AUSTERITY VERSUS INVESTIMENTI

di Renato Gatti

Come funziona il rapporto debito/PIL.
Di fronte alla situazione di un paese con un alto rapporto debito PIL, come l’Italia, il cui indice supera il 130%, è bene considerare approfonditamente come funziona questo indice.
Partiamo quindi da una situazione in cui il debito sia 130 ed il PIL sia 100; ciò significa che per pagare tutti i suoi debiti l’Italia deve pagare il 130% del suo prodotto lordo interno annuo, dovrebbe cioè usare tutto ciò che produce in un anno e quattro mesi solo per pagare i debiti, dopo di che, sempre che sia sopravvissuto ad un digiuno così lungo, partirebbe vergine senza un euro di debito.

Poiché questa dieta è da tutti ritenuta non attuabile, si consiglia, anno per anno, di ridurre le spese e quindi diminuire il debito e quindi rimettersi in linea con i parametri europei. Questa è la strada seguita dal Belgio che anni addietro aveva il ratio debito/PIL uguale all’Italia e che anno dopo anno, come una formichina ha ridotto il suo ratio a livelli accettabili.
Il calcolo sarebbe cioè riduzione del numeratore a livelli inferiori a 130 lasciando immutato il denominatore:
partendo da 130/100 una serie di avanzi primari riduce il numeratore a 100 senza modificare il denominatore, quindi il ratio scende a 100/100.
Questa era la strada iniziata da Prodi, che in effetti ridusse il ratio, ma poi la strada fu abbandonata e il ratio peggiorò.

Questa strada, da formichine, funzione se il risparmio primario non incide sui livelli di PIL, ma se il taglio di spese, la spending review, ha delle conseguenze sul PIL tutti i sacrifici fatti a livello di spesa (deficit – debito) potrebbero essere inutili se non dannose.
Se ad esempio si riducesse di 10 il debito e di altrettanto si riducesse il PIL, noi avremmo il ratio che da 130/100 passa a 120/90, ovvero 133,33/100. I nostri sacrifici sono serviti a peggiorare il ratio debito/PIL da 130% a 133,33/100.

Se al contrario aumentassimo il debito di 10 e di altrettanto aumentasse il PIL, noi avremmo il ratio che da 130/100 passa a 140/110, ovvero 127.27/100. I nostri investimenti produttori di PIL sono serviti a migliorare il ratio debito/PIL da 130% a 127.27/100.
Le due alternative che abbiamo sopra riportate sono esattamente le alternative proposte da austerity e sviluppo.
Ma attenzione il meccanismo sopra descritto vale fino a quando il debito è superiore al PIL; quando questi due elementi sono 100 e 100 rispettivamente l’effetto sul ratio è indifferente. Quando invece il debito fosse inferiore al PIL l’effetto è contrario.

Se ad esempio il ratio fosse 90/100 e si riducesse di 10 il debito e di altrettanto si riducesse il PIL, noi avremmo il ratio che da 90/100 passa a 80/90, ovvero 88,8/100. I nostri sacrifici sono serviti a migliorare il ratio debito/PIL da 90% a 88,8/100.
Se al contrario aumentassimo il debito di 10 e di altrettanto aumentasse il PIL, noi avremmo il ratio che da 90/100 passa a 100/110, ovvero 90,9/100. I nostri investimenti produttori di PIL sono serviti a peggiorare il ratio debito/PIL da 90% a 90,9/100.

Ciò premesso, e tornando al caso italiano con un ratio ben superiore a 100, voglio al proposito ricordare le elezioni europee nelle quali il PD prese il 40%; quel successo fu interpretato dal premier Renzi come un successo personale che segnò la sua futura carriera politica. Ma se noi ritenessimo che quando si vota non si elegge Miss Italia ma si vota per una opzione piuttosto che per un’altra, se poi realizzassimo che le opzioni di fronte alle quali ci trovavamo erano tre:

a) votare lega e uscire dall’euro,

b) votare Berlusconi per restare in una Europa merkelianamente austera e

c) votare PD o meglio PSE ovvero rimanere in una Europa che punta allo sviluppo, ebbene se noi pensassimo che queste erano le tre opzioni, facilmente converreste con me nel ritenere quel 40% un flop, una sconfitta clamorosa.

La sconfitta fu poi aggravata dal fatto che Renzi con la più alta percentuale di voti nell’area del PSE, invece di convocare una convention di tutti i partiti socialisti europei per impostare una piattaforma di lotta politica in Europa, tentò solo di entrare nel duo Merkel-Hollande come terzo soggetto protagonista. Tale strategia narcisistica sfociò in una foto congiunta dei tre a Ventotene (con Renzi che guarda il telefonino) e poi basta.

Chiusa questa parentesi comunicativa, torniamo allora ai meccanismi debito/PIL. Abbiamo visto che nel caso in cui il debito sia superiore al PIL, aumentare le spese migliora il ratio debito/PIL se e solo se le spese producono un pari importo di PIL, se cioè hanno un moltiplicatore 1 o maggiore di 1.
Ne deriva che se aumentiamo le spese per investimenti con moltiplicatore positivo stiamo sulla strada buona per ridurre il ratio debito/PIL, se invece aumentiamo le spese che non producono aumento del PIL peggioriamo la situazione. Ad esempio i famosi 80 euro, che costano al nostro bilancio circa 10 miliardi l’anno e che non sembrano aver aumentato il PIL sotto forma di maggiori consumi, ovvero di uno degli addendi della domanda aggregata, sono stati a mio parere un pessimo provvedimento che ha non ha migliorato il ratio debito/PIL.

Altro errore che mi sembra da evitare è l’affermazione per cui, abbassando le imposte, si favorisce la crescita del Paese; questo mantra sta alla base della scelta strategica fra meccanismo di imposizione attuale e flat tax. Al di là della falsità ideologica che sottende a questa scelta (the trikle.up effect) e all’ignoranza del marginalismo (vedansi al proposito gli scritti di L.Einaudi) quello che non torna in questa impostazione è che:

a) con la flat tax i redditi più alti saranno ancora più alti inasprendo ulteriormente l’indice Gini;
b) i redditi più alti, privilegiati dalla manovra, sono quelli con minor propensione al consumo, per cui le maggiori disponibilità dei settori più ricchi con molta difficoltà si tradurranno in maggiori consumi, ed inoltre sarebbero favoriti i consumi in beni con alta incidenza di importazioni dall’estero, vanificando così i benefici sul fattore consumi interni;
c) ai maggiori, nei limiti sopra visti, consumi corrisponde la diminuzione della spesa pubblica (mancato gettito per almeno 50 miliardi) che annullerebbe e ribalterebbe l’effetto della maggior domanda da consumi con la restrizione della spesa pubblica a detrimento della domanda aggregata.

Per finire; si può convenire, nell’ambito della situazione italiana attuale, con le seguenti conclusioni:
• È da evitare ogni spesa che, aumentando il debito, non aumenta in egual misura il PIL;
• È accettabile un aumento di debito che aumentando la spesa di uno degli addendi della domanda aggregata, aumenti, in almeno pari misura, il PIL;
• E’ raccomandabile che la spesa aumentata di uno degli addendi della domanda aggregata, si rifletta sul PIL non solo nell’anno dell’erogazione di quella spesa, ma anche negli anni successivi;
• Ne discende che vanno privilegiate le spese per investimenti rispetto alle spese che aumentano solo i consumi. Infatti gli incentivi ai consumi, che avrebbero un effetto immediato sul PIL, esauriscono il loro stimolo sul PIL nel solo anno di erogazione, mentre gli incentivi agli investimenti, oltre a tradursi immediatamente, anche se non totalmente, in maggiori consumi, creano la possibilità di replicazione negli anni successivi degli effetti positivi sul PIL della spesa fatta;
• Occorrerebbe comunque un controllo da parte di organismi europei per verificare sia i progetti di investimento nella loro validità industriale, sia nella realizzazione degli stessi, attraverso una profonda revisione dell’accountability e del del monitoraggio delle fasi esecutive dei progetti oggetto di maggior spesa.

Vedrei allora all’interno della BCE un organismo di verifica, controllo ed asseverazione dei progetti proposti dai vari paesi, l’organismo centrale che coordina i piani industriali dei vari paesi, non solo conformi alle scelte fatte dai singoli paesi, ma soprattutto nell’ambito di una vasta programmazione europea tesa alla convergenza dei fondamentali di paesi membri nell’ambito di un “global surplus recycling mechanism”, base indispensabile per la creazione di un’area valutariamente ottimale.