di Gianni Lannes |
Giacomo Matteotti è famoso per essere uno dei primissimi martiri politici dell’antifascismo, ucciso dopo l’omicidio in Puglia del deputato socialista Giuseppe Di Vagno. Eppure il vero movente di quel delitto è ancora poco noto all’opinione pubblica. Il 30 maggio 1924, Matteotti pronunciò alla Camera parole di fuoco per contestare i risultati delle elezioni datate 6 aprile, in cui si richiedeva di invalidare l’elezione almeno di un gruppo di deputati illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli perpetrati dagli squadristi. Il 10 giugno Matteotti esce di casa da via Pisanelli, al civico 40, per recarsi alla Biblioteca della Camera per ultimare il testo di un discorso, quando sul Lungotevere Arnaldo da Brescia viene raggiunto da un commando della Ceka fascista (antesignana dell’Ovra) al comando di Amerigo Dumini, che lo sequestrano, lo caricano con violenza su una Lancia Kappa noleggiata da Filippo Filippelli, direttore del quotidiano fascista «Corriere Italiano», e partono a gran velocità in direzione di Ponte Milvio. In auto scoppia un violento alterco, e il fascista Giuseppe Viola accoltella Matteotti, che muore. Il corpo verrà seppellito a Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano a 25 chilometri da Roma. La salma in decomposizione verrà ritrovata il 12 agosto 1924 da un cantoniere. Il primo giudice istruttore che si occupa del caso è l’integerrimo magistrato pugliese (originario di Rodi Garganico) Mauro Del Giudice, che infatti viene prima minacciato dal regime fascista, e infine prontamente estromesso dalle indagini.
Nel 1926 si svolgerà a Chieti un processo farsa in cui il pubblico ministero Del Vasto, durante la requisitoria, divide il capo di accusa in due momenti ben distinti. Il primo è l’ordine di sequestro, il secondo è l’uccisione. I due capi di imputazione non vengono collegati, e quindi chi ha dato l’ordine del sequestro non ha dato quello di uccidere; chi ha ucciso lo ha fatto involontariamente. La cosa ancora più farsesca è che a difendere gli esecutori fu incaricato Roberto Farinacci, ras di Cremona, esponente di spicco dell’ala oltranzista e in seguito filonazista del fascismo, e all’epoca segretario nazionale del Pnf, che trasforma l’udienza in un processo politico all’antifascismo italiano. La magistratura però sarà decisamente mite con gli imputati: il 24 marzo 1926, infatti, la Corte d’Assise riconosce gli squadristi Cesare Rossi e Giovanni Marinelli colpevoli dell’ordine di sequestro e Filippo Filippelli per avervi cooperato. Però, essendo i loro reati estinti per l’amnistia del 31 luglio 1925, verranno subito rimessi in libertà. I sequestratori Viola e Malacria sono assolti per non aver commesso il fatto; Volpi, Dumini e Poveromo invece sono condannati a cinque anni 11 mesi e 20 giorni, che, sempre in virtù dell’amnistia, si ridurranno a solo altri due mesi di prigione. Giustizia – per modo dire, proprio come ai tempi odierni – è stata fatta. Non dimentichiamo che la magistratura, dopotutto, è un ingranaggio della sovrastruttura statale, e serve a conservare il sistema vigente e la sua struttura. Il Regime passò infatti questo momento critico, apprestandosi ad avviarsi verso il totalitarismo. Ma la domanda è: che c’entra tutto questo con una storia di tangenti? Qual era il vero messaggio che sarebbe trapelato dalle future dichiarazioni dell’esponente del Partito socialista unitario?
Nel 1921 il Movimento dei fasci di combattimento – nato a Milano in piazza San Sepolcro nel 1919 – diventa il partito fascista, che auspica la presa del potere, e archivia l’iniziale fase populista, movimentista e trasversalista. Tutto questo ha una spesa. Numerosi quadri del Pnf si dedicarono al traffico dei residuati bellici, attività che non coinvolge solo il fascismo. Quantità di armi cedute ufficialmente per rottamazione a finte cooperative di reduci, che nella pratica, però, vengono ricollocate sulla piazza europea a prezzo di mercato con evidente margine di guadagno. Nel Pnf si distinguono Carlo Bazzi, direttore di «Nuovo Paese», e uno dei protagonisti dell’affare Matteotti, Amerigo Dumini, arrestato per esportazione illegale d’armi al neonato Regno di Jugoslavia. Ma il business delle armi però è per così dire un osso più che spolpato, dato che non è monopolio dei soli fascisti. Filippo Filippelli, giornalista e faccendiere fascista, anch’egli implicato nel caso Matteotti, capisce che bisogna muoversi in altre zone per pescare capitali. Uno è quello di muoversi nell’ambito dei grandi appalti, delle infrastrutture pubbliche, dei finanziamenti per grandi opere ed in particolare nel commercio floridissimo del petrolio. Nel 1922, l’anno in cui Mussolini forma il suo governo, l’80% del mercato petrolifero del Regno d’Italia era gestito dagli americani della Standard Oil tramite la Società Italo-Americana del Petrolio, mentre il restante era fornito dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell, come ci spiegano sia lo storico Mauro canali che il giornalista ed ex dirigente dell’Eni Benito Li Vigni.
Nel 1923 la Anglo-Iranian Oil Company, società petrolifera di proprietà del governo di Londra, decide di scalzarne una fetta con un’efficace concorrenza, peraltro gradita. Peccato che Gelasio Caetani, ambasciatore italiano a Washington, si fece portavoce di un’altra azienda statunitense, la Sinclair Oil, precedentemente sostenuta da alcuni dei principali gruppi finanziari di New York, come la banca di John Davidson Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil, la quale, con quello che si può definire come un colpo di mano, riesce a spuntare col neonato governo fascista – una coalizione di centro-destra composta dalle varie anime del liberalismo conservatore italiano, dai fascisti, dai nazionalisti e dai cattolici popolari – una Convenzione a costi più alti dell’azienda inglese. Non saranno pochi fra i deputati delle opposizioni a chiedersene il perché, e la cosa insospettì l’Anglo-Iranian Oil Company. Nonostante questo il governo continua le trattative, arrivando ad una Convenzione, fatta approvare ad un Consiglio dei Ministri poche settimane dopo le elezioni del 1924. La Sinclair Oil, con questa Convenzione, ottenne così l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti nel territorio italiano, come in Emilia e in Sicilia. La Sinclair ottenne molti vantaggi per poter effettuare scavi in tutta la penisola, come una durata novantennale della concessione e l’esenzione dalle imposte. In cambio di tangenti, la Sinclair avrebbe inoltre ottenuto di non permettere a un ente petrolifero statale – ergo, italiano – di intraprendere trivellazioni nel deserto libico, colonia italiana. Il governo italiano scelse come mediatori per trattare con la Sinclair dei politici del Pnf, degli imprenditori e dei diplomatici come, ad esempio, i Ministri dell’economia nazionale Orso Mario Corbino e dei lavori pubblici Gabriello Carnazza, che avevano dei conflitti d’interesse in quanto legati tra di loro da imprese commerciali (molte delle quali, guarda caso, in Sicilia) e imprese con diversi gruppi finanziari ed aziendali statunitensi (tra cui la casa Morgan, uno dei finanziatori della Sinclair Oil).
Mauro Canali inserisce fra i vari mediatori, inoltre, lo stesso giornalista Filippo Filippelli (fondatore del «Corriere Italiano» a cui fu intestato il noleggio dell’auto usata per il sequestro del deputato), legatissimo al fratello del Duce, Arnaldo Mussolini, e documenta che pochi giorni prima della stipula della Convenzione questi avesse ricevuto una prima rata di una tangente pari a un milione di lire, a cui ne avrebbero dovute seguire altre dalla Società Italo-Americana pel Petrolio, filiale italiana della Standard Oil. Tutto questo avveniva poco prima delle elezioni del 1924 – svoltesi con la legge elettorale Acerbo – nonostante l’immagine della Sinclair Oil era stata minata da uno scandalo molto grave che venne rilevato da moltissimi quotidiani in tutto l’Occidente, ad eccezione della stampa italiana, che si stava avviando alla dittatura del Minculpop e delle veline di regime: l’impresa petrolifera era stata implicata in un caso di corruzione per ottenere il controllo di un pozzo di petrolio molto redditizio situato a Teapot Rock, nel Wyoming. L’inchiesta – conclusasi nel 1929 – si concluse con la revoca della suddetta concessione – ottenuta a suon di tangenti – e con la condanna del senatore repubblicano Albert B. Fall, rappresentate del gabinetto di governo che aveva firmato la concessione e di Harry Ford Sinclair, presidente della Sinclair Oil.
E così entra in gioco il governo britannico che interpretò gli accordi fra il governo Mussolini e i nordamericani della Sinclair Oil come un attacco diretto ai suoi interessi economici. La stampa britannica contestò energicamente la Convenzione italo-americana (nonostante certe clausole, come la concessione di un vero e proprio regime di monopolio a favore degli americani della Sinclair Oil nell’intraprendere trivellazioni nel deserto della Libia, una colonia del Regno d’Italia, non fossero di pubblico dominio). Ed è qui che entra in gioco Giacomo Matteotti.
Il segretario del Psu – il leader era Filippo Turati, fondatore del Psi – era di casa in Inghilterra. Nel 1924, poco prima della sua morte, Matteotti aveva fatto tradurre in inglese il suo libro Un anno di dominazione fascista col titolo The Fascists exposed. A Year of Fascist Domination, una cronaca delle violenze perpetrate dalle camicie nere e dalla polizia fascistizzata, col benestare del primo ministro Benito Mussolini, ai danni delle opposizioni e del movimento operaio italiano. Il Psu era vicinissimo al Indipendent Labour Party, al potere in Inghilterra, e Matteotti, nel bel mezzo dello scandalo Sinclair Oil e delle trattative col governo fascista, effettua il suo viaggio. Canali documenta, fonti alla mano, che durante il viaggio Matteotti acquisì, probabilmente da fonti vicinissime o organiche ai laburisti, le prove della corruzione presente nell’affare Sinclair, o per lo meno avrebbe completato le informazioni già in suo possesso.
Lo stesso Benito Li Vigni nota che la tesi secondo cui la fonte delle informazioni della corruzione del governo italiano era britannica, è confermata da diversi articoli pubblicati negli Stati Uniti dopo la morte del deputato e da un articolo apparso sul «Popolo d’Italia», l’organo ufficiale del Pnf, nell’agosto del ’24, dove si affermava, però, che i possibili mandanti dell’omicidio potevano essere gli stessi inglesi: «Non mi meraviglierei – scrive Mussolini – che dovesse risultare domani che la mano stessa che forniva a Londra all’on. Matteotti i documenti mortali, contemporaneamente armasse i sicari che sul Matteotti dovevano compiere il delitto scellerato». Il «Daily Herald», organo ufficiale dell’Indipendent Labour Party, sostenne sin dall’inizio che l’omicidio di Matteotti era direttamente legato al timore che questi, ritornato in Italia, denunciasse la corruzione dei vertici governativi alla Camera, attaccando anche Arnaldo Mussolini, destinatario di una tangente pari a 30 milioni di lire pagate dalla Sinclair. Il periodico «English Life» pubblicò un articolo postumo del defunto deputato in cui questi denunciava a chiare lettere sia la compagnia petrolifera statunitense che il governo fascista per corruzione. Gli accordi con la Sinclair, quindi, verranno cancellati dal governo italiano nel novembre 1924.
Nel 1947, in seguito al Decreto Luogotenenziale 159 del 27 luglio 1944 (che rendeva potenzialmente nulle le condanne avvenute in epoca fascista superiori ai tre anni), la Corte d’Assise di Roma riaprì il processo nei confronti di Giunta, Rossi, Dumini, Viola, Poveromo, Malacria, Filippelli e Panzeri. Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all’ergastolo (pena che verrà poi commutata in 30 anni di carcere. Dumini verrà poi amnistiato sei anni più tardi), mentre per gli altri imputati la Corte riconobbe il non luogo a procedere a causa dell’amnistia disposta dal Dpr numero 4 del 22 giugno 1946. All’epoca del processo, però, non saltarono fuori le ragioni economico-finanziarie, e passerà alla storia che l’on. Matteotti venne ucciso solo per aver denunciato alla camera i soprusi e i brogli fascisti. Un’altra possibile pista – legata a quella economico-affarista – coinvolgerebbe Vittorio Emanuele III, del tutto indifferente nei confronti della firma della Convenzione con la Sinclair Oil e vicino agli ambienti mussoliniani durante il delitto e durante l’Aventino. Questo sembrerebbe confermato dalle disastrose finanze di casa Savoia. Secondo Canali, «I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che mandante dell’omicidio fosse re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair.
Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l’eliminazione del suo avversario politico». «Le camicie nere – prosegue lo storico – furono finanziate dalla Standard Oil». La tesi di Mussolini finanziato dal capitalismo inglese è senz’altro provata da fonti d’archivio, anche se risulta molto indigesta all’estrema destra moderna, che vede nel fascismo una rivoluzione social-nazionale e non la reazione del ceto medio antisocialista. Secondo Maurizio Barozzi, esponente di spicco della Federazione nazionale combattenti della Rsi (FNCRSI), «quel delitto ebbe una triplice finalità:
1- eliminare un uomo (Matteotti) in procinto di denunziare una serie di scandali che avrebbero coinvolto vari settori dell’industria e della finanza, e soprattutto casa Savoia; sbarazzarsi di un capo di governo (Mussolini) che con il suo dirigismo nella prassi di governo, non consentiva ai grandi gruppi speculativi, alcuni sorti anche all’ombra della Presidenza del consiglio, di trafficare in ogni campo. Gruppi finanziari e speculativi, a cominciare dalla Commerciale di Toeplitz, che pur avevano investito forte sul fascismo e nella marcia su Roma; far saltare certi progetti, che già nel 1923 si delineavano nella mente di Mussolini, circa una apertura ai socialisti e ai confederali e verso la Chiesa, prospettiva quest’ultima alquanto temuta dalla massoneria».
Ma i casi di corruzione non si limitano a questo. La ricerca di Canali parte da un’altra parte: il giornalista Ray Moseley, corrispondente da Londra del «Chicago Tribune», in un suo libro su Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri e genero del Duce, scrive: «Alcuni documenti conservati nell’Archivio nazionale degli Stati Uniti hanno rivelato che Galeazzo Ciano aveva nascosto milioni di pesos in Argentina e, assieme a Mussolini, aveva depositato segretamente altri fondi in Svizzera». Il Duce, sostengono fonti vicine all’intelligence americana – un plico di carte dal titolo Flight of Italian Capital (Mussolini), fatte pervenire a Gennaro De Stefano, giornalista di Oggi – costruì una fortuna all’estero che non fu utilizzata né da lui né dai suoi discendenti. Il mito neo/postfascista di Mussolini fucilato a Dongo dai “malvagi” partigiani che muore “povero” al punto che, appeso per i piedi, non ha neppure un centesimo in tasca, è un mito falso e buono per aggregare una comunità militante e nostalgica, ma inservibile da un punto di vista storiografico. Alcuni però, preferiscono scagionare Mussolini, dando colpa solo alla Corona: prima del 1997, infatti, vi erano stati dei giornalisti che avevano fiutato la pista affaristica: sul quotidiano del Psi «l’Avanti!» del 27 luglio 1985 (pag. 8), Antonio Landolfi parlava de La Massoneria e il delitto Matteotti: un’altra verità, recensendo il libro di Matteo Matteotti Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, dove viene incolpata Casa Savoia, e il mensile «Storia Illustrata», nel novembre dello stesso anno, dedicava ampio spazio all’argomento, pubblicando un’intervista all’esponente del Psdi dal titolo: Delitto Matteotti. Fu uno sporco affare di petrolio. Nell’intervista, rilasciata a Marcello Staglieno, giornalista-storico de «Il Giornale» di Montanelli transitato poi a «Il Secolo d’Italia». Nell’intervista Matteo Matteotti afferma che nel 1924 i giornali parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere portata dal padre alla Camera, riferendosi in particolare a un dossier, contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che riguardava appunto, assieme alle bische, i petroli e che implicava anche la Massoneria italiana e una possibile affiliazione, non improbabile, di Matteotti.
A riguardo cita un’intervista rilasciata da Gianfranco Fusco al quotidiano della Fiat nel 1978 dove si affermava che «Nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia, duca d’Aosta raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla Rispettabile Loggia “The Unicorn And The Lion”. E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil, la futura Bp, esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel registro degli azionisti senza sborsare una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a mantenere il più possibile ignorati (covered) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone dell’entroterra libico». Aggiunse ancora: «Sempre sul piano delle ipotesi, ai primi di giugno a De Bono si sarebbe presentato un informatore, certo Thishwalder, con una notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier sulle collusioni fra il re e la Sinclair».
La stampa neofascista – ovviamente – ci andò a nozze, dato che scagionava “l’amato Duce”, incolpando la monarchia e la massoneria. Il settimanale di destra «Il Candido» infatti, diretto dall’allora senatore missino Giorgio Pisanò – odiato dalla destra radicale in quanto filosionista e filoatlantista, che gli rinfacciava sempre i rapporti confidenziali coi carabinieri –, dedica al “caso Matteotti” ben due pagine nel gennaio del 1986. «La massoneria – è la tesi di fondo – fa uccidere Matteotti per addossare la responsabilità a Mussolini e conseguentemente costringerlo alle dimissioni». «Il gruppo che decretò la morte di Matteotti era legato a grossi industriali, si trattava insomma di un gruppo di potere che poteva contare, fra l’altro, sull’attivo concorso della Massoneria di Palazzo Giustiniani e su uomini politici del peso di Filippo Turati e di Giovanni Amendola». Insomma, i socialisti antifascisti e riformisti che farebbero ammazzare un loro compagno che smaschera e denuncia il loro avversario numero uno, Benito Mussolini, l’uomo che stava conculcando la loro libertà! «Il Candido» citava come “prova” frasi di Mussolini riguardo al rapimento e al delitto, descritti come «una bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla» (parlando con la sorella Edvige) in chiaro riferimento ad alcuni suoi collaboratori (De Bono, Marinelli, Finzi e Rossi, quasi tutti legati alla massoneria). In un’altra occasione ebbe a definire il delitto «un cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare».
Nel discorso alla Camera del 13 giugno Mussolini aveva gridato: «Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione». E’ errato dimenticare che Matteotti fu una vittima anche politica del fascismo, un uomo coraggioso – ce ne sono oggi in circolazione? – capace di denunciare anche le malefatte affaristiche di un regime in cui la violenza, l’intolleranza e il totalitarismo erano insiti nella sua stessa natura, una vera e propria «via italiana al totalitarismo», «un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario, antiliberale e antimarxista, organizzato in un partito milizia, con una concezione totalitaria della politica e dello Stato, con un ideologia attivistica e anti teoretica, a fondamento mitico, virilista e anti edonistica, sacralizzata come religione laica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno Stato corporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenza e di conquista, mirante alla creazione di nuovo ordine e di una nuova civiltà».
Avanti! 17 Giugno 1924
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