LA FAVOLA DEI MEROVINGI

di Claudio Bellavita

C’era una volta un bellissimo paese in mezzo a un antico mare, pieno di bellezze artistiche e naturali, popolato da gente industriosa e intraprendente ma piuttosto credulona per quel che non riguardava il loro lavoro.
Un brutto giorno furono invasi da oriente da un’orda di barbari che spiegarono che toccava a loro governarli, perchè erano i migliori del mondo, venivano da lontano e volevano andare lontano.

Questi barbari erano dei merovingi minori, caratterizzati dal fatto che anzichè lasciarsi crescere i capelli, si lasciavano crescere la barba. Cosa che gli riusciva molto bene perchè erano soliti fare discorsi noiosissimi dei quali molto si compiacevano, uscendo dalle loro riunioni esclamando “che barba!” e accarezzandosela con soddisfazione.
Erano così tranquillamente convinti di essere i migliori, che non facevano altro che dirlo a tutti, lasciando ogni altro lavoro ai loro maggiordomi. Veramente, quando si trattava di cambiare il loro re, succedevano risse furibonde con ogni erede che pretendeva per sè tutto o una parte del regno, e ci volevano anni di lotte intestine prima di mettersi d’accordo.

Ma siccome le lasciavano fare ai loro maggiordomi, le lotte non erano mai troppo cruente, e intanto i maggiordomi diventavano ricchi e potenti. Anche i merovingi di provincia si comportavano nello stesso modo, lasciando tutto il lavoro e la responsabilità ai loro funzionari, mentre loro facevano lunghe cavalcate e caccie con gli eredi dei nobili precedenti, che erano molto più eleganti di loro.
Per succedere a un re particolarmente incapace, Clodochetto il Piagnone, si scatenò una lotta terribile tra Dalemberto il Perfido e Veltrorico il Fannullone, che raccontava sempre i suoi bellissimi sogni, e teneva udienza solo ogni tre mesi. Entrambi, per prudenza, rifiutarono il tentativo di mediazione di Bassolindo il Mangiarifiuti, di cui non si fidavano troppo.

Nel frattempo, grazie al matrimonio di Dalemberto con la principessa Margherita si erano convertiti al cattolicesimo, ma siccome erano tanto pigri, anche i rapporti con la Chiesa li lasciavano ai maggiordomi.
Tra i quali era diventato grande e potente Berluschino il Breve, che controllava l’esercito, le finanze, le comunicazioni e il rapporto con la chiesa. Aveva due figli capaci, il principe Giulio Tremartelli che combatteva con valore le scorrerie dei banchieri saraceni, e Brunetto il Corto, che controllava col terrore i maggiordomi minori. Berluschino si comprò l’appoggio della chiesa, manovrò tra i due in modo da far eleggere il più incapace, Veltrorico, e con un colpo a sorpresa gli tagliò la barba, facendogli perdere ogni segno di regalità.

A questo punto tutti i principi merovingi cominciarono a litigare ferocemente tra loro per contendersi la successione, senza accorgersi che per farlo si erano radunati in unico castello, di cui Berluschino aveva chiuso le porte e buttato la chiave. Se ne accorse però un petulante ragazzino, mai stato merovingio, e neanche maggiordomo, Ciccino Matteo, che quando arrivò all’età della ragione proclamò “adesso vi rottamo tutti, merovingi e maggiordomi” e la gente industriosa e intraprendente decise che era ora.

Purtroppo Ciccino Matteo cominciò dalla parte più facile, quella dei vecchi, astiosi e noioisissimi Merovingi barbuti, e per rendere le cose ancora più facili accettò i consigli di Berluschino, che era più furbo e più navigato di lui, e lo convinse a cambiare le regole, per cui, quando poi arrivò il momento di misurarsi tra loro due, gli diede una potente fregatura riducendolo a contar meno non solo dei maggiordomi, ma anche dei giovanissimi stellati che si erano andati organizzando tra quelli che non ne potevano più nè dei Merovingi, nè dei maggiordomi e che Matteo si era illuso che stessero con lui…