ANTONIO PICCININI, UN SOCIALISTA MASSIMALISTA NELLA “PROVINCIA COOPERATIVA”. TRUCIDATO DAI FASCISTI, ERA CANDIDATO ALLE ELEZIONI POLITICHE DEL 1924

di Giorgio Boccolari |

Il 28 febbraio del 1924 a Reggio Emilia, veniva assassinato da elementi fascisti al soldo della federazione provinciale, Antonio Piccinini. Candidato alle elezioni che si sarebbero svolte il 4 aprile successivo, era il “fiduciario” del PSI reggiano (all’epoca massimalista).[1] Non aveva ancora compiuto quarant’anni.[2] L’assassinio destò un grande scalpore e non soltanto a livello locale. La Direzione nazionale del suo Partito decise di far riversare sul suo nome le preferenze degli elettori socialisti e, in conseguenza di ciò, egli risultò eletto deputato, come si scrisse allora, “post mortem”. L’efferato delitto venne successivamente denunciato, assieme alle intimidazioni e alle violenze di quella vicenda elettorale, da Giacomo Matteotti, nella storica requisitoria alla Camera  del 30 maggio a seguito della quale sarà anch’egli assassinato da killer mussoliniani.[3]

1. La vita e l’azione politica

La vicenda storica e politica del tenace operaio tipografo Antonio Piccinini fu doppiamente emblematica. Da un lato essa si collocava nell’alveo di quell’intransigenza classista, poi ripresa su basi ideologicamente rinnovate dall’ordinovismo gramsciano, che lo faceva restare – come si diceva allora – nella vecchia Casa Socialista, nonostante i contrasti che nell’immediato dopoguerra s’erano acuiti insanabilmente. Dopo la Grande guerra, infatti, anche nel PSI reggiano, accanto alla tradizionale corrente riformista “prampoliniana”, s’era costituita e andava sempre più rafforzandosi grazie al lavoro politico di Piccinini una corrente massimalista che nel 1920 si articolava nella componente “comunista unitaria” (della quale il massimo esponente nella federazione socialista reggiana era lo stesso Piccinini) e in quella “comunista pura” (l’ala radicale poi scissionista col PCd’I nel gennaio del ‘21). Fin dal 1914 egli si oppose alla fitta rete organizzativa ordita dal ceto dei leaders della federazione socialista reggiana, la cosiddetta “arca santa del riformismo”, diretta da avvocati, professori, maestri elementari, ecc. La critica di Piccinini al socialismo riformista prampoliniano puntava l’indice contro il tatticismo economicistica – del leghismo e del cooperativismo fini a se stessi – e contro il mito amministrativo, tutti elementi i quali, avendo come traguardo immediato i miglioramenti materiali, rischiavano d’intorpidire le coscienze e la combattività dei lavoratori.  Certo il massimalismo[4] rifletteva una fase di passaggio tra il socialismo delle origini e la nuova fase di lotta del movimento operaio e contadino caratterizzata dal successo della rivoluzione in Russia. Ma il tipografo massimalista non fu un cieco bastiancontrario come taluni vollero dipingerlo; perseguì certo una politica intransigente e rivoluzionaria, ma cercò sempre di rifuggire dal settarismo nel perseguire i propri obiettivi, come dimostrano i suoi rapporti affettuosi coi leaders riformisti locali considerati “padri” rimasti ancorati ai convincimenti della loro generazione, quella che diede origine al movimento socialista.

La formazione della corrente massimalista all’interno della federazione socialista reggiana, poco dopo il primo decennio del Novecento, fu in larga misura il frutto dell’instancabile attività di questo modesto ma tenace operaio tipografo. La “tendenza” ideologica e politica massimalista nella riformistica Reggio prampoliniana, cominciò a configurarsi organizzativamente subito dopo il Congresso nazionale del PSI di Roma del settembre 1918. Essa crebbe e si sviluppò grazie all’instancabile opera di militanza di Piccinini che trovava terreno fertile nelle profonde lacerazioni sociali, politiche ed economiche prodotte dalla Grande guerra.

Ma fin da quando iniziò a delinearsi la possibilità dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, la coerente opera di critica che Piccinini svolgeva nei confronti della linea riformista del PSI, “tenue” nell’opporsi all’interventismo della classe dirigente nazionale oltre che prevalentemente interessata a rivendicazioni di carattere prevalentemente economico (sia pure a favore della classe lavoratrice), iniziò a manifestarsi non senza qualche irritazione fra i leaders riformisti reggiani.[5] Nato nel 1884 egli era espressione di una “leva” socialista che considerava criticamente seppure con grande rispetto gli esponenti della “vecchia guardia” dei “fondatori del Partito” al quale il giovane Antonio aveva aderito poco prima del 1914. Piccinini aveva iniziato, ventenne, anche l’attività giornalistica, svolta quasi esclusivamente sulle colonne de “La Giustizia” sia nella versione quotidiana, che in quella domenicale, attività che per lui costituiva il completamento dell’impegno politico. La sua “fede” socialista si rifletteva altresì nell’impiego presso la Cooperativa lavoranti tipografi, la stessa che stampava il giornale “La Giustizia”, e nell’opera sindacale sottesa a questa sua attività, esercitata nella Federazione (reggiana) del Libro.[6] Il primo articolo firmato da Piccinini, pubblicato su quotidiano socialista reggiano il 30 dicembre 1914 e intitolato La disoccupazione operaia e il dovere del governo, poneva in primo piano l’obiettivo della piena occupazione e rivendicava per il Paese “una politica saggia, democratica, di pace, di lavoro, di uguaglianza”.[7] Ma il suo impegno nel settore giornalistico andava ben oltre l’attività pubblicistica se si considera il suo coinvolgimento nella “Società per la diffusione della stampa socialista” che d’accordo con la “Società Editoriale Avanti!” di Milano, aveva aperto a Reggio nel ’16 una libreria per la rivendita dei giornali socialisti e di “tutte le opere che può fornire la suddetta Società”.[8]

Coerente fu la sua battaglia antimilitarista che lo vide schierato sulle stesse posizioni radicalmente contrarie alla guerra della FIGS (la Federazione giovanile socialista). E fu tanto più coerente in quanto, “riformato” dal servizio militare per gracilità fisica. Ma il suo slogan, come peraltro quello dei socialisti reggiani nella loro stragrande maggioranza, era: “Guerra al regno della guerra, morte al regno della morte”.

Prima dell’entrata in guerra dell’Italia, nel corso del Congresso collegiale (socialista) di Reggio Emilia del 7 marzo 1915, prospettò la possibilità di opporsi drasticamente a detta eventualità attraverso lo sciopero generale.[9]

Già il 23 aprile del 1915 aveva deplorato l’adesione dei socialisti al Comitato d’organizzazione dei servizi civili (contro i danni della guerra) [10] ed ancora il 3 agosto di quello stesso anno aveva duramente stigmatizzato il “Comitato di preparazione civile” che giudicava “una forma primitiva di collaborazionismo”.[11] Nel corso di un’assemblea socialista, nel novembre del 1916 espresse ancora una volta critiche al larvato collaborazionismo manifestato da Turati e dalla corrente riformista del PSI verso il Ministero Boselli che s’era detto fautore di una pace fondata sul principio di nazionalità.[12] In effetti, il disastro della prima guerra mondiale coi lutti e le miserie che s’era trascinata con sé, ruppe gli esili equilibri del giolittismo e del suo rapporto con la parte moderata e transigente del movimento operaio: dunque un intero sistema, quello riformista e classista, dei seguaci di Camillo Prampolini, quello della conquista dei municipi, della creazione delle leghe e delle cooperative, quello moderato ma concreto e realizzatore instillato nella testa e nei cuori dei proletari reggiani attraverso la propaganda capillare e l’adozione della via legalitaria ed elettorale, cominciava ad essere messo seriamente in discussione.

La sua battaglia antimilitarista e il suo comportamento politico rigidamente classista, coagularono attorno alla sua persona ed alla sua corrente (frazione, si diceva allora), una vasta messe di consensi. Lo dimostra il successo ottenuto nel Congresso provinciale del 28-29 giugno 1919 dall’ordine del giorno massimalista[13] grazie al quale egli fu eletto segretario della Federazione. In luglio poi assunse l’incarico di segretario della Commissione federale di propaganda e nell’agosto espose, in una  riunione della sezione socialista cittadina la sua adesione che era personale ma anche e soprattutto della sua frazione/corrente alla Terza internazionale.[14] La carica di segretario[15] gli permise di forzare le tappe nell’organizzazione della Frazione massimalista e di fornire ad essa una robusta struttura di militanti, individui che i più arrabbiati fra i riformisti ritenevano fossero stati scelti tra i componenti di quella “canea di campagnoli” confluiti in città per il Congresso, che avevano consentito a Piccinini di vincerlo.

Anche la Federazione giovanile socialista reggiana ai cui congressi del dopoguerra il dirigente massimalista partecipò attivamente cominciarono a manifestare posizioni massimaliste.

Già nel corso delle lotte dei metallurgici alle officine OMI-Reggiane per le otto ore lavorative e i minimi salariali iniziate con lo sciopero del 1° settembre 1919 e concluse con la vittoria degli operai, il 19 dello stesso mese, parteciparono molti giovani socialisti massimalisti.

Il 4 gennaio 1920 in una sala della Biblioteca Popolare si svolse il primo Convegno provinciale della frazione massimalista. Piccinini espresse pesanti critiche nei confronti del riformismo del Gruppo parlamentare socialista, sostenendo tra l’altro che “certi pannicelli caldi, non li vogliamo e nemmeno li chiediamo. Non vogliamo le riformette, le briciole che cadono dalla tavola del ricco Epulone; ma vogliamo il tutto”. A proposito della tattica amministrativa, sostenne che il socialismo non poteva essere considerato soltanto sotto un profilo economico e istituzionale, mirante alla semplice razionalizzazione dell’economia capitalistica, come in parte poteva apparire dall’interpretazione che di esso davano molti riformisti. Egli lo intendeva invece (sono sue parole) “materiato e sorretto di una grande idealità”, poiché è “l’ideale che entusiasma i giovani e le folle al socialismo e non la miserevole questione utilitaristica”. [16] Si trattava di un discorso rivolto principalmente alla corrente moderata e riformista del PSI nazionale che tuttavia aveva certo anche risvolti locali, sebbene a Reggio essa fosse rappresentata da personalità di altissima dirittura morale come Camillo Prampolini, Antonio Vergnanini, Giuseppe Soglia, ecc. In quella occasione venne inoltre formata una commissione che doveva sovrintendere all’attività “frazionistica” in vista del prossimo congresso provinciale composta oltre che da Piccinini, da Domenico Cavecchi, Giuseppe Zanfi, Enrico Corradini  e Mussini.[17]

La reazione dei riformisti reggiani al consolidarsi in sede locale della tendenza massimalista non tardò ad arrivare. Vennero pubblicati su “La Giustizia” una serie di articoli che, difendendo le conquiste politiche ed economiche della “provincia cooperativa”, definivano in modo spregiativo i massimalisti come un “gruppo di dissidenti, più critici che operosi, più negativi che attivi”, evidenziando una visione faziosa e provinciale del fenomeno massimalista che ne trascurava le ragioni politiche più profonde.[18]

Ovviamente la veemenza della reazione riformista doveva portare i suoi frutti. Così al Congresso provinciale che si svolse nel gennaio del 1920, si determinò, seppure per pochi voti, un ribaltamento delle posizioni ed il ritorno della segreteria nelle mani dei prampoliniani.[19]

Dall’analisi del voto delle varie sezioni in questo e nel precedente congresso si ricavano elementi di sufficiente attendibilità per tentare una localizzazione geografica della tendenza massimalista nel Reggiano e della sua entità. In particolare è possibile affermare che essa – e lo dimostra la sua regolare distribuzione su tutto il territorio provinciale nel biennio 1919-’20 – era ormai una forza politica con alcuni significativi margini di autonomia nell’ambito del partito socialista locale. Essa dunque non poteva più essere liquidata con argomentazioni ispirate ad un generico patriottismo di partito o peggio con valutazioni ancor più superficiali. Cominciava a prendere piede infatti, soprattutto tra i lavoratori dell’industria e delle OMI-Reggiane in particolare, l’idea che per modificare i rapporti di forza economico-sociali a favore delle classi subalterne, fosse necessaria una vigorosa azione politica e sindacale, non più o non soltanto fondata sulle indubbie capacità di mediazione degli organizzatori riformisti che avevano ordito la fitta trama delle cooperative e degli altri organismi sindacali prampoliniani.[20] La corrente massimalista nacque proprio dalla incapacità dei riformisti nel fornire risposte complessive ai gravi problemi posti dalla guerra. Tali problemi infatti mettevano in luce la profonda crisi dello Stato post-unitario il quale, per l’arretratezza della sua base economica e per la debolezza specifica delle sue strutture politiche e istituzionali, non poteva certamente favorire, nemmeno a Reggio, quelle tendenze collaborazionistiche del riformismo che si erano già da tempo consolidate nella prassi di altri paesi europei e particolarmente in Inghilterra. Se è vero che l’influenza prampoliniana era fortissima nelle campagne, lo era comunque di meno laddove si aveva una forte presenza bracciantile o – in una provincia come quella reggiana, prevalentemente caratterizzata dalla mezzadria e dall’affittanza – laddove l’abbondanza di mano d’opera produceva fenomeni di pendolarismo nei confronti delle poche industrie cittadine. Si spiega, così, l’adesione alle tesi massimalistiche delle sezioni socialiste del forese e di molte altre situate in zone prettamente agricole. Il lavoro in fabbrica e le lotte che vi si conducevano, eludevano dunque l’opera di mediazione sindacale degli organizzatori prampoliniani. Ma Reggio Emilia era sempre troppo condizionata da queste stesse organizzazioni perché si potesse facilmente scardinare l’ordito riformista costruito in tanti anni di lotte e di vittoriose conquiste. Soprattutto la sezione socialista di città, la più forte numericamente e politicamente egemonizzata dai riformisti prampoliniani più convinti oltre che dallo stesso Prampolini e da Zibordi, esercitava una leadership fortissima sulla provincia. Questa situazione spiega, anche se in modo non esauriente, l’egemonia ideologica e politica del riformismo reggiano, del quale anche la maggioranza dei massimalisti pur dissentendo da esso profondamente si sentiva parte integrante.[21] La forza carismatica di Camillo Prampolini riuscirà a trattenere molta parte del Partito reggiano all’interno del PSI dopo il Congresso di Livorno da cui si scisse l’ala “comunista pura” (gli unitari invece o “comunisti unitari” erano i massimalisti che non se la sentirono di espellere i riformisti). La stesso Prampolini otterrà che nella stragrande maggioranza le sezioni socialiste reggiane si trasformassero dopo il Congresso nazionale del PSI nel 1922, in sezioni del PSU (Partito socialista unitario) di orientamento schiettamente riformista.

Ma fin dall’inizio del 1920 per Piccinini la situazione politica si faceva difficile. Tuttavia, a differenza del Congresso provinciale “adulto” (PSI), del gennaio ’20, concluso con la vittoria di stretta misura dei riformisti guidati dal deputato prampoliniano Amilcare Storchi, nel Congresso provinciale “giovanile” (FIGS) che si svolse il 27-28 giugno dello stesso anno, per la prima volta la frazione massimalista conquistò maggioranza e segreteria. Reggio non era tuttavia che la punta di un iceberg. Dopo la crescita impetuosa del movimento dei Consigli, la lotta politica assunse nel Paese toni molto accesi.[22]

In una seduta della Federazione del maggio 1920 Piccinini si schierò decisamente dalla parte degli ordinovisti torinesi, dando inoltre la sua totale adesione al cosiddetto “sciopero delle lancette”. In realtà il risultato pratico di questo movimento sarà abbastanza fallimentare. Non erano maturi i tempi, probabilmente, per una generalizzata occupazione delle fabbriche e per la conquista rivoluzionaria del potere. Ciononostante Piccinini era preso dallo stesso entusiasmo per la “dura” lotta di classe che era propria dei Terracini e dei Tasca. Il suo soviettismo, le suggestioni del “fare come in Russia” – non essendo ancora chiari i termini che lo stato sovietico poneva per l’adesione alla Terza internazionale in questo 1920 in cui si sarebbe concluso con una svolta reazionaria il cosiddetto “biennio rosso” -, l’indicazione che egli dava circa la costituzione di “Comitati di operai, soldati e contadini”, erano parte integrante della sua opzione massimalista.

Questa sua precisa collocazione politica Piccinini – tra l’altro egli espresse a più riprese il concetto secondo il quale sarebbe stato necessario entrare in Parlamento per abbatterlo e per trasformare lo Stato in senso socialista – la ribadì nel corso del Convegno provinciale della sua “frazione” che si svolse il 16 maggio dello stesso anno, ancora una volta convocato in una sala della Biblioteca popolare.[23] In quell’occasione, lamentò le deficienze organizzative della frazione – nonostante il sostanziale consolidamento che, pur nella sconfitta di misura, essa aveva ottenuto al Congresso provinciale del gennaio – e lesse una lettera di Serrati. Il direttore dell’”Avanti!” scusava la sua assenza dimostrando tuttavia di considerare già Piccinini un quadro di livello “nazionale”:

“Carissimo Piccinini, dal solo fatto che io tardo a rispondere ai compagni tu devi arguire quante sono le mie occupazioni e quanto e quanto mi trovo impegnato.Ti avevo promesso di venire fra voi. Verrei volentieri anche per dissipare equivoci e per mettere molte cose a posto dopo tante esagerazioni che intorno alla nostra dottrina [massimalista, Ndr] si dicono e si scrivono. Ma come fare? Sono sempre come uccello sul ramo, un po’ a Milano ed un po’ a Roma e Torino e non mi rimane tempo per quell’opera di propaganda che è più nel mio temperamento e che farei tanto volentieri. Ad ogni modo vedrò se, tornando da Roma, potrò fermarmi a Reggio per qualche giorno. Tuo cordialmente – G.M. Serrati”[24]

Seppure aspramente criticato dai riformisti per queste sue posizioni tendenzialmente rivoluzionarie, essi lo chiamarono a far parte dell’Unione socialista comunale. Ma la sua attività, anche dopo la sua sostituzione da segretario provinciale, rimase intensissima. Tra l’altro, venne chiamato dalla Direzione del PSI a Roma e, nell’agosto del ’20, inviato a Benevento per organizzarvi la locale sezione e vi restò ottanta giorni ottenendo positivi risultati.[25] Nel periodo in cui Piccinini si trovava nel Beneventano – dove si fece promotore di uno sciopero, organizzò una lista elettorale socialista che prevalse alle comunali ed alle provinciali, consolidò la sezione cittadina del PSI, ecc.[26] – iniziò a Reggio l’occupazione delle fabbriche. Essa costituì un momento fondamentale di crescita politica della sinistra socialista. La verifica di questa importante “svolta a sinistra” che rappresentò il culmine della politicizzazione di massa nel dopoguerra la si ebbe nelle elezioni amministrative dell’autunno del 1920. Esse si tradussero per la provincia di Reggio Emilia (e non solo) in un grosso successo delle liste del PSI, successo che arrise anche allo stesso Piccinini il quale risultò eletto Consigliere provinciale. Egli sarà successivamente nominato assessore, anche se poi i tempi che coincideranno con la nascita e l’avvento del fascismo, si riveleranno infausti per gli amministratori socialisti.

Intanto nella Reggio “Mecca del socialismo riformista”, come la definì Pietro Marani rievocando i pionieri del socialismo nell’immediato post-Liberazione, si riunivano in un Convegno nazionale, il 10-12 ottobre 1920, trenta fra i più autorevoli esponenti riformisti i quali davano vita alla Frazione di Concentrazione del PSI che votava una mozione favorevole all’unità del Partito. Anche l’ala comunista unitaria (i massimalisti) il 20-21 novembre si riuniva a Firenze e, nel mentre affermava la necessità di una maggiore centralizzazione delle decisioni politiche, si dichiarava anch’essa per l’unità. Il 28-29 novembre si costituiva infine a Imola, in provincia di Bologna, la Frazione comunista pura. I suoi militanti proponevano di mutare il nome del PSI in quello di Partito Comunista d’Italia e affermavano l’incompatibilità dell’adesione alla terza Internazionale e la presenza nel partito dei riformisti della frazione di concentrazione.[27]

Un ulteriore convegno massimalista si svolgeva a Reggio, alla presenza del deputato Nicola Bombacci, pressochè in concomitanza del convegno nazionale massimalista di Firenze. Bombacci sarà poi firmatario della tesi comunista (Terracini-Bombacci) al Congresso nazionale socialista di Livorno. La sua presenza a Reggio dimostra il tourbillon delle manovre pre-congressuali. Nel convegno massimalista reggiano, egemonizzato da Piccinini, dopo una prima mozione votata all’unanimità, nella quale venne riaffermata La

“(…) immutata fede nei principi generali consacrati al Congresso nazionale di Bologna e sanzionati a Mosca – lotta rivoluzionaria del proletariato per l’abbattimento violento del dominio della borghesia e la organizzazione del proletariato in classe dominante – ”

e riconosciuta

“la necessità di dare alla propria frazione un’organizzazione che valga a disciplinare negli intenti e nella azione tutti i compagni massimalisti in qualunque contingenza della sua attività politica e amministrativa secondo le direttive tracciate dagli organi del Partito ma senza pregiudizio del loro particolare convincimento e della zione che ne può derivare in ordine alle correnti manifestatesi in seno al massimalismo italiano (…)”[28]

si svolse il dibattito.

Nel suo intervento Piccinini tuttavia moderò questa tesi rilevando l’eterogeneità del partito che alla destra arrivava fino ai social-patrioti e alla sinistra fino agli astensionisti. Per il leader massimalista reggiano, al fine di raggiungere l’omogeneità era necessaria una epurazione: a destra allontanando i Ciccotti, i Turati, ecc., a sinistra coloro che avevano ancora in mente l’entusiamo estremistico dell’immediato dopoguerra. Ma della frazione centrista a suo parere avrebbero dovuto andarsene soltanto i capi e restare “i soldati”, perché fosse mantenuta l’unità delle masse. Ribadendo che la dittatura del proletariato avrebbe dovuto essere un fenomeno transitorio nella fase del consolidamento del nuovo assetto politico proletario, richiamò inoltre la necessità della propaganda e della organizzazione delle province meridionali per poter fare la rivoluzione.[29]

Le vicende che portarono alla scissione comunista furono vissute intensamente dal tipografo massimalista ormai impegnato a tutto tondo nel ruolo di dirigente politico. Protagonista di accesi dibattiti contro le tendenze opportunistiche che in quel periodo si manifestarono anche all’interno della sua “frazione”, Piccinini coltivò sempre l’idea della centralità del PSI e l’illusione che esso fosse la “vecchia casa socialista” nella quale prima o poi tutti sarebbero ritornati. Proprio per questa sua convinzione, egli continuò l’attività nel vecchio Partito. Così, la sua vocazione unitaria lo vide oppositore di tutte le scissioni (da quella comunista del 1921 a quella riformista del ’22). Essa traspariva con chiarezza nell’intervista rilasciata a “L’Ordine Nuovo” nel giugno del 1921, nella quale egli giustificava la scelta dei riformisti (e segnatamente di Camillo prampolini) di non partecipare alle elezioni politiche del 15 maggio, pur essendo personalmente contrario all’indirizzo astensionistico.[30] L’astensionismo socialista – sia pure indirettamente – favorì la prima vittoria elettorale del blocco fascista a Reggio.

Se in luglio partecipò in misura determinante alla redazione di un numero unico della Frazione massimalista della provincia di Reggio Emilia,[31] propedeutico alla ricostituzione della sua “frazione” dopo lo scioglimento della Federazione reggiana che aveva disatteso il deliberato della Direzione nazionale indicando l’astensionismo elettorale, numero unico nel quale egli inasprì i termini dell’ormai annosa polemica coi riformisti, nell’agosto dello steso anno subì un bando da parte del cosiddetto “Comitato di salute pubblica fascista” a causa del quale dovette lasciare Reggio e riparare a Parma. Nella vicina città emiliana rimase sei mesi e da questo esilio poté recarsi spesso a Milano per partecipare alle primissime riunioni del Comitato di difesa socialista, costituito grazie ad un’iniziativa “autonoma” di Pietro Nenni messa in atto sulle colonne dell’ “Avanti!” per osteggiare la fusione del PSI col PCd’I decisa al IV Congresso del Komintern a Mosca. Quando rientrò a Reggio nel 1923, Piccinini assunse l’incarico di segretario provinciale (fiduciario, si diceva allora) dell’ormai decimato partito socialista italiano. Il PSI massimalistico stava sempre più assotigliandosi, perdendo aderenti a destra verso il PSU e soprattutto a sinistra verso il PCd’I. Inoltre una tendenza terzinternazionalista (o terzina, com’è più nota), che operava per la fusione del PSI con i comunisti e dunque contraria al Comitato defensionista nenniano, stava chiaramente affermandosi anche a livello locale, specialmente dopo il Congresso nazionale del PSI tenutosi a Milano nell’aprile del 1923. La situazione d’incertezza e di terrore che il fascismo andava determinando, contribuiva poi ad accrescere quell’opera di vera e propria frantumazione del socialismo reggiano che le divisioni, le polemiche e l’incomprensione della gravità della situazione, avevano favorito.

La semiclandestinità nella quale dovevano operare i dirigenti dei partiti proletari fece sì che Piccinini si trovasse praticamente solo nel 1923, abbandonato anche da molti vecchi compagni di provata fede massimalista. Il leader storico del massimalismo reggiano era ormai solidamente ancorato alle posizioni “defensioniste” nenniane, contrarie ad una fusione – almeno in tempi brevi – col PCd’I. Erano ormai alle porte le elezioni politiche che si sarebbero svolte il 6 aprile dell’anno successivo (1924) quando alla fine del ’23 ebbero inizio nei partiti proletari (socialista e comunista) le manovre per verificare la possibilità di presentare liste unitarie fra PSI e PCd’I. Il 31 dicembre 1923 Piccinini fu sorpreso dalla forza pubblica in un Caffè di Bologna assieme a Pietro Nenni ed al reggiano Ernesto Tamagnini, mentre era in corso un convegno regionale clandestino tra i fiduciari del PSI per l’Emilia e la Romagna. Fu incarcerato ma immediatamente rilasciato il giorno successivo. Inserito solo all’ultimo momento nella lista del PSI per espresso volere dell’Esecutivo del Partito a causa della non avvenuta alleanza tra socialisti e comunisti, la sera del 28 febbraio 1924, Piccinini venne prelevato dalla propria abitazione da sicari fascisti e barbaramente ucciso con alcuni colpi di pistola alla schiena. L’assassinio, che si inseriva in una lunga serie di violenze e intimidazioni pre-elettorali, suscitò un grande scalpore, seppure con diversa tonalità d’accenti, in tutta l’opinione pubblica e nella stampa di ispirazione democratica e socialista. Piccinini rappresentò per molti il simbolo di un’esistenza messa al servizio del Partito e dell’Idea, senza curarsi del rischio personale e senza indulgere a considerazioni di comodo verso se stesso, atteggiamento che gli sarà fatale.

2. L’assassinio e i processi

Per una corretta ricostruzione del barbaro assassinio di Piccinini occorre rilevare che

dopo l’incursione fascista nella casa di un ex prete[32], all’epoca “socialista unitario” [33], Rodolfo Magnani, conclusasi con il trafugamento di alcuni oggetti e tessere di partito, i sicari del dirigente massimalista si presentarono alla porta di casa di Piccinini con la tessera dello stesso Magnani e lo trassero con loro a una presunta riunione socialista alla sede de “La Giustizia,”.[34]

Pur comprendendo l’inganno – tra il PSU (riformista) e il PSI (massimalista) c’era di mezzo una scissione dolorosa – e il pericolo cui andava incontro, Piccinini, davanti alla moglie ed alle figlie non poté sottrarsi al minaccioso invito. Non appena giunti in strada, lui e i suoi accompagnatori – il segretario reggiano del PSI abitava in una casa popolare in Gardenia” nei pressi della stazione della linea ferroviaria Reggio-Ciano -, anziché incamminarsi verso la città per recarsi in via Gazzata (sede de “La Giustizia”), si avviarono verso la campagna. A 400-500 metri, oltre il ponte ferroviario sul Crostolo nei pressi dei binari della Reggio-Ciano, all’alba del giorno successivo Antonio Piccinini venne rinvenuto cadavere con alcuni colpi di pistola alla schiena. E’ pressochè certo che dopo aver ucciso il candidato del PSI, gli assassini per crearsi un alibi si siano recati, travestiti da “Pierrot” nel vicino locale da ballo, il “Ciuppinesco”, nel quale si festeggiava il “giovedì grasso”.[35]

Sull’assassinio, nel periodo immediatamente successivo, si sono avute sostanzialmente due versioni. Una di parte fascista che smentiva si trattasse di un omicidio politico ed assolveva gli indiziati di reato, e un’altra basata su elementi inoppugnabili sia pure con lievi discordanze sulle modalità di esecuzione dell’efferato delitto.

In realtà l’assassinio del candidato massimalista era il punto d’arrivo di una strategia antiproletaria e anzitutto antisocialista che in provincia di Reggio aveva già conosciuto una lunga serie di tappe intermedie.[36] Convocato d’urgenza dal Segretario del PSI, Tito Oro Nobili, si riunì a Roma l’Esecutivo nazionale del Partito.

Il Segretario informò l’esecutivo di aver disposto che Pietro Nenni, che si era offerto spontaneamente, per l’amicizia che lo legava a Piccinini, si recasse immediatamente a Reggio per condurre un’inchiesta sulle cause dell’assassinio e poter scrivere alcuni servizi sulla tragica vicenda.[37] Questo delitto che, come recava l’ “Avanti!” di quei giorni[38], sintetizzava “la tragedia di tutto il proletariato italiano”, venne immortalato da  una significativa quanto amara vignetta di Giuseppe Scalarini.

Per onorare Piccinini la direzione del PSI decise di far riversare sul none del candidato ucciso tutti i voti preferenziali della sua circoscrizione. La Federazione reggiana dei fasci, subito dopo il feroce assassinio, deplorò il fatto e dichiarò di impegnarsi nella ricerca dei colpevoli i cui nomi, peraltro, erano sulla bocca di tutti; ciononostante i giornali borghesi o cosiddetti indipendenti (“Giornale di Reggio” e “Resto del Carlino”), insinuarono ipotesi fantasiose o addirittura che l’omicidio non fosse altro che una resa dei conti fra “sovversivi”. I nomi dei sicari fascisti erano in realtà noti a tutti e principalmente quello del Calvi, indicato anche  da una testimonianza di Tommaso Beltrani (ex segretario provinciale dei fasci ferraresi) comparsa sul foglio clandestino “Il Risorgimento” del 12 aprile 1925, come vero esecutore materiale del delitto.[39] Scriveva poi “L’Unità” del 9 ottobre 1925 che “A Reggio Emilia la lotta elettorale aveva creato un ambiente quanto mai insostenibile. Già prima del delitto fatti gravissimi si erano succeduti senza tregua e ricordiamo tuttora le violenze usate dai fascisti reggiani sulle persone del compagno Terzi che dovette abbandonare la città, del prof. Marchi, di Bellentani, di Bonaccioli e le decine di bastonature che gli eroi del manganello andavano ogni sera distribuendo agli operai colpevoli soltanto di essere tali. Tutto questo la stampa fascista e filo-fascista andava predicando la necessità di creare alle elezioni un ambiente sereno, cioè … normale. La più solenne smentita alle ipocrisie della stampa prezzolata e dei capi fascisti fu data dal delitto Piccinini, onde si poté dire che i fascisti iniziavano la lotta elettorale con un assassinio”.[40]

A distanza di oltre un anno e mezzo dal fatto, il 12 ottobre 1925 ebbe inizio al Tribunale di Reggio Emilia il processo contro i quattro fascisti fortemente indiziati: Calvi, Notari e i fratelli Bonilauri. Il dibattito processuale si svolse in un’atmosfera di aperta provocazione e rappresentò una vera e propria irrisione per il movimento operaio reggiano. Con la sentenza pronunciata il 20 ottobre 1925, la corte assolveva Giuseppe e Venceslao Bonilauri e con formula dubitativa Calvi e Notari. Alle assoluzioni seguirono i festeggiamenti dei fascisti per gli assolti.

A venticinque anni di distanza, il processo veniva rifatto contro gli stessi imputati, davanti alla corte d’assise di Reggio Emilia. Ma anche nel secondo processo, celebrato negli anni del centrismo più duro, si ebbe lo stesso verdetto. Con la sentenza del 16 maggio 1950, la corte  dichiarava non doversi procedere contro Vittorio Calvi per estinzione del reato a causa della sua morte e assolveva, seppure in forma diversa, gli altri imputati.

“Poche righe di commento – scriveva Gino Prandi, già membro del CLN provinciale e segretario del PSI reggiano, su “Il Socialista Reggiano” del maggio ’50 – al verdetto emanato dalla Corte d’Assise che ha giudicato coloro che erano incolpati di aver assassinato Antonio Piccinini. (…) Come allora nel lontano 1925. Come allora due avvocati di quel Collegio di Difesa erano difensori di coloro che oggi sedevano sul banco degli imputati, come allora nella stessa aula anche se con un Collegio giudicante diverso, si è avuto lo stesso verdetto. La sola differenza è che si è gettata la colpa su Calvi. Già perché questi non è più. Se fosse stato ancora al mondo, probabilmente sarebbe stato assolto anche lui. Antonio Piccinini, la vedova e le due figlie non hanno ancora giustizia e il popolo, quel popolo che amò Antonio Piccinini, che soffrì la dittatura fascista, che ancora ha le carni lacerate dalla bruttura e dalla delinquenza del ventennio, serra i denti di fronte al verdetto dei Giudici. (…) I socialisti reggiani, che più direttamente sentono l’iniquità di questa assoluzione, si stringono attorno alla memoria di Antonio Piccinini con un solo proposito: nella fede del suo martirio continuare la lotta per quegli ideali per cui fu assassinato (…)”.[41]

APPENDICE

Nella seduta parlamentare del 30 maggio 1924 si dovevano convalidare i nomi dei deputati eletti alle “politiche” del 6 aprile dello stesso anno. I fascisti che ormai controllavano il Parlamento volevano evitare dibattiti e discutere delle irregolarità palesi e occulte che avevano contrassegnato le elezioni. Giacomo Matteotti, deputato del Partito Socialista Unitario nonostante il clima ferocemente ostile, coraggiosamente denunciò, con pazienza e tenacia, le violenze compiute dai fascisti durante la campagna elettorale (compreso l’assassinio del candidato del PSI) e i brogli e le scorrettezze che avevano caratterizzato lo svolgimento delle votazioni  delle quali chiese l’invalidazione. Per questo suo atto d’accusa Matteotti sarà aggredito ed anch’egli ucciso dai fascisti. Viene trascritta qui di seguito la breve sezione del testo del suo discorso che si riferisce alla vicenda Piccinini:

(…)

Presidente: On. Matteotti, se ella vuol parlare, ha la facoltà di continuare, ma prudentemente.

Matteotti: Io chiedo di parlare non prudentemente né imprudentemente ma parlamentarmente.

Presidente: Parli, parli.

Matteotti: I candidati non avevano libertà di circolazione… (Rumori – Interruzioni)

Presidente: Facciano silenzio! Lascino parlare!

Voci: Lasciatelo parlare!

Matteotti: Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro stesse città. Alcuno, che rimase al suo posto, ne vide poco dopo le conseguenze. Molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che accettare la candidatura voleva dire non aver più lavoro l’indomani o dover abbandonare il proprio paese ed emigrare all’estero (Commenti)

Una voce: Erano disoccupati!

Matteotti: No, lavorano tutti e solo non lavorano quando voi li boicottate.

Voci da destra: E quando li boicottavate voi?

Farinacci: Lasciatelo parlare! Fate il loro giuoco!

Matteotti: Uno dei candidati, l’on. Piccinini, al quale mando, a nome del mio Gruppo un saluto … (Rumori).

Voci: E Berta? Berta!

Matteotti: … conobbe cosa voleva dire obbedire alla consegna del proprio Partito. Fu assassinato nella sua casa per avere accettata la candidatura nonostante prevedesse quale sarebbe stato per essere il destino suo all’indomani. (Rumori).

Ma i candidati – voi avete ragione di urlarmi onorevoli colleghi – i candidati devono sopportare la sorte della battaglia e devono prendere tutto quello che è nella lotta che oggi imperversa. Io accenno soltanto, non per domandare nulla, ma perché anche questo è un fatto concorrente a dimostrare come si sono svolte le elezioni. (Approvazioni all’estrema sinistra).

(…). [42]


[1] Piccinini appartenne a quella corrente socialista – che venne chiamata massimalista -, le cui origini furono precedenti alla attribuzione del nome col quale passò alla storia; nel senso che una corrente di sinistra non più  fondata sul tradizionale socialismo riformista (classista) di ascendenza positivistica, evoluzionistica e scientista, sorse ancor prima dell’inizio della guerra del 1915-’18 col nome di frazione “rivoluzionaria intransigente”.  Il termine massimalista lo adottò più tardi. Entrò nel linguaggio politico italiano con la rivoluzione russa, a causa di una traduzione approssimativa e poco fedele dal punto di vista lessicale della parola “bolscevichi”. Il termine in russo equivale pressappoco al nostro “maggioritari”, ma in Italia esso risentì delle suggestioni di una espressione tratta dal gergo della tradizione socialista italiana, quella del “programma massimo” socialista, il programma dei rivoluzionari, che veniva da noi contrapposto al cosiddetto “programma minimo” dei riformisti. Dunque, in Italia, i socialisti di sinistra che, dal 1917, divennero nella loro stragrande maggioranza filo-russi, si chiamarono per analogia “massimalisti”. (Cfr. G. Arfè, Prefazione, in: E. Giovannini, L’Italia massimalista. Socialismo e lotta sociale e politica nel primo dopoguerra italiano, Roma, Ediesse, 2001, p. 7

[2] “Piccinini Antonio di Luigi e Zanasi Teresa, nato a Reggio Emilia il 26 agosto 1884 domiciliato in Reggio Emilia Via dell’Abate n. 12 Tipografo ammogliato con Pescatori Alberta con due figlie”. Cfr.:

Archivio di Stato, Reggio Emilia, Prefettura, Relazione del Prefetto Boniburini, 12 ottobre 1920. Piccinini era nato

[3] Cfr. Cronaca parlamentare del “caso” Matteotti, Roma, 1968, pp. 29-30

[4] Sul massimalismo italiano pesa una condanna senz’appello che prese corpo nella polemica ideologica e politica dei primi anni del fascismo e che ha permeato di se’ tutta la storiografia italiana, in particolare quella – prevalente nel dopoguerra – di matrice marxista. A far sì che la condanna non conoscesse revisioni in nessuno dei suoi capi d’imputazione, all’indomani della Liberazione – nel 1945 – si adoperarono il PSIUP (così si chiamava il rinato partito socialista) e, soprattutto, vigile e rigido, il Partito comunista. L’accusa rivolta dai due partiti della sinistra italiana – al vecchio  socialismo “massimalista” si sostanziava in questa affermazione: i massimalisti non ebbero la capacità o il coraggio di assumere comportamenti politici che conducessero alla rivoluzione; incerti nel cacciare i riformisti dal Partito, insofferenti ad accettare la disciplina della terza internazionale, cioè i dettami di Mosca, ma anche rigidamente contrari ad assumere impegni di governo accanto ai popolari ed ai liberali che, secondo alcuni, avrebbero potuto impedire l’avvento del fascismo. In realtà l’irrisione dei massimalisti ha costituito fino ad oggi una specie di condanna di tutto il vecchio socialismo pre-fascista (tanto che massimalismo e riformismo per anni ebbero identica connotazione negativa)  – attraverso la quale – il partito socialista e il partito comunista dell’immediato post-liberazione, all’epoca, occorre ricordarlo, ambedue “stalinisti”, cercavano di presentarsi come nuovi interpreti delle esigenze del movimento operaio italiano, del tutto scevri dagli errori del passato.

[5] Già nel corso di un’assemblea della Federazione socialista il 10 novembre 1914, s’era definito “neutralista”, “antipatriota”. Aveva poi rivolto un severo monito contro coloro che anche dentro il Partito, non coglievano il nodo politico della “guerra di classe” (Cfr.: “La Giustizia”, quot., 12 nov. 1914)

[6]  Si veda l’articolo siglato “A.P.” (Tit.: L’aumento di Caro-Viveri ai lavoratori del libro) in: “La Giustizia”, quot., 4 dic. 1918, riportato in Appendice a p. ….

[7] Cfr. “La Giustizia”, quot., 30 dic. 1914

[8] Ivi, 22 nov. 1916

[9] Ivi, 9-10 mar. 1915

[10] Ivi, 26 apr. 1915

[11] Ivi, 7 ago. 1915

[12] Ivi, 22 nov. 1916

[13] Ivi, 30 giu. 1919

[14] Ivi, 21ago. 1919

[15] Segretario “provvisorio” scriveva “La Giustizia”, quot., 30 giugno 1919

[16] “La Giustizia”, quot., 6 genn. 1920

[17] Ibidem

[18] Ivi, 17-18 genn. 1920

[19] Ivi, 25 genn.- 1° feb. 1920

[20] Confermò al sottoscritto questa tesi (Reggio Emilia, 1974) un socialista che non era stato certo un massimalista: Bruto Monducci

[21] Ragionamenti confermati anche dalla già citata testimonianza orale di Bruto Monducci (1974)

[22] Il movimento dei “Consigli di fabbrica” o “soviet”, nacque a Torino nel 1919, tra gli operai metallurgici. Esso si basava sull’esistenza delle Commissioni interne e su una tradizione del movimento operaio che tendeva a darsi degli organismi rappresentativi sul luogo stesso della produzione.

Su di esse si accentuò l’attenzione del gruppo socialista rivoluzionario de “L’Ordine Nuovo” di Torino guidato da Gramsci, che tese a trasformarle in organismi qualitativamente nuovi: i Consigli di fabbrica.  Questi si differenziavano dalle vecchie Commissioni interne soprattutto per il fatto che essi venivano eletti da tutti i lavoratori e non soltanto da quelli iscritti al Sindacato. Pur se fondati su un’insufficiente analisi del ciclo economico capitalistico e dello sviluppo di una politica industriale in un paese arretrato come l’Italia del secondo decennio del Novecento, la loro vitalità apparve in pieno nei grandi scioperi del 1920.

[23] “La Giustizia”, quotid., 21 maggio 1920

[24] Ivi

[25] Lo stesso Piccinini riassunse sul quotidiano  “La Giustizia” per i compagni socialisti reggiani, il “diario” del suo soggiorno nel Beneventano, dove era giunto il 13 agosto ‘20, in due lunghi articoli comparsi il 16 e 16 dicembre 1920 sotto il titolo generale: Ottanta giorni in provincia di Benevento. Note ed appunti di un viaggio di propaganda.

[26] Ivi

[27]  Cfr. Storia d’Italia. Cronologia 1815-1990, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1991, p. 371 (In testa al front.: Compact).

[28]  Cfr. “La Giustizia”, quotidiana, 27 novembre 1920

[29]  Ivi

[30] Cfr. “L’Ordine Nuovo, q., 17 giugno 1921

[31] Frazione massimalista della provincia di Reggio Emilia, Numero unico, Reggio Emilia, 13 luglio 1922 nel quale egli inasprì

[32] Apparteneva questi al movimento dei preti raccolti attorno al giornale “La Plebe”, che ai primi del secolo aderirono al socialismo prampoliniano.

[33] Il PSU (partito socialista unitario), era di fatto la corrente moderata e riformista dell’ex PSI, scissasi dal medesimo al Congresso nazionale socialista di Roma dell’ottobre 1922

[34] “La Giustizia” della domenica 26 febbraio 1924, riportava la notizia del furto compiuto da quattro fascisti ai danni di Rodolfo Magnani, abitante nello stesso quartiere del tipografo assassinato. I quattro individui che, secondo il settimanale socialista, dopo una meticolosa perquisizione, sequestrarono alcune schede di sottoscrizione, un elenco degli iscritti al PSU della locale sezione, la tessera dello stesso Magnani e un ritratto di Prampolini, successivamente indiziati dalla polizia per il delitto Piccinini, vennero riconosciuti come autori del furto da parte dello stesso Rodolfo Magnani al processo che si tenne l’anno successivo (“Giornale di Reggio, 14 ottobre 1925)

[35] Si  veda tra le altre la testimonianza di Ursus (Manlio Bonaccioli) sul “Socialista Reggiano”

[36] Cfr.: R. Cavandoli, Le violenze fasciste a Reggio Emilia, Reggio Emilia,  1972

[37] Cfr.: “Avanti!”, 2-3 marzo 1924

[38] Ivi

[39] Cfr.: “Il Risorgimento”, 12 aprile 1925

[40] Cfr.: “L’Unità”, 9 ott. 1925

[41] Cfr.: “Il Socialista Reggiano”, 20 mag. 1950

[42] Cfr. Cronaca parlamentare del “caso” Matteotti, Roma, Edizioni Lara, 1968, pp. 29-31


Avanti! 4 Marzo 1924