L’autore accusò i riformisti di aver contribuito al consolidamento dell’espansionismo capitalistico colla «smobilitazione» del partito e l’offerta della «garanzia di tranquillità» attraverso una tregua sociale e il riassorbimento del mal­contento popolare, facendo risalire a Giolitti il merito del regime di libertà che non era che «un bisogno per la borghesia ai fini della sua espansione economica e del suo consolidamento patrimoniale». I succes­sivi «sdilinquimenti ministeriali» avrebbero indotto il PSI a credere che «il suo disarmo verso la borghesia fosse reciprocanza» se non addirittura che la borghesia avesse «abdicato alle sue finalità e a compiere il ciclo storico del suo ulteriore sviluppo». In realtà la borghesia non aveva mai disarmato, come dimostrato dal susseguirsi degli eccidi proletari e dall’alleanza con i clericali nelle elezioni del 1904, nonché i sintomi della potenza del capitalismo italiano (conversione della rendita, incremento dei depositi bancali, quota della rendita in borsa, riserve degli istituti di emissione, ecc.). Di fronte al processo di sviluppo e di rafforzamento della borghesia, di cui l’impresa libica era una tappa importante, il movimento operaio avrebbe dovuto non tanto occuparsi della questione tripolina, quanto piuttosto procedere ad una ristruttura­zione organizzativa e propagandistica, ed assumere tutte quelle iniziative che preparassero fin d’allora la resistenza «contro la invadenza guerrafondaia», perché la borghesia «reduce da Tripoli, imbaldanzita dalla vittoria» non trovasse la classe operaia indifesa. E ciò anche nella considerazione che già la magistratura «tornava sulle peste reazionarie di novantottesca memoria, che la stampa si faceva un giorno più dell’altro assertrice di un provvido restringimento dei freni, che la borghesia si imbaldanziva nei pubblici poteri, che le garanzie costituzionali tendevano ad essere allegramente livragate[74]».

La ricostruzione del Terzaghi, che restava quasi esclusivamente in un ambito finanziario senza una considerazione adeguata delle concentrazioni monopolistiche, era viziata da un anticollaborazionismo che considerava la borghesia come un blocco indifferenziato, privo di una sua interna dinamica, ma ebbe il merito di porre, nell’ambito della critica al concetto di trasmissione passiva del potere della borghesia, il pro­blema dell’autonomia del partito della classe operaia, sottolineando l’esigenza di una maggiore capacità di iniziativa.

Anche Lerda, per una conoscenza diretta dei dibattiti in seno alla socialdemocrazia tedesca e i contatti personali con gli ambienti del socialismo internazionale, scrisse nel 1911-12 una serie di articoli sul capitalismo internazionale e sui processi di concentrazione industriale all’interno, che si distinsero per l’interesse verso problemi su cui il socialismo italiano era largamente assente e per alcune intuizioni felici.

Prima dell’impresa libica, nell’agosto 1911, interpretò la nomina ad ambasciatore a Costantinopoli di Garroni, legato agli Ansaldo, come una svolta nella politica estera verso una penetrazione economica in Oriente non più attraverso la semplice azione diplomatica e formale, ma attraverso «una politica di fatti e azioni», «con uomini capaci di creare una fitta rete di interessi reali». Anche l’Italia, pur con i suoi ritardi e contraddittorietà, entrava nelle competizioni capitalistiche internazionali: «È la lotta per la vita del capitalismo moderno che, pena la morte, non può rimanere inoperoso, né rinchiudersi come in altri tempi nei forzieri; è la lotta, fra i governi che tali capitali rappresentano, di nuovi mercati»[75]

Lerda, rilevando l’indebolimento del ruolo della diplomazia, scrisse che «la grande poli­tica» stava passando «dalle mani dei poteri dinastici a quelle dell’alta banca e del capitalismo» e avanzò l’ipotesi che una futura confederazione degli Stati europei sarebbe stata «l’espressione della forza della nascente Internazionale capitalistica». Per l’immediato pronosticò come inevitabile una guerra europea.

Sullo stesso concetto tornò in un articolo del 17 dicembre 1911, nella considerazione della crescente rivalità tra Germania e Inghilterra, dei fermenti di rivolta nei Balcani, delle mire austriache su Salonicco. Giudicate «risibili» «le società borghesi per la pace, come i tribunali dell’Aia», dichiarò che «Il proletariato europeo non era assolutamente in grado di impedire la grande guerra», ormai inevitabile.

Sottolineando le contraddizioni dell’imperialismo in­ternazionale, nel cui ambito era entrata anche l’Italia, nello stesso tempo rilevava la debolezza delle posizioni socialiste che si alimen­tavano dell’illusione intorno al mito dell’Internazionale come forza suffi­ciente per impedire la guerra europea.

Tuttavia quando pas­sava dall’analisi all’indicazione di direttive politiche in una situazione in rapida trasfor­mazione restava entro la logica della Seconda Internazionale e prefigurava alcune posizioni del PSI durante la guerra mondiale, avanzando la speranza che il proletariato attraverso la guerra «non si smarrisse ai fini della nuova, futura civiltà»[76]

In politica interna, se segnalava i processi di concentrazione industriale anche in rapporto alla lotta sindacale[77] e coglieva gli elementi di novità del quadro politico[78] perveniva a conclusioni riduttive della potenzialità di iniziativa del movimento operaio, che veniva ammonito a non scendere troppo precipitosamente in sciopero, perché occorreva prima «studiare le condi­zioni di forza proprie e dell’avversario».

In conclusione teoriz­zò l’autonomia di classe, ma inserita in una prospettiva difensiva e subalterna, che preservava la dottrina e l’organizzazione dai compromessi e dall’opportunismo, senza però porsi il problema di competere per il potere con la classe antagonista e di rovesciare la tendenza a destra della politica italiana.

Il congresso di Ancona, la guerra e il dopoguerra

L’approvazione a Reggio Emilia dell’OdG contro la massoneria lo in­dusse a rassegnare immediatamente le dimissioni dal PSI, respinte dal congresso con voto unanime. Dopo aver rifiutato la direzione dell’Avanti!, continuò nella sua attività di propagandista e organizzatore socialista.

La definitiva uscita dal partito avvenne al congresso di Ancona del 1914, dove sulla doppia appartenenza, alla massoneria e al Partito, furono presentate tre mozioni: l’OdG Zibordi-Mussolini, per  l’incompatibilità e l’espulsione, che ottenne 27 mila voti,  l’OdG Matteotti, per la sola incompatibilità, con 2300 voti e l’OdG Poggi per la compatibilità che ebbe 1800 voti. Posto di fronte a questa sec­ca alternativa, optò per la permanenza nel Grande Oriente d’Italia. Dichiarò che i socialisti massoni non avrebbero ripudiato la loro fede politica, anche se fossero stati privati della tessera. Accennò al pericolo per il Partito del diradarsi del­l’elemento intellettuale e concluse dicendo che egli ed i suoi amici non potevano accettare «questa nuova funzione che il Partito si arroga di guardare chi è battezzato e chi è circonciso»[79]

Il Grande Oriente d’Italia lo chiamò a far parte della propria giunta esecutiva, riconfermandolo nel 1919 sotto la gran mae­stranza di Ernesto Nathan. L’appartenenza alla massoneria ebbe un cer­to peso nel suo progressivo allinearsi su posizioni democratico-interventiste. Nel luglio 1914 fece un viaggio a Parigi, e con i socialisti francesi mantenne stretti rapporti durante tutto il periodo della guerra.

Divenuto uno dei punti di riferimento dei gruppi so­cialisti dissidenti, il 10 gennaio 1917 fu nominato segretario del gruppo socialista auto­nomo a Milano[80] e a febbraio eletto insieme a Mussolini per rappresentare tale movimento al congresso dei partiti socialisti dei paesi dell’Intesa, che avrebbe dovuto svolgersi a Parigi e non eb­be luogo per il precipitare delle vicende belliche, in particolare di quelle russe.

Come segretario del gruppo milanese partecipò al congresso del partito socialista riformista tenutosi a Roma il 15-16 aprile 1917 nella sala della federazione del libro, e nel giugno successivo si recò con Arturo Labriola, I. Cappa e Orazio Raimondo in Russia per caldeggiarne la continuazione della guerra a fianco dell’Intesa[81].

Fu tra i fondatori dell’Unione socialista italiana, fautrice della «lotta di difesa contro la minacciata egemonia del militarismo austrotedesco e di liberazione dei confini nazionali» in cui confluirono molti elementi dell’interventismo di sinistra, e nell’agosto 1918 entrò a far parte della sua direzione centrale. Il 2 novembre 1919 fu incluso nelle liste del «Partito del lavoro» di Genova come candidato nelle elezioni politiche generali

Nonostante l’accostamento a Bissolati nel 1916-17 e l’adesione all’USI, mantenne sempre buoni rapporti con molti degli ex-compagni del PSI, soprattutto con Costantino Lazzari[82] e con gli organiz­zatori sindacali. Il vecchio organizzatore e propagan­dista non riusciva a distaccarsi dal movimento operaio.

Polemizzò duramente durante il «biennio rosso» contro il massimalismo che giudicava insieme velleitario negli obiettivi e prodotto di una situazione di arretratezza economica e di insufficienza culturale, secondo il suo consueto metro di giudizio. A questo proposito, la guerra determinò profonde modifiche all’interno del partito tanto nei quadri quanto nella stessa base sociale, per cui occorre distinguere tra intransigentismo e massimalismo (rispettivamente prima e dopo la guerra), perchè se il primo fu l’indubbia matrice del secondo, dell’originario gruppo dirigente della frazione solo pochi mantennero una posizione di primo piano (Serrati, Vella), alcuni concorsero alla formazione del PCdI mentre molti degli esponenti più rappresentativi dell’anteguerra confluirono su posizioni più  moderate alla fine del conflitto, anche in relazione alla rivoluzione russa.

Concluse il suo percorso politico aderendo nel 1922 al Partito socialista uni­tario. Dopo l’avvento del fascismo affittò il primo piano del proprio villino di Roma al PSU, che vi impiantò gli uffici amministrativi e la redazione della Giustizia, alla sezione romana della CGdL e al sindacato ferrotranvieri. Dopo il fallito attentato di Bologna contro Mussolini del 31 ottobre, attribuito al giovane Anteo Zamboni,[83] fu sottoposto a stretta sorveglianza dalla polizia e perseguitato dalle squadre fasciste, che ne saccheggiarono la casa[84].

Trasferitesi a Torino[85], sempre vigilato dalla polizia, morì il 17 maggio 1927, quando gli si stava pre­parando l’espatrio clandestino. Pare che Mussolini si riferisse a lui quando in un discorso a Torino il 27 maggio 1927 dichiarò «Anche gli irriducibili muoiono».

Un sentito ringraziamento a Giovanni Artero per averci offerto la possibilità di pubblicare on line la sua opera.

 

 

[1]              La  lotta  per la vita   “Il pensiero italiano”: repertorio mensile di studi dedicati alla prosperità e a cultura sociale,s1894 e in opuscolo: Milano, C. Aliprandi, 1894

[2]              Positivista francese (1842-1912)

[3]                     Paris, F. Alcan, 1893 e 1896

[4]              La  lotta  per la vita, cit., pag. 312

[5]              Ibidem, pag. 314.

[6]                Pubblicata su “Vita Moderna” Giornale d’arte e di letteratura  diretto da Gustavo Macchi, 1894 e poi nell’ opuscolo II socialismo giudicato da letterati, artisti e scienziati italiani, con pref. di G. Macchi, Milano,1900.ta 

[7]              G. Lerda, Der  Kongress der  italienische Sozialdemokraten zu  Florenz, in “Der sozialistische Akademiker”  1896,   pp.  647-650.

[8]              In “Rivista di sociologia”, ottobre-novembre 1896, fasc. 10-11, poi in opuscolo pubblicato nel 1897 dalla Libreria Editrice Ligure.

[9]                G. Lerda, II socialismo e la sua tattica, Genova, Libreria Moderna. 1902. pag. 5

[10]              Firmata con la sigla B, “Le  Devenir  Social”  1897,   pagg   473-474.

[11]              «Le Devenir social», 1897, pp. 475-476.

[12]            G. Lerda, Le socialisme en Italie, in Le Devenir Social, maggio 1897; la corrispondenza fu riprodotta anche nei Sozialistische Monatshafte, maggio 1897, col titolo Der Sozialismus in Italien.

[13]                                                                                            Per cui diceva che «il movimento socialista è certo qualcosa di ben superiore e di ben diverso da quello che può essere un movimento politico della quotidiana politica» (Re­lazione di Lerda «Appoggio ad indirizzi di governo e parteci­pazioni al potere» in Resoconto dell’Xl Congresso nazionale del Par­tito Socialista Italiano, Roma, 1910, pag. 5) oppure: «II socialismo è una dottrina filosofica e sociale di cui il Partito nella sua azione quotidiana, negativa o positiva, è semplice­mente l’espressione politica in confronto e in opposizione della poli­tica e dei poteri della società costituita ». (In Resoconto stenografico del Xll Congresso nazionale del P.S.l. di Modena, Milano, 1912 pag. 27).

[14]            G. Lerda, Die Taktik der socialdemokratischen Partei, in Die Neue Zeit, n.14, gennaio 1897,  pp. 420-431.

[15]            R. Luxemburg,  Gesammelte   Werke, herausg. von C.Zetkin und A. Warsky. Band III,1925, p.16.

[16]            E. Bernstein,   Klassenkampf   und   Kompromiss   in   Die   Neue   Zeit, 1896-97,   pp.   518-24.

[17]            P. Gay The dilemma of democratic socialism : Eduard Bernsteins challenge to Marx , New York,  1952

[18]            E. Bernstein,   Klassenkampf   cit.,  pp.   517-518.

[19]            G.Lerda, Die Taktik , cit., “Die Nene Zeit“, gennaio 1897,  pagg. 425 e 426

[20]            E. Bernstein,   Klassenkampf …. cit.,  pag.  523.

[21]              R.Luxemburg. op.  cit.,  pag.  81.

[22]                                                                                                   E. Bernstein, Die Voraussetzen des Sozialismus, 1920.

[23]              K Kautsky, Bernstein und das sozialdemokratische Programm, Stuttgart, 1899.

[24]              R.Luxemburg,  op.   cit.,  pag.   75.

[25]             G. Lerda. Nochmals die Frage des Kompromisses, “Die Neue Zeit“ 1896-97

[26]              G. Lerda. Pessimismus und Storicismus, in Sozialistische Monatshefte, 1898 .

[27]             G. Lerda, Die Bedeutung der Rasse in die Kultur, in Sozialistische Monatshefte, 1900. pp. 330-339.

[28]              Non rinunciando però a spunti di demistificazione di quella che definiva la «scienza ufficiale » borghese, classista e razzista. 

[29]            G. Lerda, II socialismo e la sua tattica, Genova, Libreria Moderna. 1902.

[30]              Introduzione a Il socialismo  e la  sua  tattica, cit., pag. 10-12

[31]                                               Scheda biografica della Questura, in AS Genova, in data 28 novembre 1898, che annota che il Lerda “nel maggio 1898 si allontanava da Genova clandestinamente e riparava in Isvizzera, ove colla parola e con scritti cooperò al movimento rivoluzionario”, formula l’ipotesi che avesse collaborato “alla  preparazione delle bande armate, pronte a scendere in Italia per partecipare ai moti di Milano, Firenze ed altre regioni del regno”, e conclude: «La sua azione colà ha attirata subito l’attenzione di quel governo, che lo ha compreso nella lista dei rivoluzionari da sorvegliare attentamente».

[32]            “Il   Martello”   31.8.1902.

[33]            O.Olberg Un apostolo della Giustizia e della Libertà “Il Lavoro Nuovo”  24.8.1952. Risulta segnalata in CPC, b2773 una conferenza a Belluno nel gennaio 1908 e un ciclo nel circondario di Udine nel dicembre 1912

[34]            G. Lerda, Eine profetische Frage, “Die Neue Zeit“, 1898-99.

[35]              G. Lerda Gli italiani all’estero,  Genova 1900

[36]            ACS, CPC, b.2773. Segnalazione del 16.5.1907 della sua presenza a Lugano da due mesi, per conferenze ma soprattutto per pacificare la sezione, in cui erano scoppiate dispute tra Serrati, Cagnoni, Olivetti. Terminato l’incarico rimane in Svizzera, perchè è segnalata il 15 luglio una sua conferenza a Basilea.

[37]            ACS, CPC, b.2773. Segnalazione della prefettura napoletana del 25.5.1905 della sua presenza per risolvere controversie interne.

[38]              «Come fu eletto il Pizzorni»  “Il   Martello”  27.6.1900  .

[39]            “ Il  Martello”  24 .6.1900.

[40]            La  propaganda . “Era Nuova”  25.9.1900  e 9.12.1900

[41]              Il settimanale “Il  Socialismo”, col sottotitolo: Nel pensiero la forza, fu pubblicato a Roma dal 1902 al 1905

[42]            “ Il Socialismo”, 25.11.1903

[43]              N.Colajanni, I partiti politici in Ita­lia, Roma 1912, p. 102.

[44]            “La Soffitta”, giornale della frazione rivoluzionaria intransigente del Partito socialista diretta da Giovanni Lerda e Costantino Lazzari uscì dal 1° maggio 1911 al 20 luglio 1912. Principali collaboratori furono: Alceste della Seta, Francesco Ciccotti, Osvaldo Gnocchi-Viani, Arturo Vella, Elia Musatti, Angelica Balabanoff, G. M. Serrati.

[45]            Nell’editoriale del primo numero de “La Soffitta”, 1. Maggio 1911 Alceste Della Seta spiegava il titolo deplorando che dal PSI fosse stata”abbandonata al ridicolo la figura del­l’uomo che sopra ogni altro seppe comunque interpretare ed esporre scientificamente il valore dell’ideale socialista.  Noi dobbiamo con Carlo Marx rifugiarci in soffitta. Marx sa che con lui si rifugiano uomini che hanno saldo cuore nelle lor convinzioni e giovani che cercano il trionfo della nostra causa nelle vecchie vie del socialismo”

[46]            G.Lerda “La Soffitta,”   1.5.1911.

[47]              O. Gnocchi Viani “La Soffitta,” 30.5.1911

[48]            “La Soffitta” 29.9.1911

[49]            R.Martinelli « Il Partito comunista d’Italia 1921-26», Roma, 1977

[50]            Il 13 a Pieve di Teco con 200 persone, il 15 alla Società operaia di Rezzo, 40 persone; il 16 a Borghetto S.Spirito, il 18 a Villa S.Pietro, il 19 a Pontedassio

[51]            Da “Brescia nuova” del 13 novembre: il 14 a Rovato, il 15 a Montichiari, il 16 a Calcinato, il 17 a Salò, il 18 a Toscolano, il 19 a Bagnolo, il 20 a Rezzato e il 21 (domenica) due conferenze: a Verolanuova al mattino e a Quinzano al pomeriggio

[52]            G. Giolitti, Memorie della mia vita, pp. 287-88 e 328.

[53]            “La Soffitta,”   1.10.1911.

[54]              Pedone I congressi del PSI, vol. 2, Milano-Roma, 1958

[55]              G.Lerda,   Dichiarazione,  “La   Soffitta,”  29.10.1911.

[56]            A.Vella, In cerca  d’un   programma. Melanconie  d’un   credente, “La   Soffitta”   3.11.1911

[57]            C.Lazzari,   I  principii   ed   i   metodi  del   PSI,   Milano,   1911.

[58]            G.M.Serrati,   Necessità  attuale  di Idealismo,  “La  Soffitta,”  2.6.1912.

[59]            I rivoluzionari. L’intransigenza assoluta di Ciccotti vittoriosa sull’ordine del giorno Lerda, «Avanti!», 7.7.1912

[60]            Storia della sinistra comunista. I, cit., p. 56: «Gli “esperti” spiegarono che ogni congresso vive di una sola grande battaglia». Ad invitare gli intransigenti a soprasse­dere sulla questione elettorale, per concentrare gli sforzi in sede congressuale contro i «traditori del partito», fautori dell’impresa libica, intervenne Costantino Lazzari, men­tre Arturo Vella dichiarò di essere contrario non solo ai blocchi, ma anche alla con­quista dei Comuni su basi intransigenti.

[61]                    Si può supporre che la rinuncia all’ordine del giorno Ciccotti fosse dovuta alle pressioni degli intransigenti romani, impegnati nel blocco raccolto attorno a Nathan. Lerda, nel momento più acuto della crisi deter­minata dall’impresa libica, raccogliendo una notevole maggioranza nell’Unione So­cialista Romana, si oppose alle richieste di rottura di ogni alleanza con i partiti borghesi. Cfr. La questione del blocco nell’Unione Sociali­sta Romana, «La Soffitta», n. 19, 17 dicembre. L’ambiguità della mozione prevalsa al Congresso di Reggio Emilia è rilevata da Sergio Bertelli, Socialismo e movimento operaio a Roma dal 1911 al 1918, in «Movi­mento Operaio», 1955: «nella formulazione della mozione sull’indirizzo elettorale del partito, si era guardato soprattutto a Roma e si era giunti all’approvazione del princi­pio intransigente sol perché le dimissioni di tutti i consiglieri socialisti avrebbero co­stretto il Nathan a nuove elezioni immediate, dalle quali si sperava un rinvigorimento (altro che secessione!) della compagine bloccarda che, si faceva notare, era rimasta nella sua composizione immutata per cinque anni, malgrado l’accresciuta influenza socialista nella città». L’uscita dell’USR dal blocco amministrativo il 31 luglio 1912 si verificò in questo contesto.

[62]                    Resoconto stenografico del XIII Congresso Nazionale del PSI, Città di Castello, 1913, p. 255.

[63]                                   Mussolini, secondo il giornalista Michele Campana, avrebbe teorizzato il completo di­sinteresse del partito per le questioni economiche e amministrative. Si veda La discus­sione al Congresso socialista si accalora: tre tendente tra i rivoluzionari, «II Nuovo Giornale», 10.7.1912, riprodotto in B. Mussolini, Opera Omnia, IV, cit., p. 294.

[64]            XIII Congresso nazionale…, cit., pp. 295-297. Anche // PSI nei suoi congressi, 11, Milano, 1961, p. 212, riporta l’ordine del giorno presentato da Mazzoni sul problema della Massoneria.

[65]            l’«Avanti!» 24.7.1912

[66]             N. Mazzoni, // Congresso di Reggio e l’appoggio agli indirizzi di governo, «Avanti!», 28 .7.1912. Una nota non firmata, apparsa sul quotidiano pochi giorni dopo nel­lo spazio solitamente riservato ai comunicati ufficiali dell’organizzazione, ammise, sottolineando gli aspetti unitari del Congresso, la «scrupolosa esattezza» dei rilievi di Mazzoni: Per l’unità del Partito,  1.8.1912, rubrica «Vita di Partito»

[67]              G.Lerda  “Avanti!”, 16.7.1912

[68]              “La Soffitta”, 1.10.1911

[69]             F. Pedone, op. cit., p. 164.

[70]              In un comizio a Siena M. Terzaghi attribuiva la causa dell’impresa alle inge­renze del capitalismo finanziario e industriale (Avanti!, 29.9.1911). Nel manifesto degli intransigenti pubblicato il 1° ottobre su La Soffitta si metteva in relazione la guerra libica con la soluzione della crisi marocchina.

[71]             Vindex La conquista, “ La Soffitta” 1.10.1911.

[72]            Significativo che Lerda ritenesse marginale il problema della pubblicazione su “La Soffitta” di un articolo filotripolino di Norlenghi (27.1.1912), a cui replicarono D. Marra (15.3.1912) e Vezio (15.2.1912). In una nota redazionale Lerda chiudeva, nell’aprile 1912, la polemica rivendicando a tutti gli iscritti la libertà di pensiero, pur nel rispetto della disciplina di partito.

[73]            A proposito della guerra. I tre punti di vista, “La Soffitta” 17.12.1911. Lerda nella nota redazionale aggiungeva che il problema era quello di educare il proletariato ma che, per farlo realmente, si doveva «abbandonare il sistema declamatorio» e «cessare di prospettare i problemi della vita sociale come si prospettava una figura geometrica perché… le chiacchiere erano chiacchiere».

[74]              Dal nome di un ufficiale che aveva commesso abusi sulla popolazione libica

[75]            G. Lerda, Nell’alta politica, “La Soffitta” 15.8.1911. Il 29.5.1912 tenne una conferenza a Corato (BA) contro la guerra italo-turca

[76]            G. Lerda, Una ben più grande e terribile guerra, “ La Soffitta”, 17.12.1911

[77]            G. Lerda, Trusts, sindacati, scioperi, , “ La Soffitta” 19.11.1911

[78]            G. Lerda, Timeo danaos…, “La Soffitta” 15.5. 1911. Lerda scriveva che il programma democratico di Giolitti e la chiamata di Bissolati da parte del re potevano nascondere il tentativo di distogliere l’attenzione del prole­tariato da un intervento dell’Italia nell’impero ottomano, probabilmente nei Bal­cani. I sintomi di una nuova politica estera aggressiva andavano ricercati per lui in alcuni fenomeni nuovi di politica interna: «II coro della stampa italiana contro la debolezza e pusillanimità della nostra politica estera, l’esautoramento del nome e del prestigio italiano, la diminuita influenza nostra in regioni e in mezzo a popoli fra i quali la tradizione della lingua nonché quella del nome italiano si erano mantenute per tanti secoli… la nascita del partito nazionalista sbu­cato fuori come di sorpresa col programma della grande e forte patria italiana».

[79]            Pedone, Il Partito …, vol 2., 1902-17, cit., pag.231

[80]              Un informatore della polizia lo presentò come «un dissidente che si dava anima e corpo ad or­ganizzare il nuovo partito socialista in contrapposto a quello ufficiale». In questo contesto potrebbe aver fatto da intermediario nel febbraio 1917 tra la massoneria e II Popolo d’Italia, a cui sarebbero state date 4.500 lire.

[81]              ACS, CPC b.2773, lettera a Oda del 24.6.1917 da Cristianaia (Copenhagen)

[82]            ACS, CPC b.2773: una informativa del 10 novembre 1917 riferisce che frequenta C.Lazzari.

[83]            Probabilmente opera di fascisti dissidenti legati al ras bolognese Arpinati, che utilizzarono il quindicenne Anteo come capro espiatorio, pugnalandolo a morte per depistare le indagini e far sparire ogni traccia. Ved. B. Dalla Casa, Attentato al duce: le molte storie del caso Zamboni  Bologna 2000

[84]            G. Salvemini. Scritti sul fascismo. Voi. 1. Feltrinelli, 1961, pag. 119

[85]            Il 3 marzo 1927, in via Massena 18