LA SVOLTA IMPOSSIBILE

di Ernesto Galli della Loggia | Tra il 1988 e 1991, nel triennio in cui tutto venne giù – in cui proprio la storia, questo supremo feticcio dell’idolatria marxista, presentò brutalmente i suoi conti al comunismo – molti pensarono che al partito italiano che aveva quel nome si offriva una via soltanto per cercare di non disperdere interamente la propria esperienza: per sperare di conservare la compattezza del proprio organismo e non vedere il proprio passato disfarsi senza lasciare traccia. La via era quella di svolgere a ritroso il filo della propria storia per riandare al suo inizio e quindi ripercorrerne lo svolgimento: ma tentando di trovare un filo diverso per tessere una tela anch’essa diversa in vista di un abito interamente nuovo. Un filo diverso da quello che era effettivamente stato: dunque ipotetico rispetto al modo in cui le cose erano andate, ma non gratuito: dal momento che quel filo avrebbe pur sempre potuto essere tessuto di materiali non certo immaginari bensì con uomini esi- stiti davvero e fatti realmente accaduti. Bisognava perciò non buttare via tutto, perché certamente non tutto era da buttare: ma piuttosto conservare quanto doveva essere conservato organizzandolo sotto un’altra insegna e disponendolo in un’altra direzione. E quale se non quella del socialismo? Quale se non quella del riformismo socialdemocratico? Non c’è dubbio che in astratto sarebbe stata questa la via più ovvia, per non dire anche quella con ogni probabilità più produttiva di risultati politici. Con una tale premessa, infatti, sarebbe stata nelle cose, a scadenza più o meno ravvicinata, l’ipotesi di una riunificazione dei due tronconi della sinistra italiana, e Partito socialista e Partito comunista avrebbero potuto ragionevolmente aspirare, insieme, a rappresentare almeno un terzo dell’elettorato: essendo così nelle condizioni, altrettanto ragionevolmente, di porre la propria candidatura al governo del paese. Peccato però che siffatti auspici non tenessero conto di un fatto: e cioè che l’identità degli organismi storici – parlo dell’identità degli organismi storici veri, non di quelli spuri come certi partiti della recente scena italiana – non è un assemblaggio di pezzi scomponibile e ricomponibile a piacere (che razza di organismi sarebbero altrimenti?), bensì è un insieme. E non solo la loro identità in buona parte è già nella loro nascita, ma essa poi si sviluppa e resta sempre come qualcosa di indissolubilmente coeso, come qualcosa in cui ogni parte è legata alle altre in un tutto: sicché se si toglie quella, anche il tutto si dissolve e con esso si dissolve anche la sua identità. L’identificazione con la storia rappresentò fin dall’inizio la pietra angolare nella psicologia del militante comunista. Ora, per dirla molto in breve e quasi a mo’ di premessa di quanto sto per sostenere in queste righe, il comunismo non era stato un’eresia del socialismo. Era stato un suo nemico, sorto con il preciso proposito di farne piazza pulita. L’identità del Pci era stata segnata alla nascita da due caratteri decisivi. Da un lato l’obbedienza a Mosca, la quale aveva teleguidato (ormai lo sappiamo bene grazie alle memorie dei suoi emissari) la scissione di Livorno. Dall’altro la ferma volontà, per l’appunto, di far fuori i socialisti e il loro partito in omaggio al forsennato egemonismo con cui Lenin, dopo avere eliminato in Russia qualunque forza della sinistra che non fosse la sua, mirava a replicare dovunque la medesima linea d’azione. Eliminare i socialisti dalla scena, prendere il loro posto nel rapporto con le masse lavoratici e per far ciò non esitare a servirsi della più selvaggia aggressività verbale fu il primo compito assegnato dalla casa madre ai partiti comunisti. Questi due aspetti rimasero sostanzialmente inalterati nel corso dei decenni seguenti. A poco o a nulla, se non a produrre montagne di raffinate esegesi storiografiche destinate alla critica demolitrice dei topi, servirono tutte le tesi di Lione, le svolte, i fronti uniti, i fronti popolari, i distinguo, le prese di distanza e le dichiarazioni sulla fine della spinta propulsiva che si successero da quel fatale 1921 al 1989. Ci sarà ben stata una ragione se fino all’ultimo, come attestano gli archivi, dall’Unione sovietica arrivarono al Pci fondi cospicui senza che mai essi fossero rispediti al mittente. Allo stesso modo – si ricordi quanto accadde nella stagione craxiana – fino all’ultimo l’atteggiamento dei comunisti verso il Partito socialista fu di avversione e disprezzo. Avversione e disprezzo che per chi sapeva intendere questo genere di cose avevano il sapore evidentissimo di qualcosa che non apparteneva al normale contrasto della lotta politica, sia pure aspra quanto si vuole, bensì venivamo da assai più lontano. Venivano da un’opposta visione del mondo e da un’opposta scala di valori, venivano da un non mai deposto senso di superiorità intrecciato di arroganza nei confronti di chi era ritenuto ormai fuori dalla storia che conta. Agli occhi degli eredi di Lenin i socialisti rappresenteranno sempre una sorta di ectoplasma, una presenza ad ogni effetto secondaria e destinata a spegnersi: perciò manipolabile e utilizzabile a piacere. Del resto era proprio questo che aveva segnato in modo indelebile l’identità del Partito comunista e di tutto quanto aveva quel nome: la convinzione di essere uno strumento della storia. Il solo in grado di conoscere il suo senso di marcia e dunque il suo unico interprete autorizzato. Era questo che aveva costituito fin dall’inizio l’anima e la vera energia animatrice dell’identità comunista. Gli altri, le altre forze politiche, appartenevano alla cronaca: fungibili di nome e di fatto rappresentavano pure sovrastrutture ideologiche della società borghese, votate prima o poi ad essere spazzate via. Laddove i comunisti invece erano la storia, e come tali predestinati all’avvenire. Si badi, non si trattava di parole: si trattava piuttosto di una straordinaria idea-forza. Ora è noto che solo se si è animati da una idea simile si arriva a giudicare l’impegno politico come la massima realizzazione possibile dell’essere umano: solo a questa condizione si possono fare grandi cose, si può giungere perfino a sacrificare la propria vita. È viceversa per chi è cultore del dubbio, per chi riguardo il fine della storia ammette di …

IL MONDO IN MANO ALLE PLURICRAZIE. DIALOGO CON CORNELIUS NOON

di Stefano Benni | Il tono paradossale delle risposte del Cornelius Noon è considerato il nuovo genio maledetto della filosofia politica. Nato nel 1943 in Irlanda, è professore alla Trans Allegheny University di Weston in West Virginia. Da anni le sue lezioni sono seguitissime, e si dice sia stato consultato da molti capi di Stato e finanzieri. Finora non aveva mai lasciato una sola riga scritta sul suo pensiero, ma qualche mese fa ha cambiato idea e il suo libro Pluricracy stampato in poche copie dalla Hydra Press ha suscitato polemiche feroci e verrà pubblicato dalle maggiori case editrici mondiali. In esclusiva siamo riusciti ad avere questa intervista, impresa non facile, perché Noon è famoso per il suo carattere intrattabile e la sua bizzarria. Il primo capitolo del suo controverso libro si chiama: “Il cadavere delle democrazie”. Un po’ forte, non crede? «Niente affatto. Le democrazie non esistono più, anche se il pensiero politico si rifiuta di ammetterlo. Per anni, nell’ambitus della differenza tra democrazia e dittatura, è nata e ha prosperato l’illusione di una forma politica “migliore” o “meno peggio” delle altre. L’illusione è caduta, ma la parola democrazia viene ancora abbondantemente usata anche se questa forma di governo, nel senso di “governo del popolo” o di “volontà dei più” non ha più nessun riscontro nella realtà. La pluricrazia è la forma di governo, anzi la forma di occupazione del pianeta che l’ha sostituita. Gli alieni sono scesi sulla terra e siamo noi». Come dobbiamo intendere il suo termine “pluricrazia”? «Sarebbe più corretto dire system of pluricracies o SOP, secondo l’orrenda sigla coniata dai miei divulgatori. Una forma di potere globale non eletta e non elettiva, con fini e mezzi diversi dalla democrazia. Potremmo dire che è parassitaria della democrazia, anche se per i greci il termine “parassita” aveva un significato diverso da quello moderno. Le democrazie rimandavano a una forma di Stato che accoglieva le richieste e i bisogni dei cittadini, prometteva di proteggerli e pur con mille imperfezioni, dava alle diverse morali, e alle contrapposte esigenze, una risposta unica, o ritenuta unica. Ora tutti possono vedere che in ogni parte del mondo sono nate forme di potere-occupazione, strutturate come veri apparati statali, con parlamenti, gerarchie, forze militari, costituzioni interne. Non si ispirano a nessuna idea di democrazia e fanno a meno di lei senza sforzo». Potrebbe farci qualche esempio? «La tecnocrazia, la plutocrazia finanziaria più o meno mafiosa, la teocrazia, persino la farmacocrazia e le ludocrazie-onagrocrazie culturali. Agiscono tutte con progetti, scopi e morali proprie. Preferiscono a volte operare in una finzione di democrazia, o allinearsi a una dittatura, ma la loro ideologia è quanto di più lontano ci possa essere dal rispetto del volere popolare. Il consumatore, il cliente, il connesso, il degente, lo spettatore, il fanatico sono i loro sudditi, non il cittadino. Li chiamano talvolta poteri forti ma sono piuttosto poteri folli, che disprezzano la vecchia ratio del bene comune. Anche se talvolta scelgono un volto per apparire, preferiscono essere invisibili. Ascoltano solo voci selezionate da loro: la banca dati, l’audience, il sondaggio, il call center hanno sostituito la piazza. Recentemente ho sentito il termine social-democrazia, col trattino, per celebrare il web. Invenzione dolce e consolatoria. Il web è un’oligarchia, anzi ha creato gli ultimi monarchi. Steve Jobs è l’ultimo dei semi-dei prometeici». Uno dei suoi concetti più dibattuti è quello di Stato-schermo. Quindi lo Stato esiste ancora? «Anche un anarchico non può fare a meno di una bandiera, diceva De Selby. Lo Stato è uno schermo sul quale le pluricrazie proiettano la loro immagine in modo rassicurante. Ma lo Stato non ha più nessun contenuto, è fatto di trame scritte altrove, di recite dove ruotano i cast di maggioranza e opposizione, di attori brillanti o tragici. Se mi chiedessero a cosa somigliano Trump e Hillary, direi Gambadilegno e la fata di Cenerentola. Ogni vera decisione è presa dal SOP, che la trasferisce allo Stato-schermo perché la trasmetta ai cittadini. Le pluricrazie sanno bene che cose come il voto, la legge, l’esercito, i confini, la bandiera e la Nazionale di calcio sono rassicuranti. Essere in balia dell’informe spaventerebbe. Si accetta che la squadra del cuore venga comprata da un miliardario russo o da uno sceicco, ma guai a cambiare i colori della maglia. Bisogna avere uno schermo su cui proiettare lamenti e rabbia, nell’illusione di essere considerati. L’ultima forma della democrazia è la frenocrazia, la possibilità per ognuno di lagnarsi e dare la colpa a qualcuno della propria infelicità. Ma è un Paraclausithyron, un lamento a una porta chiusa». Lei è totalmente pessimista. Ma è possibile il progresso o la pace con le pluricrazie? «Il progresso di tutti non esiste più, esiste soltanto il progressivo rafforzamento delle pluricrazie. In quanto alla pace la guerra moderna non è più tra Stati, basta vedere la frammentazione del conflitto mediorientale per rendersene conto. È un continuo scontro tra avidità contrapposte, ammantato di motivazioni religiose, storiche o etniche, più complesso e imprevedibile delle guerre del passato. Uno Stato potrebbe volere la pace, ma lo spingeranno in guerra i suoi petrolieri o i produttori di armi, i suoi servizi segreti deviati o un gruppo religioso bramoso di anime e di territorio, un impero mafioso, o un’azienda che ha bisogno di materie prime e nuovi mercati. È più facile immaginare una guerra nucleare tra Google e Microsoft, o tra AT&T e Verizon, o tra Hollywood e Bollywood, che tra Usa e Russia». E le dittature? Neanche le dittature esistono più. Sono film un po’ più pulp, schermi in cui ha grande importanza il primattore, una figura unica di leader, con l’aggiunta degli effetti speciali di un poderoso apparato militare e un controllo dei media più spietato. Ma nessun dittatore può permettersi di andare contro il SOP, nessun tiranno ha più l’esclusiva della tortura, o della censura. Per restare sul suo trono deve piegarsi a una o più pluricrazie, spesso è soltanto un componente del loro consiglio di amministrazione.». Quindi lei non ha soluzioni? «No, e se le avessi me …

UNA RIFLESSIONE SULLA NOSTRA GENERAZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Premessa In una recente riunione anniversaria di “reduci”, una mia considerazione sul “fallimento della nostra generazione” ha sollevato molto interesse, tanto da spingermi a chiedere, a tutti quanti mi leggono, di offrire le loro considerazioni e valutazioni in merito, per pervenire ad una partecipata riflessione e valutazione sul comportamento della nostra generazione in questo periodo storico. Nelle mie considerazioni, che vedo di esporre in modo sintetico nei punti seguenti, vorrò ragionare sul “cosa ci aspettavamo di realizzare” e ciò che invece “si è realizzato”; sugli orizzonti e le prospettive che ci eravamo posti al nostro affacciarci alla vita politica e ciò che constatiamo oggi si sia effettivamente costruito; sulle conclusioni che dobbiamo trarre, rivedendo le nostre posizioni o integrarle con nuove considerazioni. Non voglio prendere in esame le indicazioni, i progetti, i sogni dei programmi dei partiti politici, che abbiamo condiviso e contribuito a elaborare, ma voglio limitare il mio ragionamento con un esame critico della nostra Costituzione, mettendo a confronto ciò che essa, pur frutto di alternative visioni politiche, poneva come condiviso percorso ricco di potenzialità, con ciò che nella realtà, nel 75mo anniversario della sua nascita, essa si è concretizzata. Nei punti seguenti prenderò in esame alcuni articoli della nostra Costituzione per esaminarle con lo spirito critico sopra descritto. Inizierò con Articolo 1 di cui farò considerazioni sulle parole “fondata sul lavoro”. Tale formulazione, sintesi tra la proposta socialcomunista e quella democristiana, trova una precisa descrizione nell’intervento fatto da Fanfani nel suo intervento alla costituente, che riporto di seguito: Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune. Guardando alla società di oggi, considerando come essa si è costruita, non si può non constatare come la negazione dell’eguaglianza dei cittadini misurata dall’indice Gini, dalla crescente polarizzazione dei redditi e delle ricchezze, dal non funzionamento dell’ascensore sociale fermo da anni al piano terra, dimostrino che “privilegio, nobiltà ereditaria e sfruttamento” ancora dominanti nella nostra società, testimonino il mancato raggiungimento degli obiettivi insiti nelle parole “fondata sul lavoro”. L’indice Gini misura la concentrazione dei redditi e della ricchezza nelle diverse classi sociali, tale indice testimonia che la Repubblica non è fondata sul lavoro ma, associando il dato alla paralisi della produttività del nostro sistema produttivo ed all’andamento del target 2 che trasforma il dato positivo delle nostre esportazioni in un dato negativo dovuto all’acquisto di titoli tedeschi (una volta descritti come fuga dei capitali), ma sul capitalismo finanziario che assorbe fondi al sistema produttivo per riversarli su investimenti che non generano ricchezza ma solo la spostano a favore degli insiders ed a danno degli outsiders. L’auspicata finalità delle argomentazioni fanfaniane ovvero “il massimo contributo alla prosperità comune” si è realizzata in una appropriazione basata sulla fatica altrui a favore di pochi speculatori improduttivi. Sul fronte fiscale, poi, sovvertendo le impostazioni dell’art. 2 e 53 della Costituzione, il primo che oltre a riconoscere e garantire i diritti inviolabili richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, il secondo prevedendo la progressività delle imposte, rileviamo che l’introduzione della flat tax per i rediti di capitale, dei fabbricati, dei minimi scaricano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati il maggior onere fiscale. La timidezza delle attuali opposizioni su questo fronte pare dare per acquisita la trasformazione della Repubblica fondata sul lavoro in Repubblica fondata sulle imposte pagate dal mondo del lavoro. La caratterizzazione non classista rivendicata dalla formulazione dell’articolo 1 si è concretizzata in una politica fiscale genuinamente classista. Con, in aggiunta, una vergognosa legge di delega fiscale approvata, che estende la flat tax a tutti con una contradditoria assicurazione che ciò verrà fatto nel rispetto della progressività prevista dalla Costituzione. Le tax expenditures, che ammontano a più di 100 miliardi ogni anno, sono una foresta di “privilegi” regalati a fini elettoralistici che offendono in modo spudorato lo spirito costruttivo dei costituenti. E che dire dei sussidi 4.0 Calenda che regala al capitale i soldi per innovare il sistema produttivo quando questo compito è insito nella delega data al privato. Ricordo che la scelta di delegare al privato l’iniziativa produttiva ha sacrificato l’iniziativa pubblica con le privatizzazioni degli scorsi anni- E che dire di una legge fiscale sulle successioni che dà un gettito di 800 milioni di euro, contro i 19 miliardi registrati in Francia, che favoriscono in modo spudorato una “nobiltà ereditaria” estranea al mondo del lavoro, e ciò in netta opposizione all’idea einaudiana di colpire in modo significativo ogni provento economico non frutto di lavoro. Che dire, ad esempio, dell’esenzione dall’imposta di successione per le quote ereditate da soggetti che mantengano il possesso delle quote per almeno un quinquennio (è il caso degli eredi di Berlusconi che non pagheranno un euro sulle quote Mediaset e altre società ereditate)? Il fallimento dell’auspicato “massimo contributo alla prosperità comune” è certificato dall’evasione fiscale che, se combattuta, risolverebbe i nostri problemi di deficit e debito pubblico. Queste considerazioni ci dimostrano che nell’attuazione pratica di un disegno costituzionale ispirato alla solidarietà sociale: l’interesse privato; la logica del profitto come guida delle scelte nella berlingueriana domanda sul “come e cosa produrre” (logica opposta a quella che tende alla prosperità comune); la scelta dei valori di scambio rispetto alla scelta dei valori d’uso ha prevalso, indirizzando il Paese verso un approdo che testimonia sul fallimento dell’orizzonte della nostra generazione. Articolo 3 Il secondo …

LA BATTAGLIA DEL CILE

La battaglia del Cile – Un film-documentario di Patricio Guzmán Cile 1973. Il presidente socialista Salvador Allende viene rovesciato da un sanguinoso colpo di stato militare: la fine del sogno di una società più giusta. Cinquant’anni dopo, ripercorriamo quei drammatici eventi con la trilogia di Patricio Guzmàn, toccante resoconto di quel periodo nonché capolavoro del cine-documentario. La battaglia del Cile (1/3) La rivolta borghese Salvador Allende avvia un programma di riforme sociali e politiche volto a modernizzare lo Stato e sradicare la povertà. Le classi conservatrici rispondono con una serie di scioperi contro il governo, mentre gli Stati Uniti optano per il boicottaggio economico. Nonostante l’impasse parlamentare, i partiti a sostegno di Allende ottennero un risultato sorprendente, conquistando il 43,4% dei voti nel marzo 1973; la destra si rende conto che i mezzi legali sono inefficaci e opta per il cambio (violento) di strategia. Tra marzo e settembre 1973, sinistra e destra cilena fanno muro contro muro su tutti i fronti: nelle strade, nelle fabbriche, nei tribunali, nelle università, in Parlamento e sui media. L’amministrazione statunitense, guidata da Richard Nixon, continua a fomentare gli scioperi acuendo il disordine sociale. Il presidente Salvador Allende cerca una mediazione (fallita) con le forze politiche di centro, e le contraddizioni nel campo progressista precipitano la situazione. Gran parte della classe media propugna la “disobbedienza” e la guerra civile, mentre i militari preparano il Golpe. Il 4 settembre, quasi un milione di persone scende in piazza contro Allende; una settimana dopo, Augusto Pinochet bombarderà il palazzo presidenziale. Regia Patricio Guzman Produzione ATACAMA PRODUCTIONS Produttore Renate Sachse Arte TV PER VISUALIZZARE IL VIDEO CLICCA SULL’IMMAGINE Filmato 1/3 La battaglia del Cile (2/3) Il Golpe Nel 1973, il conflitto politico assume una dimensione senza precedenti in Cile: l’opposizione al presidente Salvador Allende, inviso al governo degli Stati Uniti, cambia radicalmente strategia. Non riuscendo a scalfire il leader socialista per vie costituzionalmente legali, rimuoverà il leader socialista per mezzo di un colpo di Stato militare, cui seguiranno 17 anni di dittatura incarnata da Augusto Pinochet. Tra marzo e settembre 1973, sinistra e destra cilena fanno muro contro muro su tutti i fronti: nelle strade, nelle fabbriche, nei tribunali, nelle università, in Parlamento e sui media. L’amministrazione statunitense, guidata da Richard Nixon, continua a fomentare gli scioperi acuendo il disordine sociale. Il presidente Salvador Allende cerca una mediazione (fallita) con le forze politiche di centro, e le contraddizioni nel campo progressista precipitano la situazione. Gran parte della classe media propugna la “disobbedienza” e la guerra civile, mentre i militari preparano il Golpe. Il 4 settembre, quasi un milione di persone scende in piazza contro Allende; una settimana dopo, Augusto Pinochet bombarderà il palazzo presidenziale. PER VISUALIZZARE IL VIDEO CLICCA SULL’IMMAGINE Filmato 2/3 La battaglia del Cile (3/3) Il potere popolare Nei mesi precedenti il colpo di Stato militare in Cile, i sostenitori del presidente Salvador Allende tentano di dar vita a uno “Stato nello Stato”, attraverso azioni politiche e iniziative benefiche, per contrastare le forze reazionarie del Paese – sostenute, peraltro, dall’amministrazione Nixon negli Stati Uniti – ostili alle riforme del leader socialista. Dirigenti e ingegneri abbandonano le fabbriche, che gli operai scelgono di gestire autonomamente. Vengono istituiti comitati di vigilanza per sorvegliare gli edifici di notte e nel fine settimana; al tempo stesso, nascono dei “cordoni industriali”, un sistema di scambio di risorse a livello locale, per arginare lo sciopero degli autotrasportatori che metteva a rischio l’approvvigionamento. All’inizio dell’estate 1973, sono 31 i “cordoni” posti in essere in tutto il Paese, di cui otto nella sola capitale Santiago. In ogni quartiere sono creati negozi di comunità, per la raccolta di beni di consumo, sotto la guida dei collettivi locali. I beni alimentari sono forniti dall’unica società di distribuzione nazionale, controllata dal governo, che riesce a soddisfare i bisogni più urgenti della popolazione. PER VISUALIZZARE IL VIDEO CLICCA SULL’IMMAGINE Filmato 3/3 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UNO STIMOLO PER LA CRESCITA

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Se un commerciante vende le sue merci in nero, ovvero senza dichiarare la vendita al fisco, oltre a non pagare l’IVA, l’IRES e l’IRAP, a fine anno, quando fa il bilancio d’esercizio, non avendo scaricato il magazzino contabile con le vendite effettuate in nero, si trova una differenza tra il magazzino contabile ed il magazzino reale. Le giacenze effettive sono più basse di quelle contabili. L’art. 20 del disegno di legge di bilancio permette al contribuente evasore, in questo e altri casi, di sanare le differenze tra contabilità e realtà facendo pagare l’Iva sul valore del minor magazzino moltiplicato per un coefficiente di maggiorazione che intende calcolare quanto possa essere stato il ricavo non dichiarato. Inoltre sulla differenza tra ricavo calcolato e costo sanato applica una imposta sostitutiva di IRES e IRAP (che cumulate ammonterebbero al 27%) la cui aliquota è il 18%. Applicando questa correzione alle giacenze di inizio anno 2024 il fisco non applica nessuna sanzione e si inibisce la possibilità di fare accertamenti sull’esercizio 2023 né su quelli ancora temporalmente accertabili. Insomma un ulteriore regalo agli evasori fiscali con una spudorata ricerca di consenso elettorale. Ciò che è più vergognosa è la spiegazione fatta dai due promotori leghisti di questa sanatoria (Alberto Gusmeroli e Massimo Bitonci); riporto le loro parole: ”Dopo cinquant’anni di complicazioni infruttuose e deleterie, grazie alla Lega e alla maggioranza di centrodestra, abbiamo ora finalmente l’opportunità di costruire un fisco più snello e più agile, meno nemico di cittadini e imprese, ma anzi stimolo per la crescita”. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

KISSINGER: RICORDO DEL CILE

di Franco Astengo | Nel momento della scomparsa di Harry Kissinger non possiamo dimenticare il golpe cileno dell’11 settembre 1973. L’11 settembre 1973 in Cile sostenuto dall’amministrazione USA, e orchestrato proprio dall’allora segretario di stato Henry Kissinger il golpe fascista pose fine al Governo di sinistra di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende che era stato democraticamente eletto. Un’esperienza politica avanzata di democrazia e socialismo, quella di Unidad Popular, che avrebbe potuto cambiare il corso della storia del Cile, avere ripercussioni internazionali, essere d’esempio per diversi altri Paesi del mondo. Nixon e Kissinger attuando una repressione selvaggia intendevano estirpare il pericolo rosso dalla Latinoamerica e sperimentare il liberismo assoluto dei “Chicago boys” modello avanzato del futuro reaganismo – tatchterismo. La vicenda cilena, che pure diede origine a un ampio dibattito nel movimento comunista e nella sinistra a livello internazionale e in particolare in quello italiano, deve rimanere nella memoria collettiva. L’11 settembre 1973, il giorno della “macelleria americana” resta intatto nella nostra mente e nel nostro cuore accanto ai grandi passaggi della storia del movimento operaio internazionale. Per noi che continuiamo a credere nell’ideale, è uno dei giorni di quell’“Assalto al Cielo” verso il quale dobbiamo continuare a tendere con la nostra volontà, il nostro impegno, il nostro coraggio. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

FRATELLI D’ITALIA: ANCORA SULLA NATURA DEL PARTITO DI MAGGIORANZA RELATIVA

di Franco Astengo | “Il MSI ha la sua ragion d’essere e la giustificazione della sua forza elettorale in un richiamo al fascismo che è veramente caratterizzante” (Aldo Moro relazione all’VIII congresso della Democrazia Cristiana, Napoli 27 gennaio – 1 febbraio 1962). Si riprende questo passaggio dalla poderosa “Storia della Democrazia Cristiana” di Formigoni, Pombeni e Vecchio uscita in questi giorni presso “il Mulino”. Ritorniamo così’ sull’analisi della natura di Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa, nel momento in cui la segreteria del PD Elly Schlein ha rifiutato l’invito a partecipare alla kermesse di “Atreju” intesa quale sede di elaborazione ideologica e culturale dei giovani di FdI: scelta che può essere giudicata come quanto mai opportuna nella distinzione tra natura partitica e ruolo di governo (quest’ultimo del resto richiamato in alcune esigenze urgenti di collaborazione come nel caso della violenza di genere). Un tema quello della diretta discendenza del partito di maggioranza relativa dal MSI che ci pare sottovalutato nel contesto complessivo del residuo quadro democratico operante nel nostro Paese (come del resto in Europa, proprio nel momento in cui la destra razzista e sovranista appare in forte crescita come dimostra anche l’esito delle elezioni olandesi del 22 novembre). Ricordato il MSI comeun partito politico italiano fondato ufficialmente il 26 dicembre del 1946 da reduci della Repubblica Sociale Italiana come Giorgio Almirante (che ne fu segretario per due volte), Pino Romualdi ed ex esponenti del regime fascista. La sua ispirazione è di destra di stampo conservatore. Dall’anno successivo ha avuto come simbolola Fiamma Tricolore chein molti hanno identificato in quella che arde sulla tomba di Mussolini, riferimento questo sempre contestato. (Luigi Fasce “L’identità dei partiti al vaglio della Costituzione” KC edizioni Genova 2023). In quel testo Fratelli d’Italia è definito ” “Il riferimento statutario è nel solco del conservatorismo della destra storica, con emblematico riferimento alla “Nazione” invece che alla Costituzione e con fiamma tricolore simbolo del MSI di Almirante”. Beninteso: tutto questo non viene ricordato semplicemente nel senso storico del ricollegamento tra Fratelli d’Italia e il Movimento Sociale saltando la fase di Alleanza Nazionale e ignorando il lavacro finiano di Fiuggi (1995). In Fratelli d’Italia non alberga soltanto l’eredità missina, ma anche quella della Nuova Destra anni’70 ed è questo un punto analitico da considerare con attenzione quando ci si riferisce all’estraneità della destra di governo al contesto costituzionale: in questo caso siamo di fronte a qualcosa di diverso rispetto alla capacità di manovra di cui pure il MSI disponeva, ma partendo da una posizione minoritaria e subalterna alle correnti di destra della DC. In eredità dal MSI la destra di governo sta incontrando difficoltà a muoversi sul terreno economico: non basta, infatti, proclamarsi “liberisti” o “conservatori” modello reaganian – tachteriano, pesa infatti la logica populista-corporativa (Brancaccio ha definito bene: equilibrismo al servizio dei due padroni, quello liberista e quello corporativo dei tassisti, dei balneari ecc.) oltre a soddisfare la necessità della “vocazione sociale” del fascismo repubblichino (da questo punto le incertezze sul salario minimo e la vocazione tratta direttamente dall’ultimo Mussolini socializzatore delle imprese di cui Angelo Tarchi, nonno di Marco Tarchi ideologo della nuova destra italiana, era il ministro dell’Economia Corporativa). Egualmente risalta la difficoltà sul piano europeo, dove il “rimando” della manovra italiana appare dettato esclusivamente da ragioni di carattere elettorale: il progetto di trasmigrazione dei conservatori in una maggioranza con i popolari appare di non facile praticabilità e il PPE non appare appieno disponibile. L’esito delle elezioni spagnole, ad esempio, ha indicato come concreta il ripresentarsi della necessità di formare di nuovo la “maggioranza Ursula” cui i conservatori (orbi del partito britannico) non parteciparono anche perché FdI stava all’opposizione del governo Draghi. Adesso, invece, le elezioni europee si svolgeranno con FdI al governo e si tratterà di una situazione molto diversa. Inoltre sarà difficile realizzare il tentativo ultra-atlantista di far coincidere NATO/UE cercando di spostare l’asse verso il gruppo di Visegrad, del resto diviso nell’appoggio all’Ucraina e sempre più orientato nell’esasperazione di un nazionalismo fobicamente sciovinista (Vox in Spagna, PVV in Olanda, Afd in Germania) e bisognerà fare i conti anche con l’incondizionato appoggio a Israele che in questo momento trova esitazioni anche dalla stessa presidenza USA che, inoltre, sembra rendersi conto della necessità di un “appeseament” con la Cina in un quadro di delicatissimo scenario globale. L’analisi dell’effettiva natura di Fratelli d’Italia e di questa destra di governo al di là del fumo negli occhi del “Piano Mattei” e degli accordi con Francia e Germania, potrebbe così rappresentare un contributo di riferimento per l’avvio del dibattito a sinistra in vista della scadenza europea 2024. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DOCUMENTO POLITICO FONDATIVO DI SOCIALISMO XXI

Rimini, Conferenza Programmatica 10 Febbraio 2019 La globalizzazione guidata dalla ideologia neoliberista, se ha rappresentato una occasione di sviluppo in alcune aree di sottosviluppo economico, con la deregolamentazione dei mercati e la concorrenza fra sistemi sociali e politici molto diversi, ha, di converso, prodotto, nell’occidente industrializzato e dotato di avanzati sistemi di protezione sociale, la precarizzazione del lavoro, vaste aree di povertà, l’arretramento delle conquiste sociali, l’aumento dell’indebitamento pubblico e privato e le diseguaglianze nella distribuzione del reddito. Gli effetti di tali cambiamenti sono rappresentati dal peggioramento della distribuzione del reddito, oggi in Italia meno del 50% del valore aggiunto complessivo va ai redditi da lavoro, rispetto al 60/65% che era la quota del passato. “Il tasso di crescita medio a lungo termine dei Paesi sviluppati è andato progressivamente riducendosi passando dal 3-4% dei primi anni ‘70 ai modesti tassi attuali. Le crisi finanziarie dopo un periodo di stabilità durato circa 30 anni, sono diventate sempre più frequenti. La diseguaglianza dei redditi delle persone è aumentata in modo esponenziale. Le retribuzioni sono rimaste stagnanti in termini reali sui livelli degli anni ‘80, mentre la produttività da allora ad oggi è più che raddoppiata, pertanto l’intero beneficio si è indirizzato a favore della parte più benestante della popolazione. Il tasso di disoccupazione intorno al 7,8% viene considerato normale, anche in Paesi dove si rilevavano alti tassi di occupazione. Inoltre spesso l’occupazione è precaria e mal retribuita. A questo desolante scenario si aggiunge La scarsa attenzione nei confronti dello sfruttamento della risorse mondiali e delle conseguenze ambientali e sulla salute delle persone. Come era prevedibile la reazione è stata ed è la paura del futuro, la forte inquietudine verso il presente e la ricerca verso illusorie protezioni nazionali che privilegiano risposte sovraniste e populiste. La sinistra di fronte alla aggressiva egemonia delle idee neoliberiste non ha saputo elaborare una proposta alternativa, anzi spesso ha accompagnato con lo slogan della modernizzazione i processi economici internazionali dettati dagli interessi della finanza e delle multinazionali, tentando persino, come è avvenuto in Italia, di modificare la Costituzione privilegiando la governabilità e, con le leggi elettorali, mortificando la partecipazione e la rappresentanza. In tal modo, smarrendo gli elementi distintivi delle politiche socialdemocratiche, in un mondo di grandi trasformazioni economiche e sociali è venuto a mancare il riferimento politico, capace di orientare e guidare vaste aree di cittadini che, all’aumentare delle difficoltà economiche e di fronte al lento smantellamento del welfare, ha reagito rivolgendosi verso movimenti di protesta di vario orientamento. Lo scenario culturale contro cui tutte le forze democratiche progressiste ed in particolar modo quelle del socialismo democratico devono svolgere la loro azione è dei più difficili poiché con il neoliberismo si sono diffusi elementi culturali negativi come l’edonismo, l’individualismo, l’egoismo sociale, l’avversione verso la politica, ovvero il contrario della cultura socialista democratica che si riconosce nei valori comunitari, solidaristici e nella democrazia partecipata. Ciò nonostante i primi sintomi della crisi della globalizzazione neoliberista sono ormai evidenti e l’introduzione dei dazi doganali voluta da Trump, con tutte le conseguenze che comporta, è una dimostrazione del livello di insofferenza che provoca la liberalizzazione dei mercati avvenuta secondo interessi che non hanno posto le condizioni di vita delle persone al centro degli obiettivi da perseguire. L’Europa con i Trattati di Maastricht e il successivo di Lisbona ha assunto il modello neo-liberista come stella polare. E’ tempo di ridiscutere quei trattati intergovernativi che hanno favorito la crescita di una insofferenza sociale che rischia di compromettere il disegno europeo. La Brexit è una delle più evidenti conseguenze. Noi Socialisti siamo per superare l’Europa Confederale, dominata dalle burocrazie, per avviarci verso un’Europa Federale che abbia il Manifesto di Ventotene quale riferimento di base. L’Italia ha affrontato la diffusione delle idee dei Chicago boys nel momento più grave della sua storia politica e si è trovata in balia di forze o culturalmente vicine alle idee neoliberiste o con una sinistra post comunista travolta dalle macerie politiche e culturali della caduta del muro di Berlino, che emblematicamente rappresenta la conclusione del comunismo, incapace culturalmente e politicamente di affrontare le nuove difficoltà. Proprio nel momento della maggiore necessità, a causa di diverse responsabilità, è stata distrutta l’unica forza, il Partito Socialista Italiano, capace con la sua carica innovativa, ben descritta a Rimini nel 1982, di svolgere una azione di contenimento e di ostacolo alla azione aggressiva del neoliberismo e di offrire una soluzione, l’alleanza tra i meriti ed i bisogni. Oggi, come già osservato precedentemente, appare in grave difficoltà il modello di globalizzazione finora perseguito; è in crisi sia l’UE, sia l’area euro. In Italia la scelta del PD di perseguire una modernizzazione secondo le idee che potremmo definire tipiche di un ”neoliberismo progressista” propugnate dalla così detta terza via, ha privilegiato di DIRITTI CIVILI rispetto alla GIUSTIZIA (BISOGNI) SOCIALE (ovvero unendo alle azioni indicate dal neoliberismo quelle dei diritti Lgbtq), non segnando una netta linea di demarcazione fra se e alcune forze di centrodestra con le note conseguenze. La Conferenza programmatica di Rimini vuole essere il tentativo di concorrere a porre un argine ai rischi sempre più evidenti che l’intera comunità nazionale corre a causa delle risposte sovraniste e anti euro di una parte della destra e di alcune marginali forze di sinistra e più in generale a causa dello smarrimento in cui si trova tutta la sinistra. La crisi politica è tanto più grave se si considera che dovremo affrontare le difficoltà e le opportunità della economia denominata 4.0, ovvero la robotica diffusa, e ciò che rappresenterà per concentrazione di capitali e per la riorganizzazione del modo del lavoro. L’industria 4.0 ha segnato la fine di un paradigma che ha traversato gli ultimi due secoli, al crescere degli investimenti cresceva l’occupazione, oggi non è più così, l’innovazione espelle forze dal ciclo produttivo ed anche dalle strutture di servizio. Noi socialisti dobbiamo farci promotori di un nuovo Patto dei produttori che isoli o almeno ridimensioni il capitalismo finanziario e rafforzi l’imprenditoria produttiva, ma dobbiamo per l’appunto essere consapevoli che il vecchio modello industriale …

VIVRAI POCHI MESI». E MIO ZIO GIACOMO BRODOLINI, MALATO, SCRISSE LO STATUTO DEI LAVORATORI

di Emanuele Trevi – Pubblicato sul Corriere della Sera | Emanuele Trevi racconta la corsa contro il tempo di Giacomo Brodolini, il ministro che sfidò la morte A meno che non si possa far ricorso a guerre, rivoluzioni e altri eventi grandiosi o catastrofici, è difficilissimo portare sullo schermo (o sulle pagine di un romanzo) la vita di un uomo politico, che consiste per la maggior parte di riunioni, telefonate, spostamenti, e ancora riunioni in cui gli stessi discorsi vengono tessuti e ritessuti all’infinito. Nemmeno l’oratoria può arrivare in soccorso come una volta: non siamo più ai tempi di Tucidide, e nelle democrazie moderne il divario tra le parole e le loro conseguenze concrete è sempre più sfuggente ed opinabile. È necessario trovare degli schemi narrativi efficaci, vale a dire delle situazioni, limitate nel tempo e nello spazio, in cui, per così dire, tutti i nodi vengono al pettine. Bisogna insomma rintracciare e rappresentare quei particolari momenti di intensità che sono capaci di rivelare il senso profondo di un’intera vita pubblica. Sono riusciti egregiamente in questa impresa Giancarlo Governi e Marco Perisse, autori di un trattamento cinematografico intitolato «Non ho tempo», e dedicato a Giacomo Brodolini, dirigente sindacale, parlamentare socialista e ministro del lavoro, nato a Recanati nel 1920 e morto in una clinica di Zurigo a soli 49 anni, l’11 luglio del 1969. Spero proprio che il film (prodotto da Gianpaolo Sodano) vada in porto nel migliore dei modi: come cercherò di spiegare racconta una storia davvero interessante, e non solo per i suoi ovvi risvolti politici e sociali. Con gli operai Nei libri di storia e nelle enciclopedie Brodolini è il ministro che concepì (con la collaborazione fondamentale del giurista Gino Giugni) e impose alla sua stessa maggioranza di governo lo Statuto dei Lavoratori, finalmente convertito in legge, la famosa legge 300, nel maggio del 1970. Viene spesso ricordato anche il capodanno del 1968 passato assieme agli operai della Apollon in sciopero, in un tendone eretto a via Veneto: un fatto che all’epoca destò scandalo, così come la sua solidarietà ai braccianti siciliani di Avola, che lottavano contro il caporalato e le famigerate gabbie salariali. E non può essere dimenticata la sua lucidissima, intransigente protesta, quando era ai vertici della Cgil, contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, in netto contrasto con la filosofia che vedeva nei sindacati una semplice «cinghia di trasmissione» degli orientamenti e delle decisioni dei partiti. Di lui si può dire che il suo slogan più celebre («Da una parte sola. Dalla parte dei lavoratori») fu tutt’altro che uno slogan, ma un destino, una questione di vita e di morte. Il ruolo voluto Tra le tante fotografie che si trovano facilmente in internet, mi piace soprattutto una che lo ritrae a Recanati, nell’immediato dopoguerra, in compagnia di Joyce Lussu, in occasione di un comizio elettorale, con l’eterna (e fatale) sigaretta in bocca: una specie di Jean Gabin sindacale, non bello ma sicuramente affascinante. Ne ho anche un ricordo privato, che fatalmente si mischia alle notizie pubbliche: Giacomo Brodolini era mio zio, e in famiglia su quell’uomo testardo e proteso all’avvenire circolavano molte leggende. Ma leggendo il lavoro di Governi e Perisse, la storia di zio Giacomo mi è apparsa in una luce totalmente diversa, e talmente commovente che voglio provare anche io a raccontarla per quello che è stata: una sfida alla morte, un appuntamento con il Fato che, al di là dei suoi significati storici e politici, ha un sapore antico, che non esito a definire eroico. Se dovessi indicare un epicentro, o meglio un fulcro di tutta la vicenda, sceglierei lo studio di un medico, a Roma, nell’autunno del 1968. Uno di fronte all’altro, stanno il paziente, che è Giacomo Brodolini, da pochi mesi eletto senatore nelle file del PSU, e il medico, di cui non conosco il nome, e che ha pessime notizie: le peggiori che si possano dare a un paziente. Brodolini ha un tumore ai polmoni, con metastasi arrivate alla gola. La sentenza è inappellabile: gli rimangono pochi mesi di vita. È una scena terribile, che si ripete ogni giorno, ogni ora in ogni angolo del mondo: ma questo non toglie nulla alla sua unicità, perché ogni essere umano reagisce a modo suo di fronte agli eventi supremi. Immagino il giovane senatore (a luglio aveva compiuto quarantotto anni) che, uscito dallo studio del medico, vaga stordito per le strade di Roma, forse già addobbata per le feste di quello che sarebbe stato il suo ultimo Natale.Sicuramente pensò a quanto poco fosse il tempo che gli restava: mesi, settimane ? Ma assieme a quel pensiero, deve pure essercene stato un altro, che non smentiva il primo, ma gli dava un altro senso: era ancora vivo, come tutta la gente intorno a lui, e nessuno dei suoi simili avrebbe potuto prevedere con certezza quanto tempo gli restasse. Bisogna anche sapere che erano giorni molto intensi e agitati, nel mondo politico: si lavorava alla formazione di un governo di centrosinistra, il cui presidente sarebbe stato Mariano Rumor. Ai socialisti spettavano alcuni ministeri importanti, e uno di questi sarebbe facilmente andato a Brodolini. Ma lui, in quelle ore terribili, aveva fatto la sua scelta, e la impose ai compagni di partito, a partire dal segretario socialista, Francesco De Martino. Volle un ruolo che, almeno sulla carta, era meno importante di altri che gli venivano offerti: e il 12 dicembre del 1968 divenne ministro del lavoro e della previdenza sociale. Era la posizione che gli avrebbe consentito, nel poco tempo che gli rimaneva, di portare a termine il compitoche si era assunto fin da giovanissimo, quando arrivò a Roma a dirigere il sindacato dei lavoratori edili. Ed era l’occasione, più unica che rara, di conferire un senso a un’intera vita. Ogni giorno che passava, a quel punto, era prezioso.Sono queste le condizioni drammatiche in cui fu concepito, scritto e infine convertito in legge lo Statuto dei Lavoratori. L’ultimo gesto Oggi possiamo affermare che lo Statuto dei Lavoratori mise l’Italia all’avanguardia della vita civile e sociale in …

IL TRAMONTO DELL’ETICA IN POLITICA E LE SUE IMPLICAZIONI SOCIALI

di Davide Passamonti | La storia del capitalismo moderno può essere letta come un progressivo tramonto dell’originale etica borghese sulla quale lo stesso capitalismo si è fondato e ha potuto svilupparsi e prosperare. Questo mutamento analizzato da Hirsch[1] ruota intorno a tre cambiamenti rilevanti: la tendenza del mercato a corrodere la base etica/morale della società; i vani tentativi a scongiurare l’erosione della base etica con incentivi e disincentivi di mercato; la necessità di un recupero morale per interiorizzare le norme sociali di condotta a livello dei singoli individui. Il primo sociologo ad evidenziare la diretta connessione tra «ascesa del capitalismo e l’ascesi puritana» è stato Max Weber in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo“. Tuttavia, non si sentenzia nessuna relazione univoca o esclusiva tra le due componenti: «Il fatto che lo sviluppo capitalistico non avrebbe potuto affermarsi se non legittimandosi sopra una base morale-religiosa, non significa che esso è figlio della religione: ma che ha bisogno, all’origine, di un ambiente culturale e spirituale che gli apra gli spazi»[2]. Infatti, il nesso tra etica religiosa e capitalismo viene a mancare via via il mercato si diffonde in sempre più ambiti della società. E’ il “mito della crescita” e il suo presupposto di “inesauribilità di risorse al servizio di bisogni insaziabili” a determinare lo strappo e a trasformare la società classista, attraverso la produzione e il consumo di massa, nella società “di massa” odierna. La società capitalista, quindi, diventa amorale e autolegittimata; il suo fine è l’autoriproduzione: cioè la crescita economica. Il mercato perde così la sua “trascendenza” violando i limiti che gli stessi economisti-moralisti, A. Smith e J. S. Mill, gli avevano assegnato. Eppure, tra etica puritana e materialismo consumistico e mercificante «vi è una profonda continuità: ed è il privatismo»[3]. Se nel primo è garantito dall’osservanza del precetto religioso, nel secondo vive nel “conformismo mimetico”. Nelle società di mercato la nuova etica sociale diviene una “falsa etica sociale”, non vi è reale socializzazione. Essa, invece, rappresenta soltanto l’adattamento dell’etica individualistica alla società di massa. Originariamente questo quadro poteva essere identificato solamente nella società degli Stati Uniti. Per la seconda metà dell’Ottocento e tutto il Novecento, infatti, l’ancoraggio ideologico e la trasformazione graduale, nella società odierna, della società classista europea ha attenuato gli effetti di individualizzazione e atomizzazione della società. Ma con la fine delle ideologie e la loro non sostituzione con nuovi paradigmi interpretativi; oltre alla spinta mercatistica, in seguito alla globalizzazione e alle rivoluzioni tecnologiche, hanno portato ad una “americanizzazione” della società europea. «La società di massa è perfettamente compatibile con l’individualismo. L’integrazione dell’individuo si compie non attraverso la politicizzazione (adesione a gruppi portatori di valori sociali diversi) ma attraverso la nemesi del comportamento»[4]. Il conformismo è il nuovo “collante sociale” al posto della fede, non crea solidarietà sociale ma emulazione dei comportamenti individuali. In altri termini, il conformismo individualista è la piena legittimazione dell’ineguaglianza sociale. Il tramonto dell’etica ha come conseguenza diretta il venir meno del principale “collante” sociale: la solidarietà. Il conformismo esalta l’ego, lo rende aggressivo e tendente al successo personale, e quando incapace di emergere determina comportamenti asociali: frustrazione e “aggressiva” indifferenza. Inoltre, con l’esaurirsi delle “basi etiche” della società vi «è la perdita di quella forma laica di trascendenza che è stato il senso del progresso e della storia»[5]. La società industriale autolegittimandosi rinuncia all’idea di progresso e di “nuova società possibile” che dia un senso ai mutamenti radicali nelle forze produttive e agli altri cambiamenti strutturali delle società post-industriali odierne. Complici, e quindi allo stesso modo colpevoli, della deriva etica della società capitalista sono anche i movimenti o partiti “riformisti”, progressisti o di sinistra. Non adeguando il proprio paradigma culturale alle trasformazioni sociali degli ultimi trent’anni, non hanno elaborato una base etica di progresso in nome del pragmatismo politico e della netta rottura con il marxismo. «Il riformismo socialdemocratico affida il progresso sociale non tanto e non più a certe fondamentali opzioni etiche – libertà, eguaglianza, fratellanza – quanto allo sviluppo tecnologico e alla crescita economica»[6]. In questo “lassismo pragmatico” la sinistra si adatta alla involuzione etica del capitalismo; e in nome del “mito della crescita” anche il riformismo non persegue una società giusta, ma una società più ricca. Nella società di massa odierna, consumistica, individualista e cosmopolita, però, in nome del presupposto “di abbondanza per tutti” insito nel “mito della crescita” si accetta l’ineguaglianza come funzione naturale della crescita stessa; abbandonando ogni presupposto etico e/o morale. Inseguendo, quindi, le premesse anti-etiche del capitalismo avanzato la sinistra sfocia nello stesso campo amorale della destra. E in questo nuovo clima sociale, ma che di socialità ha ben poco, «non stupisce che le tradizionali opzioni politiche, della sinistra e della destra, rispettivamente per l’eguaglianza e per la diseguaglianza sociale, perdano il loro valore etico, per assumere valore puramente funzionale»[7]. Destra e sinistra così perdono i loro tratti distintivi assomigliandosi sempre di più. [1]     Hirsch (1981), Social limits to growth, Bompiani. [2]     Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza. [3]     Ruffolo 1985. [4]     Ruffolo 1985. [5]     Ruffolo 1985. [6]     Ruffolo 1985. [7]     Ruffolo 1985. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it