NOTA SUL SALARIO MINIMO

di Silvano Veronese | Socialismo XXI Veneto

Il governo lega-pentastellato  si appresta a far discutere e votare una legge che introduca nel nostro Paese un salario minimo garantito per via legislativa. Alla proposta del Governo si è aggiunta (o contrapposta?)  una proposta di legge di iniziativa del PD elaborata dall’ex-Ministro del lavoro  Cesare Damiano, che va valutata con attenzione data la serietà e la competenza dell’autore in materia e con un passato di lunga militanza sindacale.

Sono d’accordo con Cesare Damiano quando afferma, nell’accompagnare la sua proposta, che per affrontare questo tema delicato (il salario minimo per legge) ”bisogna evitare errori grossolani” e la proposta governativa ne fa molti purtroppo, anche nelle motivazioni.

Proprio per evitare questo pericolo, sono sempre stato – per principio ed in via di fatto – decisamente contrario a qualsiasi “intrusione” legislativa in materie proprie della autonomia contrattuale tra le parti sociali, tanto più in materia di salario che retribuisce la quantità e la “qualità” della prestazione (non è casuale che ci siano – a parità di qualifica – differenze retributive da categoria a categoria, da settore a settore).

Sulla base di quali valori o parametri soggetti estranei alla conoscenza dei rapporti di produzione e delle relazioni tra le parti sociali (come sono i parlamentari) possono allora definire  il valore minimo del salario ?

Come anche il già Ministro Damiano riconosce, valutando le diverse dinamiche delle retribuzioni nei vari paesi europei, le differenti performances dell’andamento retributivo tra Paesi e tra categorie di lavoratori dipendono da una varietà di fattori e condizioni, quali ad esempio l’andamento della produttività e dello sviluppo di un settore da un lato e dalle modalità di tutela del potere d’acquisto dei salari che, in Italia, dopo l’accordo sociale triangolare del 23 luglio 1993 tale compito non è più affidato alla scala mobile ma al diritto di contrattazione, che da allora divenne un impegno ineludibile alle varie scadenze.

Secondariamente, non mi risulta che ci siano categorie di lavoratori prive di un C.C.N.L., come affermano esponenti della maggioranza governativa per giustificare l’intervento legislativo, semmai oggi c’è il pericolo opposto e cioè della proliferazione di contratti, spesso contratti “pirata” negoziati (si fa per dire) da organizzazioni datoriali e sindacali “farlocche” con soluzioni “in pejus” rispetto a quelle in atto nei contratti negoziati dalle organizzazioni storiche e maggiormente rappresentative.

Non si deve  confondere “trattamenti di sottosalario” in aperta “violazione” di una tariffa salariale prevista da un C.C.N.L. con la inesistenza della stessa. Quando, con altri consiglieri coordinavo l’Archivio dei contratti insediato per legge presso il CNEL, i ccnl riconosciuti e validati dall’apposita commissione erano circa 280, spesso rifiutavamo di riconoscere quelli “farlocchi” presenti in alcuni ambiti del terziario privato, in agricoltura o in altri settori marginali anche perchè privi di rappresentanza reale tra le imprese e i lavoratori dei settori interessati.

Oggi sono circa 800 i ccnl riconosciuti e presenti nell’archivio! Il problema allora – secondo me – si risolve con due soluzioni: dare riconoscimento “erga omnes” per legge ai ccnl negoziati e sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative (non “per convenzione” ma in base a dati reali e verificati).

In questo modo disboschiamo la “giungla” dai contratti fasulli normando per legge (sulla base di quella esistente per il Pubblico impiego) la definizione della rappresentanza e rappresentatività delle organizzazioni datoriali e sindacali  abilitate a negoziare e a sottoscrivere i ccnl che avranno così in questo modo valore di legge.

In questo modo,  si salva il principio della “sovranità” in materia contrattuale delle parti sociali effettivamente rappresentative e nel contempo l’efficacia legislativa dei ccnl da loro liberamente negoziati e sottoscritti. Il “salario minimo” sarà quindi quello riferito al parametro 100 (la qualifica più bassa) di ogni inquadramento professionale di categoria o settore (che ovviamente, di scadenza in scadenza, aumenterà in relazione alla contrattazione).

Non solo, ma il salario contrattuale non è “statico” e non si riferisce solo ai minimi tabellari ma lievita in relazione agli scatti di anzianità di ogni singolo lavoratore (di solito biennalmente), ai passaggi di categoria automatici, a indennità fisse sostitutive del premio di produzione, di produttività, di redditività se non  contrattati in sede integrativa.

Questioni che sono ignorate dalla proposta di legge governativa che, di fatto, spingerebbe le aziende meno virtuose o meno socialmente aperte ad evitare la contrattazione con il sindacato, abbassando perciò notevolmente il livello delle retribuzioni dato che il salario minimo ipotizzato si aggirerebbe ad un livello assai distante dai minimi contrattuali delle varie categorie.

Una “legislazione di sostegno” ai contratti di lavoro (vecchio “pallino” socialista) conferirebbe a questi valore di legge; avrebbero così validità in tutto il mondo del lavoro anche in quelle aziende non associate alle Organizzazioni Imprenditoriali stipulanti i vari C.C.N.L. e per tutte le materie trattate dai contratti come gli orari di lavoro, i diritti, la parte normativa relativa ai trattamenti in caso di malattia, puerperio ed infortunio, inquadramento professionale, ambiente e tutela della salute, etc.

Mi sembra che la proposta Damiano si muova anch’essa nella direzione che ho testè indicato, purtroppo quella della maggioranza governativa no! Quest’ultima ignora i pericoli e le non congruità che ho indicato e segnerebbe un pauroso attentato alla contrattazione, al ruolo negoziale insostituibile delle parti sociali, un arretramento delle condizioni economiche dei lavoratori. Dubito che l’iniziativa del PD possa far retrocedere i cattivi propositi della maggioranza se sindacati e lavoratori non faranno sentire vibratamente la loro giusta e motivata opposizione al provvedimento.