LONDRA – Hanno cercato di fermarlo in tutti i modi. Non ci sono riusciti. Jeremy Corbyn viene rieletto leader del partito laburista, con una percentuale ancora più alta di quella già massiccia di un anno fa: hanno votato per lui, nelle primarie del Labour, il 61,8 per cento degli iscritti. Nel settembre 2015 si era imposto con il 59 per cento. Dodici mesi di polemiche anche feroci all’interno della sinistra britannica dunque sono apparentemente servite soltanto a rafforzarlo. Il candidato rivale, Owen Smith, ha ottenuto il 38 per cento. In tutto hanno votato più di mezzo milione di iscritti su 600 mila circa aventi diritto. E Corbyn ha prevalso in tutte le categorie: militanti, sindacalisti, semplici sostenitori che si sono registrati per votare versando 25 sterline a testa.
“La nostra famiglia laburista deve affrontare il futuro insieme, dobbiamo unire il partito per proteggere gli interessi dei lavoratori e riconquistare il potere”, dice il riconfermato leader nel suo primo discorso della vittoria, a Liverpool, aprendo l’annuale congresso laburista, giacca grigia, camicia bianca e come quasi sempre cravatta rossa. “Nelle elezioni si dicono cose a volte esagerate, le cose che ci uniscono sono più di quelle che ci dividono, non abbiamo avuto paura di discutere apertamente e dobbiamo essere orgogliosi. Abbiamo il più grande partito per numero di iscritti in tutta Europa, abbiamo triplicato il numero di iscritti in un anno e mezzo. Adesso è il momento di concentrare tutte le nostre energie nell’obiettivo di sconfiggere i conservatori, Theresa May ha cambiato gli slogan di David Cameron ma la sostanza è sempre la stessa, quella di un governo di destra. Quattro milioni di bambini in Gran Bretagna vivono in povertà, sei milioni di lavoratori sono pagati meno del minimo salariale, se credete come me che questo sia scandaloso nella sesta economia mondiale, allora il Labour può vincere le prossime elezioni. Io non ho dubbi che, lavorando insieme, potremo farlo”. Corbyn aggiunge che è sua responsabilità unire il partito, al congresso, in parlamento, nel paese, ma aggiunge che è anche responsabilità degli altri membri – un’allusione alle divisioni e al voto di sfiducia nei suoi confronti da parte della maggioranza dei deputati laburisti, l’episodio che ha aperto la crisi che ha portato a indire, dopo appena un anno, nuove elezioni primarie.
Per comprendere quello che è accaduto è necessario ricapitolare le puntate precedenti. Facendo un lungo passo indietro. Nel 2010, dopo la vittoria di David Cameron alle elezioni contro Gordon Brown, che aveva preso il posto del dimissionario Tony Blair a metà della precedente legislatura, il Labour elesse a sorpresa Ed Miliband come nuovo leader, grazie ai voti dei sindacati che si schierarono in massa per lui percependolo come più di sinistra rispetto all’altro candidato, suo fratello maggiore David Miliband, un blairiano più tradizionale. Ed Miliband cambiò le regole per eleggere il leader: in futuro non avrebbero votato più solo iscritti e sindacati, ma chiunque volesse registrarsi come militante del Labour, pagando appena 3 sterline.
Alle elezioni del 2015 il Labour ha perso di nuovo: Ed Miliband è stato nettamente battuto, il conservatore Cameron è rimasto a Downing street. Miliband, come è la prassi in caso di sconfitta elettorale, si è dimesso. Mezza dozzina di candidati sono scesi in lizza al suo posto. Fra questi, Jeremy Corbyn, la primula rossa del partito, forse il deputato più a sinistra nel gruppo parlamentare del Labour. Nessuno pensava che potesse vincere, neppure molti dei 35 deputati che firmarono per appoggiare la sua candidatura, come prevede il regolamento: dissero di averlo fatto per ampliare il dibattito e dare più democrazia interna al partito. Ma grazie alla riforma fatta approvare da Miliband, ovvero grazie al voto di decine di migliaia di militanti, attirati dal suo idealismo, dal suo messaggio di sinistra senza compromessi, senza se e senza ma, è stato lui a prevalere nelle primarie di un anno fa, con una larghissima affermazione.
Il bilancio di un anno di leadership di Corbyn è contraddittorio: il Labour ha vinto le elezioni per sindaco a Londra (con Sadik Khan, che tuttavia non è un Corbyniano), a Liverpool, a Bristol; ha perso seggi alle amministrative, anche se meno del previsto; ha perso di fatto il referendum sull’Unione Europea, in cui era schierato per Remain, cioè per rimanere nella Ue, ma Corbyn non si è battuto con grande passione per evitare Brexit. La base lo ha accolto come una star, i giovani accorrono ai suoi comizi dichiarando che Corbyn ha ridato loro fiducia nella politica; ma i sondaggi nazionali indicano che il Labour ha 11 punti di distacco dai conservatori e verrebbe travolto alle urne. Per questo, all’inizio dell’estate, i deputati laburisti hanno indetto un voto di sfiducia nei suoi confronti, passato 172-40. In teoria, a quel punto, Corbyn avrebbe dovuto dimettersi. Ma ha rifiutato di farlo, dichiarando che era stato eletto da centinaia di migliaia di membri e che non bastavano 172 deputati per costringerlo alle dimissioni.
I ribelli hanno insistito. L’unica soluzione è apparsa quella di convocare, anzi riconvocare dopo appena un anno nuove primarie. Formalmente, per presentarsi Corbyn avrebbe avuto bisogno del sostegno di almeno 50 deputati e difficilmente lo avrebbe avuto. Un dibattito che è andato fino all’Alta Corte di Londra, fra mozioni, appelli, contro mozioni, ha infine convinto il comitato direttivo del partito a permettergli di essere automaticamente in lizza, in quanto leader in carica. L’opinione dominante era che, forte del sostegno della base e dei sempre più numerosi iscritti, sarebbe stato riconfermato. I rappresentanti più in vista dell’ala moderata, riformista, blairiana o post-blairiana, comunque la si chiami, come Chukka Umunna, un avvocato di origine nigeriana soprannominato “l’Obama inglese”, o Dan Jarvis, un ex-ufficiale dei parà, non si sono candidati. L’unico avversario rimasto, Owen Smith, un ex-giornalista della Bbc, ha pensato che fosse impossibile sconfiggere Corbyn con un messaggio troppo diverso dal suo e quindi ha fatto campagna affermando di essere di sinistra come e più di Corbyn, di avere le sue stesse idee e i suoi programmi, ma di avere una personalità diversa e un’immagine mediatica migliore, sostenendo che questo sarebbe bastato a renderlo più “eleggibile” a livello nazionale. Un messaggio troppo opaco, come ha commentato l’Economist. E difatti Corbyn ha vinto, anzi stravinto.
Adesso per il Labour si profilano quattro ipotesi: 1) i ribelli faranno pace con Corbyn, le due parti cercheranno un compromesso per unirsi, un punto d’incontro fra il radicalismo del leader e le posizioni più moderate degli altri; 2) una scissione da parte dei ribelli riformisti, per formare un’alleanza in parlamento con i liberaldemocratici e i verdi; 3) in un caso o nell’altro, il crollo del Labour alle prossime elezioni, nel 2020, se la legislatura andrà fino in fondo, o anticipate, forse già alla primavera prossima, se Theresa May approfitterà dei sondaggi favorevoli e della debolezza del Labour per rafforzare la sua posizione alle urne; 4) oppure, ennesima sorpresa, una vittoria elettorale di Corbyn. Di sorprese, dal referendum
pro Brexit alla conquista della nomination repubblicana da parte di Trump negli Usa, ce ne sono state tante nell’ultimo anno. Anche se ben pochi commentatori e sondaggisti, al momento, immaginano Jeremy Corbyn, con il suo cravattino rosso, primo ministro a Downing street.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.