di Lorenzo Borla

(Emanuele Macaluso, Facebook) Su Repubblica di qualche giorno fa è apparsa una intervista al segretario del Psoe (Partito socialista spagnolo), Pedro Sanchez, capo del governo di Madrid. Come è noto, Sanchez era a capo di una coalizione di minoranza, con ministri socialisti, subentrato all’esecutivo di Mariano Rajoy (che era stato battuto in parlamento da una mozione di censura presentata dallo stesso Sanchez). Tuttavia il governo a guida socialista è durato solo 10 mesi e Sanchez si è dimesso, dato che in Parlamento non è stata approvata la legge finanziaria, perché non votata dal gruppo separatista della Catalogna. Il Parlamento è stato, quindi, sciolto e sono state indette nuove elezioni che si svolgeranno il 28 aprile.

L’intervista di Sanchez è interessante, se si tiene presente il travaglio che ha attraversato il Partito socialista: ha conosciuto divisioni come tutte le sinistre; recentemente i socialisti sono stati sconfitti alle elezioni regionali in Andalusia, dove governavano da 30 anni. Tuttavia, il socialismo spagnolo, in questi anni, ha recuperato prestigio, forza e un’unità che, alla vigilia delle elezioni, nei sondaggi viene collocato come prima forza politica del Paese. Ecco gli ultimi dati: Psoe 28,6%, Pp 21,2%, Ciudadanos 15,2%, Podemos 12,6%, Vox 12%. Il Partito socialista è il protagonista principale della vicenda politica che si svolge oggi in Spagna.

E l’intervista di Sanchez ci dice che la sua battaglia e quella dei suoi compagni si può riassumere in queste parole: «Più progresso per tutti, noi socialisti vogliamo una Spagna inclusiva». Di fronte allo scenario politico internazionale, caratterizzato dall’ascesa di una destra populista e razzista, Sanchez dice che questa destra si è radicalizzata: in passato c’era, ma era stata contenuta nei partiti moderati, come il Partito popolare. E annota:
«Questa radicalizzazione può costituire anche un’opportunità per la socialdemocrazia, per rivendicare valori che noi abbiamo difeso in termini storici: la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. A differenza della destra, che prospetta vecchie ricette per un mondo nuovo, noi dobbiamo proporre nuove risposte. Dobbiamo decidere se vogliamo un progresso inclusivo, dove nessuno resti indietro, oppure un progresso di una minoranza a spese della maggioranza.

Dobbiamo decidere se continuare a conquistare diritti e libertà per realizzare così una eguaglianza effettiva tra uomini e donne, oppure no». Ho ripreso questa intervista per dire quel che ho già detto altre volte: il socialismo non è morto come predicano tanti, tra cui alcuni che dicono di essere di sinistra. Non è morto in Spagna, in Gran Bretagna, dove in questi giorni la signora May ha dovuto riconoscere il ruolo essenziale e decisivo dei laburisti di Corbyn per uscire, se si potrà uscire, dal pantano in cui è precipitato il Paese con la Brexit. Il socialismo non è morto in Svezia dove è al governo. Nemmeno in Germania né in Francia, dove certo attraversa una seria crisi esistenziale. Se guardo all’Italia, vedo che il Pd, nel suo simbolo elettorale, ha messo anche il socialismo europeo.

Però, deve essere chiaro che, se vuole recuperare forza e prestigio nazionale e internazionale, deve definire la sua identità. E lo dico anche a quei cattolici che militano nel Pd. A loro ricordo che gli anni migliori del socialismo francese sono stati quelli di Mitterrand e del cattolico socialista Delors. Capisco che sono scelte non facili in questo Pd, ma con calma e anche determinazione questo partito, se vuole avere un avvenire, deve stare con coerenza nella famiglia socialista europea e, quindi, definire con nettezza il suo profilo.