“LA FILOSOFIA DELLA SCOSSA”

di Nunziante Mastrolia

Qualche giorno fa ero in macchina e mentre guidavo ad un certo punto dalla Radio spunta Mentana e commenta i dati sulla disoccupazione e dice, sottolineando che lo ripete da anni, che a questo paese serve una scossa.
All’interno della filosofia della scossa (terapie shock, piani Marshall a destra e a manca sono sinonimi) si muovono anche i grillini di lotta e di governo che parlano di investimenti in deficit ad alto moltiplicatore (beati loro che sanno quali sono).
Persino Giorgio La Malfa, storico amico di Paolo Savona (chi va con lo zoppo impara a … etc), e figlio di quel mondo laico e liberale che va da Raffaele Mattioli, ad Adolfo Tino, a Cuccia, e a Ugo La Malfa a cui De Gasperi affida la macchina economica del paese, sul Corriere del 30 luglio sostiene la necessità di fare debito per rilanciare l’economica. La cosa stupisce, ma forse si spiega con il fatto che anni fa La Malfa ha scritto una bella biografia di Keynes.

Forse proprio da Keynes bisogna ripartire. Se uno si prende la briga di leggere (e per inciso è anche un lettura gradevole) la Teoria Generale dell’Occupazione, del Credito e della Moneta, scopre cose interessanti.
L’obiettivo dichiarato di Keynes è quello di capire che cosa determini il livello dell’occupazione. Keynes sostiene che, come è noto, l’occupazione dipende dalla domanda aggregata. Ma quest’ultima da che dipende? Da quanti soldi uno ha in tasca da spendere? No. Dalla stabilità del posto di lavoro? Falso. Dal livello tecnologico? Signor no.

“In ogni momento il livello dell’occupazione – scrive Keynes – dipende in un certo senso, non soltanto dallo stato dell’aspettativa esistente, ma dagli stati di aspettativa esistiti in un certo periodo trascorso. Ne segue […] che si può correttamente aff ermare che l’occupazione presente è governata dalle aspettative presenti, e al tempo stesso dagli impianti presenti” (Teoria Generale, p. 234).

Dunque il motore immobile di ogni cosa sono le aspettative sul futuro. E di cosa sono fatte queste aspettative? “Una larga parte delle nostre attività positive – scrive Keynes – dipende da un ottimismo spontaneo piuttosto che da un’aspettativa in termini matematici, sia morale che edonistica o economica”.

Può accadere a volte che queste aspettative, anche improvvisamente, cambino di segno e le persone iniziano a vedere tutto nero nel futuro. A quel punto i consumatori, pur avendo le tasche piene di soldi non spendono più, e gli imprenditori non investono più per ammodernare vecchi impianti o per espandere le loro attività produttive. Ma non finisce qui. I consumatori non consumano, le imprese licenziano, l’aumento della disoccupazione porta ad una ulteriore riduzione dei consumi e il sistema si avvita su se stesso e va in blocco.

Ecco allora scrive Keynes, che serve qualcuno che faccia ripartire il tutto e cambi di segno alle aspettative collettive. Quel qualcuno dal quale ci si può attendere “un grosso impulso iniziale” (Come uscire dalla crisi, p. 110) è la mano pubblica: “in periodi di crisi la spesa pubblica finanziata da debiti è l’unico mezzo sicuro per ottenere l’aumento della produzione a prezzi costanti” (Come uscire dalla crisi, p. 111).

Tutto chiaro? La spesa pubblica in deficit interviene come un defibrillatore, in particolari e precisi momenti per riattivare il sistema economico che è andato in blocco a causa delle aspettative negative sul futuro.
Il deficit non è, dunque, una costante, non serve a produrre crescita economica, la mano pubblica non può sostituirsi a quella privata e può essere usato solo come strumento anti-ciclico. Al contrario, quando le cose vanno bene, si mette il fieno in cascina, per usare un’espressione di Guido Carli riferita all’aumento delle riserve auree della Banca d’Italia nella fase del boom economico.
C’è un’ultima considerazione da fare. Le scosse funzionano se il corpo è sano, se è malato si rischia di fondere il defibrillatore.

Tra i paesi sviluppati, noi siamo quello con meno laureati, e in proporzione con meno laureati in materie scientifiche. Siamo il paese con la più bassa produttività e con il più alto numero di giovani nullafacenti (che non lavorano e non studiano) e quello che legge meno. Secondo i dati dell’Associazione Italia Editori l’Italia registra la più bassa percentuale di lettori a confronto con le altre editorie: la media italiana si attesta sul 40,5% nel 2016, ben al di sotto del 62,2% della Spagna, del 68,7% della Germania, del 73% negli Stati Uniti, dell’83% del Canada, dell’84% della Francia fino al 90% della Norvegia.

Tutto ciò all’interno di un modello economico che è trainato proprio dalla conoscenza.
Di fronte a questa situazione la filosofia della scossa che cambia di segno alle cose, del colpo d’ala che ci risolleva in un attimo riportandoci dalla polvere alle stelle in un baleno, della botta di fortuna che ci fa ricchi (forse non è una caso che siamo anche tra i paesi che giocano di più) è solo una versione diversa dello sciagurato mito della furbizia italica.

È anzi la misura della nostra arretratezza e del fatto che ignoriamo che per poter prosperare serve impegno, lavoro, costanza, serietà nel lungo periodo, altrimenti si fa come quello studente che all’Università per tutto il semestre non fa nulla e la sera prima dell’esame prova a recuperare leggiucchiando qua e là. La bocciatura è certa e Mentana dovrebbe saperlo, se solo avesse fatto l’università.