Dal dopoguerra a metà degli Anni ‘60 fu una vera e propria «mattanza» di dirigenti del movimento contadino. Uno degli ultimi omicidi fu quello dell’assessore socialista Carmelo Battaglia, ucciso a Tusa il 24 marzo del 1966

Dalla metà degli anni ’40 fino alla metà degli anni ’60, furono consumati in Sicilia una serie di delitti in sequenza ai danni del movimento contadino e dei suoi dirigenti. Delitti “firmati” dalla mafia, dagli agrari e da certa politica complice, guardati benevolmente (e qualche volta incoraggiati) da servizi segreti stranieri.
La gran parte di questi delitti ebbe come «teatro» le zone del feudo della provincia di Palermo: il Corleonese, il Partinicese e le Madonie. Si consumò a Portella della Ginestra (tra Piana e S. Giuseppe) la strage del 1° Maggio ’47; Epifanio Li Puma fu assassinato a Petralia il 2 marzo, Placido Rizzotto a Corleone il 10 marzo e Calogero Cangelosi a Camporeale il 1° aprile di quel terribile 1948.
Una «lunga strage», durata oltre vent’anni, il cui ultimo capitolo fu scritto il 24 marzo 1966, a Tusa (Messina), dove venne assassinato Carmelo Battaglia, dirigente sindacale e assessore al patrimonio della giunta di sinistra che amministrava il comune. L’omicidio Battaglia, che avvenne a tre anni dall’insediamento della Commissione parlamentare antimafia, svelò l’esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune da questa forma di criminalità organizzata: la provincia “babba” di Messina. Ma era davvero tale quel lembo occidentale della provincia, confinante con le province di Palermo ed Enna, e comprendente buona parte della catena dei Nebrodi?

Se si tiene conto che già da tempo si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle zone di mafia, quali estorsioni, abigeati, danneggiamenti ed attentati, bisognerebbe dire di no. «Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il “triangolo della morte”. Dietro questi delitti vi era la “mafia dei pascoli” e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell’economia allevatoria dei Nebrodi. E l’assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all’ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori», scrive Gabriella Scolaro (Il movimento antimafia siciliano dai Fasci dei lavoratori all’omicidio di Carmelo Battaglia, Ed. terrelibere.org, Aprile 2007).
Carmelo Battaglia era stato tra i soci fondatori della cooperativa agricola «Risveglio Alesino» di Tusa, costituita nel 1945 per partecipare alle lotte per la terra. Nel 1965, i soci di questa cooperativa e quelli della cooperativa «S. Placido » di Castel di Lucio acquistarono il feudo «Foieri» della baronessa Lipari, esteso 270 ettari. Si dovettero scontrare, però, con il gabelloto Giuseppe Russo, ex vice-sindaco Dc di Sant’Agata di Militello, e col suo sovrastante Biagio Amata, che da tempo gestivano quel feudo e non volevano rassegnarsi all’idea di doverlo lasciare. Pretesero, quindi, che ne fosse ceduta a loro almeno una parte per farvi pascolare i propri animali. «Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa “Risveglio Alesino” e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia», spiega Scolaro.

L’assessore socialista – che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini – fu ucciso all’alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo «Foieri». «Gli assassini – racconta ancora Scolaro – non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra». «Uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di far chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso», scrisse il giornalista Felice Chilanti sul giornale «L’Ora» di Palermo del 25 marzo 1965. «Il delitto – secondo Mario Ovazza – ha chiaro il segno dell’odio secolare contro chi è fermo nel perseguimento di pertinaci obiettivi di giustizia e di rigenerazione sociale; della sanguinaria imprecazione contro colui che partecipa più attivamente alla rivolta organizzata dalle masse contro lo sfruttamento e il privilegio…».

a cura di Dino Paternostro