ANCORA SULL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Noi e la guerra in Ucraina Riporto nuovamente l’art. 11 della nostra Costituzione: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Al momento dell’invasione russa in Ucraina, il nostro paese ha dovuto decidere come comportarsi in questo frangente tenendo conto della nostra Costituzione e degli obblighi derivantici stante la nostra adesione alla NATO, La domanda cui moltissimi hanno cercato, argomentando, di rispondere è quella che si chiede se la nostra Costituzione ci vietasse di inviare armi all’Ucraina. La prima risposta è stata quella che afferma che il ripudio di cui all’art. 11 – come ha osservato Amato  –  non è assoluto, tanto che la stessa Costituzione prevede, in altri articoli, che l’Italia possa trovarsi in stato di guerra. Si afferma che ciò valga soltanto a condizione che la guerra sia intrapresa e condotta a scopo puramente difensivo contro una ingiusta aggressione, pur se subita da un paese diverso dall’Italia non essendo essa diretta, in tal caso, né ad offendere la libertà di altri popoli, né a risolvere, con l’uso della forza, una controversia internazionale. Ritengo che tali deduzioni siano errate nel caso dell’invasione dell’Ucraina ove si tratta a tutti gli effetti di una controversia internazionale riguardante un paese che non rientra nell’alleanza alla quale partecipiamo e che ci obbligherebbe ad un intervento solidale. Sostenere poi che l’aggressione debba essere ingiusta mi pone nella condizione di chiedermi quando mai si possa configurare una aggressione giusta. Mi sorge qualche dubbio, poi, se si possa configurare senza esitazioni la NATO come un “ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” così come richiede la nostra Costituzione. Si rammenti inoltre che Zelenski (come ci ricorda nel suo articolo Pietro Dubolino) a Fox News il 2 aprile scorso afferma (mai smentito e imitato da molte personalità politiche occidentali) che la guerra con la Russia non potrebbe aver fine se non con il conseguimento di una non meglio precisata “vittoria” da parte dell’Ucraina. Il che ben potrebbe intendersi come rifiuto “a priori”, di ogni soluzione  negoziale del conflitto, anche nell’ipotesi che l’invasione da parte della Russia venisse definitivamente bloccata e si desse luogo, pur se in via di mero fatto, a una tregua fra i belligeranti  Se così fosse, la guerra, per quanto sopra detto, non potrebbe più essere considerata puramente difensiva ma assumerebbe piuttosto le connotazioni  di un mezzo di risoluzione (vietato, per l’Italia, dall’art. 11 Cost.), della già preesistente controversia internazionale tra Russia ed Ucraina, avente a oggetto, nell’essenziale, l’adesione o meno di quest’ultima alla NATO  (vista dalla Russia, non  del tutto ingiustificatamente,  come una minaccia alla propria sicurezza), e la destinazione finale della Crimea e della regione del Donbass (la prima delle quali, peraltro, già in possesso, di fatto incontrastato, della Russia fin dal 2014). Ciò posto, mi interessa un diverso tipo di interpretazione dell’art. 11; e tale interpretazione parte dalla perentorietà del verbo “rifiuta”, termine che è prevalso nella costituente sugli altri due termini proposti, ovvero “rinuncia” e “condanna”. La scelta di quel termine indica che la nostra Costituzione non intende ammettere interpretazioni del tipo “ripudia ma,,,”  elencando eccezioni che, come nel caso in esame, vengono costruite con il solo scopo di contravvenire alla norma costituzionale. Il ripudio, invece di invitare a partorire aborti interpretativi come quello del sen, Amato, induce invece a percorrere la strada di una ricerca costante, insistente, indefessa, spregiudicata, permanente di una soluzione pacifica. Ci sono solo tre casi, che io conosca, di autorità politiche che perseguono il dettato dell’art.11 della nostra Costituzione: papa Francesco, Erdogan e la Cina. Papa Francesco con la sua insistenza di mediazione effettuata dal cardinale Zuppi; Erdogan che ha portato a casa il primo accordo sul grano e che non perde occasione per ritentarci con insistenza; la Cina che con il suo documento in 12 punti ha posto le basi per una trattativa e che ha recentemente accolto il cardinale Zuppi per un possibile coordinamento degli sforzi. Non esiste un solo politico italiano (salvo rarissime eccezioni) che rispetti l’art.11 della Costituzione, né nella maggioranza né all’opposizione, incapaci di ubbidire ad un comportamento costituzionale inequivoco. Personalmente in ogni momento in cui fossi chiamato a pronunciarmi (e penso alle elezioni politiche del 2022 o alle prossime europee) non ho dato e non darò il mio voto a chi non si impegnasse a osservare nel suo mandato pacifista l’art. 11 della Costituzione. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DAL MITO DELLA CRESCITA A UNA IDEA DIVERSA DI BENESSERE SOCIALE

di Davide Passamonti | Da sempre l’economia è stata politicizzata. Da destra e da sinista, con politiche economiche classiche o keynesiane il punto fermo per tutti è stato il mito della crescita. Il comune accordo ha sempre ruotato intorno al presupposto che il benessere e il consenso sociale derivino dall’espansione continua, infinita?, dell’economia di mercato. Tuttavia, mia opinione, ma non solo, è che questo dogma economico vada contestato; e che le recenti crisi economiche – come quella degli anni Settanta e la folle corsa dei mercati finanziari sui titoli “subprime” alla ricerca del guadagno e della crescita nel 2007/2008 – siano esempi di come il “mito della crescita” stia producendo storture sociali sempre più evidenti. In realtà, il presente è  connaturato da cambiamenti strutturali profondi che stanno modificando l’economia e le società tanto da far pensare, con cognizione di causa, che ormai ci troviamo in un epoca che può essere definita come «post-industriale» o «post-capitalista». Crescita e malessere Un inaspettato lascito del dogma capitalistico del mito della crescita, non voluto, è stata la “ricerca della felicità”. Prima dell’avvento del capitalismo i concetti di crescita e felicità erano completamente scollegati tra loro o erano inestistenti. Nelle società tradizionali, infatti, l’economia veniva concepita come “stazionaria” e la felicità non era considerata “cosa di questo mondo”. Quest’ultima apparteneva alla vita “dopo la morte” ed era materia di fede religiosa, non certamente materia economica o pubblica. Invece, il concetto che «la prosperità materiale possa essere continuamente aumentata sfruttando a fondo le risorse della natura e stimolando i bisogni lungo una frontiera in continua espansione, e che questa crescita permanente sia la condizione fondamentale del benessere e della pace sociale»[1] è il dono del capitalismo. “Il paradiso terrestre” così creato ha rivoluzionato non solo la tecnica ma, soprattutto, l’idea di uomo e il posto che esso ha in questo mondo oltre all’idea stessa di mondo. La rivoluzione ha le sue basi in due presupposti: l’inesauribilità delle risorse e i bisogni illimitati dell’uomo. Il mezzo che unisce e accorda i presupposti è il mercato capitalistico: «l’organizzazione sociale che connette i due poli della crescita, ponendo risorse inesauribili al servizio di bisogni insaziabili»[2]. Di conseguenza, l’unico modo di conseguire il benessere sociale, e quindi la felicità individuale, è la massimizzazione della produzione di beni creati per soddisfare i bisogni. Va riconosciuto, ed è incontestabile, che l’economia di mercato è stato il sistema economico che ha prodotto, storicamente, e ha raggiunto livelli di benessere sociali e di progresso civile che nessun altro sistema è stato mai capace di realizzare. Ma oggi, i cambiamenti strutturali – la de-industrializzazione dei paesi occidentali, la “terziarizzazione” dell’economia e il poderoso ruolo dello Stato nell’economia – portano ad un cambio di paradigma: il benessere sociale non è più così identificabile con l’economia di mercato. Per di più, la questione ecologica, il tipo di economia e la complessità odierna sono oggi la dimostrazione “reale” dell’attuale insensatezza dei presupposti dell’economia capitalistica (che essa sia classica o keynesiana). Nella società post-industriale, quindi, il mito della crescita si associa ormai al malessere sociale. Insistere con un modello di crescita ormai superato dai fatti comporta fenomeni di degradazione delle risorse (la questione climatica e ambientale è solo la principale “risorsa degradata”) e di disagio sociale diffuso (disoccupazione strutturale, inefficenza dei servizi pubblici, sperchi, debito pubblico e inflazione “da disoccupazione”). Il mito decaduto del PIL come misura di benessere Il principale strumento economico con il quale si “misura” il livello di benessere di un paese è il Prodotto Interno Lordo (PIL). Meccanismo di contabilità economica sviluppato principalmente da Simon Kuznets, in un rapporto del 1934 per il Congresso degli Stati Uniti, è lo strumento di aritmetica politica con i quali i vari governi nazionali hanno potuto disporre di un indice obiettivo di successo. Ma la fonte di successo del PIL è anche alla base dei suoi fallimenti. Lo stesso Kuznets fu sempre molto critico riguardo la pretesa di misurare il benessere sociale affidandosi al reddito pro capite dichiarando che bisognava tener conto delle differenze tra la quantità e la qualità della crescita, dei suoi costi e dei suoi benefici, distinguendo anche tra breve e lungo periodo[3]. L’ideatore del PIL non fu l’unico a criticare questo strumento come misura del benessere sociale; come ci ricorda Ruffolo, anche economisti come Morgenstern ne contestarono l’abuso: «il tanto venerato PNL è una nozione in gran parte inutile…». Come è facile intuire il PIL registra positivamente qualsiasi aumento nei consumi: un aumento di consumo di petrolio, comprare ossessivamente l’ultimo modello di smartphone – buttando quello “vecchio”, ma anche, rimanere per ore imbottigliati nel traffico sono tutti esempi che portano ad un aumento del PIL senza considerare gli effetti, la qualità e le conseguenze di tali consumi. La critica al PIL come misura di benessere ruota attorno a tre principali motivi: Un diverso modo di concepire il benessere sociale Con l’avvento della società post-industiale, quindi, necessitano nuovi metodi per la misurazione del progresso e del benessere sociale. La produttività espressa in PIL non può più essere utilizzata. Oggi, ed è sempre più vero, il fattore principale del processo produttivo è la conoscenza[4] (il progresso scientifico e tecnologico) e «non più né il lavoro, né la terra, né il capitale, né lo Stato»[5]. Si può dire paradossalmente che, in generale, le crisi delle nostre economie occidentali (in quest’ultima fase della terziarizzazione, o se si preferisce, del capitalismo maturo) siano provocate da un eccesso di produttività dei settori (primario-secondario) «ad alto tasso di produttività», e – nello stesso tempo – da un difetto di produttività (del sistema in generale) causato dall’aumento della proporzione dei settori (terziari) «a basso tasso di produttività», sul totale delle attività.[6] [Archibugi, 2002 p.171] Questo cambiamento ha come conseguenza la modifica del concetto di produttività: non più come un rapporto “quantitativo” ma “qualitativo”. E man mano che questa produzione di servizi terziari (privati come pubblici) aumenta di importanza relativa nella somma dei valori che compongono il benessere, il misuratore usato [PIL] diventa sempre più obsoleto e sviante: esso continua a misurare un «valore» (la quantità …

CONTRO L’IGNORANZA

di Giustino Languasco – Coordinatore Socialismo XXI Liguria | Non condivido e nonsostengo il pensiero del post, che gira in siti social, sulla rete. Perche? Perche’ la visione della Fallaci e’ molto limitativa e chiusa al necessario ed indispensabile rapporto relazionale con le popolazioni del Maghreb. Poi con quelle Arabe. E infine con nazioni in cui l’islam e’ presente, ma gli Arabi non sono la maggioranza della popolazione come l’Iran. La visione della Fallaci porta alle guerre di Religione. Per tre secoli e piu’ queste hanno insanguinato l’Occidente a causa di guerre guerreggiate da cristiani, fra cristiani, anche per motivi religiosi. E ne siamo usciti, seppure con difficolta’, proprio abbandonando i fondamentalismi religiosi, a favore della reciproca “tolleranza”. Non e’ il caso di riproporre con l’Islam un modello guerresco. L’islam non e’ un monolite. Non lo e’ mai stato fin dalla sua origine: dalla sanguinosa rivalita’ fra Ali’ e i farmidi, assertori del predominio dei discendenti parenti in linea di sangue di Maometto I, rispetto agli assertore della Umma, la comunita’ dei fedeli, come designatrice dei Sultani. E non tutti i musulmani di religione sono arabi come stirpe. Anzi, nel Magreb molti discendono dagli antichi invasori romani, altri dai Vandali, invasori del nord Europa, altri sono Berberi. E altri ancora egiziani o libici e marocchini. I tunisini sono un misto di tutti, italiani compresi, piu’ nomadi Bedu. L’Europa a maggioranza cristiana, di varie confessioni, e popolata da tanti agnostici ed atei, nonche’ da gente che non ha convinzioni definite, ma solo dubbi e domande, puo’ dialogare con tutti. E non farsi mettere i piedi in testa da nessuno. Basta essere vigili e combattere l’ignoranza, madre di ogni fanatismo e di ogni fondamentalismo arrogante e presuntuoso.Per questo sono contro, decisamente contro, lo jus soli e a favore solo e soltanto dello jus culturae. Solo un ignorante puo’ uccidere un altro uomo, od opprimerlo per motivi religiosi. Eliminiamo l’ignoranza e la Fallaci e il suo odio complottista anti islamico sara’ per sempre dimenticato. E vivremo in pace fra persone civili. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CONSIDERAZIONI SUL SUPERBONUS

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Un documento di ricerca della Fondazione Nazionale dei Commercialisti Il governo sta usando strumentalmente gli effetti economici del superbonus per giustificarsi per una finanziaria che sarà cauta e non risponderà, se non per qualche piccolo risultato, alle grandi promesse fatte in campagna elettorale; ormai è la second legge di bilancio e, con le prospettive economiche dei prossimi anni, è difficile immaginare che le prossime legislature possano rispettare le promesse elettorali fatte. Giorgetti a proposito del superbonus ha parlato di “mal di pancia”, forse però il male maggiore di cui soffre è l’amnesia per il ruolo ricoperto come ministro nei governi che hanno gestito il provvedimento messo sotto accusa. Ma vediamo alcune conclusioni tratte dai commercialisti nella loro ricerca: Sulla base di tali dati, il modello CNDCEC-FNC stima una spesa indotta dal Superbonus 110% per gli anni 2021 e 2022, cioè investimenti aggiuntivi nel settore costruzioni e, per il sistema delle interconnessioni settoriali, in tutti gli altri settori dell’economia, pari a 96 miliardi di euro. A tale spesa indotta corrisponde un costo lordo per lo Stato, rappresentato dalle detrazioni fiscali maturate in aggiunta a quelle ordinarie, pari a poco più di 97 miliardi di euro. Di conseguenza, anche se in un orizzonte temporale più ampio corrispondente a circa un quinquennio, si stima un incremento di Pil di quasi 91 miliardi di euro e di gettito fiscale di circa 37 miliardi di euro. Pertanto, a regime, il costo netto per lo Stato del Superbonus 110% è stimato pari a 60 miliardi di euro e, quindi, nettamente inferiore all’incremento del Pil. Quindi lo Stato sostiene un costo lordo di circa 97 miliardi che fanno aumentare il PIL di 91 miliardi e un gettito fiscale di circa 37 miliardi riducendo il costo netto per lo Stato a 60 miliardi. Il documento conclude che   “il costo netto per lo Stato del Superbonus 110% è stimato pari a 60 miliardi di euro e, quindi, nettamente inferiore all’incremento del Pil.” A mio avviso dire che il costo netto è inferiore all’incremento del PIL è una conclusione deviante, nel senso che fa apparire un effetto positivo che non esiste, effetto positivo poi esaltato dal documento, quando aggiunge che: “se si considera adeguatamente l’effetto di retroazione fiscale, l’impatto del Superbonus 110% sulle finanze pubbliche è addirittura positivo, nel senso che l’incremento di Pil generato comunque a debito, cioè facendo deficit, sarebbe superiore all’impatto sul debito, migliorando, in termini percentuali, il rapporto debito/pil”. Ora in questa affermazione c’è una ipocrisia profonda che ignora che il miglioramento nel rapporto debito/pil non dipende dalla positività del provvedimento ma dalla situazione di partenza del rapporto stesso: ovvero il saggio migliora o peggiora non per la virtuosità del provvedimento ma dallo stato del rapporto debito/pil. Si pensi a tre situazioni: a) il saggio debito /pil sta al 145%, ovvero 2755 di debito e 1900 di pil, b) rapporto debito/pil 100%, ovvero1900 di debito e 1900 di pil, c) rapporto debito/pil 50%, ovvero 950 di debito e 1900 di pil. Si faccia un provvedimento che comporta un aumento del debito di 100 e un aumento del pil di 100; avremo allor, nel primo caso un debito di 2855 e un pil di 2000 pari quindi ad un rapporto del142%; nel secondo caso un debito di 2000 ed un pil di 2000con un invariato rapporto pari al 100%; nel terzo caso avremo infine un debito di 1050 ed un pil di 2000 con un rapporto debito/pil pari a 52%. Il saggio debito pil è migliorato chi aveva la situazione più pesante, non è mutato per chi aveva un rapporto pari al 100% ed è peggiorato per chi aveva il rapporto più virtuoso. La riduzione del tasso debito/pil nel nostro caso non dipende dalla virtuosità del provvedimento ma dal fatto che il nostro paese ha un alto rapporto debito/pil. Le conclusioni del documento sono poi contestabili se si considera, come altri studi hanno fatto, un elemento concreto anche se di più problematica determinazione; si tratta cioè di scindere l’effetto del provvedimento determinando una discriminazione tra l’incremento degli investimenti che si sarebbero effettuati senza bonus da quelli che sono invece frutto effettivo del bonus: l’effetto positivo dell’incremento del pil andrebbe allora calcolato solo sugli investimenti che sono frutto effettivo del bonus; le conclusioni sarebbero allora di diverso tenore. Il documento riporta inoltre gli effetti positivi sull’occupazione; si legge  “ I dati Istat sul mercato del lavoro mostrano, nel triennio 2020-2022, sempre in termini cumulati, un incremento di occupazione di 353 mila unità nel settore delle costruzioni rispetto al calo generale di un milione e 289 mila occupati”. E’ di una incredibile banalità riscontrare che quando lo Stato regala alle famiglie 97 miliardi di euro perché esse ristrutturino casa avendo un rimborso pari al 110% della spesa effettiva, ciò rilanci l’edilizia e quindi l’occupazione. Ci troviamo di fronte ad un fraintendimento del keynesismo, alla famosa affermazione della positività del pagare operai perché scavino e quindi ripristino una buca; Keynes con questa provocazione, affermava che, in presenza di non piena occupazione dei fattori della produzione, un incentivo statale metteva in moto la domanda aggregata e quindi scattava un moltiplicatore che, nel tempo, faceva mettere in moto più attività produttiva, più domanda, più investimenti, più occupazione fino all’auspicabile raggiungimento del pieno utilizzo dei fattori della produzione. Il documento conclude con le seguenti considerazioni: Considerando che gli effetti induttivi degli investimenti in edilizia della spesa agevolata dal Superbonus 110% hanno una valenza intersettoriale, oltre che intertemporale, tale per cui, oltre all’effetto diretto nel settore costruzioni, si genera anche un effetto indiretto negli altri settori dell’economia in base alle relazioni input-output, i dati Istat appena richiamati mostrano l’elevata capacità delle spese agevolate in edilizia di produrre effetti positivi sul Pil, sull’occupazione e sul bilancio pubblico. Pertanto, sebbene non si possa dire che le agevolazioni in edilizia si ripaghino totalmente, si può certamente asserire che tali agevolazioni hanno una elevata capacità di attivazione economica e fiscale con importanti ricadute in termini ambientali e occupazionali …

LA LEZIONE DEL CILE

di Giustino Languasco – Coordinatore Socialismo XXI Liguria | Il valore di un uomo di vede da come conduce la sua vita, come si comporta con i suoi simili, in particolare i suoi sottoposti, i valori che coltiva ogni giorno; dalla coerenza nel cercare di metterli in pratica. E da come muore. Ogni anno, un giorno triste. Bisogna ricordare Salvador Allende, l’uomo, il politico, il socialista, il fratello massone, il Presidentte del Cile eletto alla guida del raggruppamento delle sinistre storiche di quella nazione, presentatesi alle elezioni in una unica lista denominata “Unidad Popular”. Lo faccio ogni anno e lo faro’ fino a che campo. Lo faccio per i miei cari, per i nipoti che verranno e i figli che dovranno educarli. Nella vita si incontrano tante persone, poche di esse alla fin fine non ci deludono. Su molti nutriamo aspettative positive e si rivelano poi, alla prova dei fatti, non all’altezza. Molto spesso, se siamo persone coscienziose, non saremo soddisfatti di noi stessi, tanti sono i difetti che sono insiti nella nostra natura e tante sono le occasioni per non essere all’altezza del nostro meglio. Salvador Allende non mi ha mai deluso. Posso dirlo di pochi altri, politici, socialisti e massoni come me. Ha fatto sempre del suo meglio, ha cercato di portare il popolo alla emancipazione civile, economica, sociale e politica. E’ stato umile e premuroso per tutta la vita, fino alla fine. Non si e’ piegato al disonore dei ricatti, non e’ fuggito dalle sue responsabilita’ e dai doveri del suo ruolo quando era facile e vantaggioso, egoisticamente, farlo. E’ stato fedele alla legge del suo popolo, come Leonida re di Sparta, fino al sacrificio individuale per difendere la giustezza del diritto, la indipendenza del suo popolo, i progetti socialisti e solidaristici che aveva progettato e stava realizzando. Le forze del male, sempre attive ove il bene si presenta, lo hanno sopraffatto. Hanno sottratto la sua vita , il suo pensiero, la sua azione, il suo affetto al suo popolo che lo stimava e lo amava. Ai suoi fratelli sparsi su tutto il globo terracqueo, ai suoi allievi. Lo hanno tradito i suoi stessi fraterni amici, venduti anima e corpo ai dollari Usa. Cosi’ e’ andata, a eterna ignoranza dei traditori e dei conservatori del Gop che hanno voluto la sua testa per impedire che il rame cileno giovasse al suo popolo e non alle multinazionali. Questa e’ la lezione che abbiamo appreso: sono gli amici che tradiscono, da cui piu’ ci si deve guardare. Portano maschere difficili da rimuovere. Sono servi che non vogliono diventare liberi, ma solo cambiare padrone. Come per Matteotti e Pertini: l’idea non puo’ morire, ma molti gioiscono nel poterla infangare. COMMEMORAZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CILENA SALVADOR ALLENDE (Sandro Pertini 1973) Onorevoli colleghi, ricordiamo il capo di Stato Salvador Allende caduto per la libertà. Suo padre, sempre vicino ai contadini del suo paese e che per riscattarli dalla loro antica miseria si era battuto tutta la vita, fu lasciato morire nella più triste solitudine. Salvador Allende, ventenne, era in carcere per aver manifestato in favore degli operai delle miniere sfruttati da società straniere. Gli fu negato di assistere il padre agonizzante; gli fu solo consentito di visitarne la tomba. Sulla tomba del padre Salvador Allende fece un giuramento: «Non potrò vivere, se non mi sforzerò di fare qualcosa per cambiare questo paese». Allende non aveva che ventidue anni. Da allora ha inizio la sua lotta per sollevare dalla miseria la sua gente. Il Cile era il paese più ricco in materie prime dell’America latina e tra i più miseri per reddito individuale. Dominavano una borghesia agraria dalla mentalità feudale; funzionari avidi di privilegi; dirigenti di miniere assoldati dalle società sfruttatrici statunitensi. Salvador Allende, laureatosi in medicina, divenne il medico dei poveri. Uomo politico, ministro in un governo del fronte popolare, considerò quale primo problema da risolvere quello dell’indipendenza economica del suo paese «capace – affermava – di arricchire gli altri, mentre restava sempre più povero». Assunse la Presidenza del Senato lanciando questa parola d’ordine, cui resterà sempre fedele: «Con la ragione, democraticamente, ma senza cedimenti». Era un socialista che aspirava al socialismo dal volto umano. Non volle mai ricorrere alla forza, perché pensava che non vi può essere socialismo senza libertà. Vinse le elezioni presidenziali del 1970 e Presidente della Repubblica fu confermato dal Congresso. Fedele ai princìpi che informarono tutta la sua vita e che mai volle rinnegare si trovò contro anche i suoi amici, rappresentanti della media borghesia, pronti a scendere a compromessi, e i militanti di movimenti di estrema sinistra, che organizzarono la guerriglia. Nel suo discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica, dinanzi al Congresso, disse: «Vogliamo sostituire il regime capitalista. Sappiamo che ciò non è stato possibile fino ad ora democraticamente. Ma adesso ci proveremo». Salvador Allende nazionalizza le miniere di rame. Le compagnie minerarie statunitensi pagavano il rame al Cile meno della metà di quanto lo vendevano sul mercato mondiale. Realizza una radicale riforma agraria. Ridistribuisce il reddito nazionale per elevare le condizioni di vita dei ceti più poveri. Costruisce case per i baraccati. Solleva dalla nera miseria un vasto strato della popolazione. Tutto fa con il consenso del Congresso. Dicevano le donne del popolo: «Oggi possiamo dar da mangiare ai nostri figli. Prima, quando il Cile era “il paese dell’abbondanza” e i negozi del centro erano pieni, dovevamo ingannare la fame dei nostri figli con la “segatura di osso”, quella poltiglia che si suole formare ai lati della segatrice a nastro che usano i macellai». Errori sono stati commessi? Ma quando si devono spezzare incrostazioni create in lunghi anni dallo sfruttamento e dall’egoismo di caste privilegiate e di società straniere, non è opera facile ed errori sono non solo possibili, ma anche inevitabili. Ma un errore Salvador Allende non ha mai commesso; egli non ha mai tradito la democrazia e la classe lavoratrice del suo paese. Non errori resero vana l’opera d’Allende, bensì l’ostilità accanita delle società statunitensi e della borghesia agraria, che …

USCITA DI SICUREZZA

di Giustino Languasco – Coordinatore Socialismo XXI Liguria | E’ il titolo di un libro molto bello ed intenso, scritto con grande partecipazione. Un libro autobiografico che fu scritto da Secondino Tranquilli, membro per il PCI, nel 1946, della Assemblea Costituente italiana. Quella fatta per circa 1/3 da PCI un altro 1/3 dal PSI e circa 1/3 dalla DC che approvo’ il testo della nostra bella Costituzione Repubblicana, nata dalla Resistenza, dopo che il referendum istituzionale aveva mandato in esilio definitivo la Monarchia dei Savoia. Secondino Tranquilli, chi era costui? Questo era il suo vero nome di battesimo, ma anche se oggi nelle scuole pubbliche non lo si legge proprio piu’, e’ uno dei grandissimi, almeno per me è tale, della letteratura italiana che lo ricorda, quando le rare volte lo ricorda, col suo pseudonimo o “nom de plume“: Ignazio Silone. Silone ha scritto alle opere bellissime, questa e’ la piu’ bella e meno nota: ” uscita di sicurezza” (chi puo’ se lo procuri e lo legga). Il diario di un convinto militante comunista che nel 1957 assiste sgomento al massacro dei comunisti e dei comuni cittadini ungheresi, per mano assassina dei membri del politburo del Pcus, della allora Unione Sovietica. I carri armati russi posero fine, nel sangue, al primo tentativo di “Socialismo dal volto umano”: se oggi in Ungheria vince una destra grezza e becera, quella di Orban, ci sono dei motivi storici. Allora, e da allora, si perse la speranza. I comunisti russi ammazzarono brutalmente i comunisti ungheresi, che combatterono e morirono da eroi , in armi, per difendere il loro diritto a essere liberi e non schiavi della Unione Sovietica. Gli accordi di Yalta (in Crimea) non lo prevedevano. E nessuno in Occidente intervenì, nonostante i disperati appelli radiofonici dei resistenti. Fu uno shock per tanti veri comunisti italiani: fra essi Secondino Tranquilli. Si accorsero di aver sbagliato tutto nella loro vita politica, di aver servito un mostro che credevano essere invece un angelo liberatore. I piu’ onesti intellettualmente fra loro, abbandonarono il PCI che non aveva nemmeno a parole condannato la invasione Sovietica, anzi la appoggiava. Da allora, da quelle tragiche vicende, di acqua sotto i ponti della storia ne e’ passata tanta, Praga ’67; Berlino 1989. Oggi la Unione Sovietica e’ scomparsa. Il PCI si e’ sciolto. Quel mondo non esiste piu’. I cocci di quelle esperienze, solo alcuni cocci, hanno dato vita al PD: rimettere insieme le tre annime costituenti. Un pezzo di ex PCI, una manciata di socialisti, la sinistra democristiana diventata Margherita. Il progetto e’ fallito. Per tanti motivi. E i topi lasciano la nave prima che affondi, per cercarsi una nuova casa piu’ confortevole e sicura. Altri , come chi scrive, la nave l’ha lasciata ancora prima, ma non per cercare nuove poltrone, nuove alleanze, nuovi incarichi pubblici: questi li lasciamo a quelli che ne hanno tanta fame. Per lavorare e basta, e tornare alle origini. Al 1892, quando un gruppo di operai portuali genovesi si riunì e diede vita al Partito Socialista Italiano. Uno, unitario, riformista, grande. E’ questa la nostra sola ” uscita di sicurezza”. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

OTTANT’ANNI FA L’8 SETTEMBRE

di Franco Astengo | La particolare congiuntura in cui si trova il sistema politico italiano nel quale si trova al governo un partito di chiara estrazione post-fascista e a-costituzionale (fiancheggiato da altri soggetti di destra mentre si sta costruendo addirittura una opposizione estremista proprio sullo stesso versante) reclama un impegno particolare per ricordare la prossima scadenza dell’8 settembre della quale ricorrono gli ottant’anni. Un ricordo che deve partire dalla constatazione che, in quel tempo, il giorno stesso dell’annuncio dell’armistizio e della fuga di Re e Governo da Roma, dai partiti antifascisti fu formato il CLN che poi assunse la guida della Resistenza e del Paese. Eventi grandi, eccezionali, pongono i popoli e le donne e gli uomini che ne fanno parte davanti alla necessità di scelte drastiche e decisive per l’avvenire della loro nazione, della loro entità collettiva e per loro stessi. Si verificano passaggi storici che quasi “costringono” a prendere coscienza di verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la cui piena consapevolezza sembrava riservata a pochi. Uno di questi avvenimenti, forse quello davvero decisivo nella storia d’Italia (almeno per la sua parte più recente) fu rappresentato dal vuoto istituzionale creatosi con l’armistizio dell’8 settembre 1943. In quel contesto emerse la necessità, per i singoli, di compiere scelte cui la gran parte non aveva mai pensato di dover essere chiamata. In quel drammatico frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali. La scelta individuale compiuta al momento del “prendere o lasciare” del momento dell’invasione tedesca e della subalternità fascista era così maturata nella prefigurazione di un futuro diverso dove l’anelito alla libertà trovava sostanza nei principi fondativi di un’appartenenza politica. Il radicamento dei partiti nella società italiana del dopoguerra ebbe certo uno dei suoi presupposti in questa loro presenza resistenziale e si può affermare ancora adesso, con sicurezza e con orgoglio, che su queste basi fu possibile poi, nel corso di frangenti quanto mai difficili, scrivere la Costituzione Repubblicana. A 80 anni di distanza e nel momento del potere esercitato da una destra diretta erede di quella che il CLN aveva saputo combattere nel frangente più drammatico nella storia dell’umanità è nostro dovere esprimere il meglio del ricordo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’INTERVISTA DI MARIO DRAGHI

di Renato Costanza Gatti – Socialismo XXI Lazio | «Le strategie che nel passato hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa, affidandosi all’America per la sicurezza, alla Cina per l’export e alla Russia per l’energia, sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili» L’intervista di Mario Draghi ha decisamente un valore politico dagli ampi orizzonti, cosa della quale non siamo abituati, che si contrappone ad un clima politico europeo, e nazionale, dominato da uno sterile pragmatismo di breve respiro. In un mondo che si sta polarizzando in aggregazioni di dimensioni continentali e in cui gli attriti commerciali ma soprattutto militari rischiano di ritrovare una attualità che si sperava cancellata, pare evidente che le strategie del passato dimostrano la loro insufficienza e richiedono l’elaborazione di nuove strategie, cosa di cui i politici europei attuali non paiono all’altezza. Mi ha colpito il seguente passaggio che fa riferimento agli investimenti necessari per affrontare le nuove tematiche di portata strategica: «l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia di bilancio e aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente». Sembra di leggere, nelle parole di Draghi, la posizione di Mariana Mazzucato sostenitrice dell’”entreprenurial state” che cessa di essere estraneo alla guida della strategia dei paesi, tutore del libero mercato e della concorrenza, garante delle regole e interventista solo nel momento in cui si determinano i fallimenti del mercato. Questa visione lascia il posto ad uno stato che si fa protagonista nell’investire in progetti generalmente di lunga prospettiva bisognosa di capitali pazienti e di una propensione al rischio assente nell’imprenditoria privata. Peraltro gli sviluppi tecnologici, perno della modernizzazione del modo produttivo, richiedono investimenti in ricerca di base e applicata che le imprese non possono (e quelle che potrebbero preferiscono delegare allo stato per appropriarsene poi al momento dell’impiego commerciale) sostenere. Ebbene con quelle parole che ho sopra ricordate, Draghi riconosce l’impossibilità per i singoli stati di programmare simili investimenti, e l’assenza della UE di una strategia che imbocchi una strada che affronti questi temi. “Quindi c’è il «ser rischio» che l’Europa non raggiunga i suoi «obiettivi climatici, non riesca a garantire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli”. C’è il serio rischio che, sia per la mancanza di quelle terre rare fondamentali per le nuove tecnologie (ricordo l’accerchiamento evocato da Aldo Potenza in un suo recente post), sia per la dimensione dei finanziamenti della ricerca, sia per il ritardo nei computer quantistici, nell’intelligenza artificiale, l’unione europea “perda la sua base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli”. Pare chiaro il messaggio: o l’Europa cambia marcia (e con il NGUE ha iniziato e sarebbe folle tornare al miopismo passato) o rischia di scomparire assorbita dal gorgo di un mondo polarizzato. Draghi, nel corso della sua intervista, indica tre fattori primari e li associa a tre aggettivi meticolosamente scelti: ► l’insufficienza di un sistema di sicurezza affidata agli USA; ► l’incertezza dei rapporti commerciali con la Cina; ► l’inaccettabilità dell’uso del gas russo. Il primo punto comporta la necessità di pensare ad un esercito unico europeo con una politica estera unitaria e non delegata a 27 paesi; è un obiettivo finale che da sempre era il logico sbocco del progetto europeo; il più difficile da raggiungere per i più o meno evidenti sovranismi dei singoli stati, ma che la situazione odierna rende di pressante urgenza. Chiaramente questo passaggio comporterà una revisione del nostro stare all’interno della NATO (e penso in particolare alle pressioni che ci potranno essere imposte per la situazione di Taiwan); ma, in particolare, una nuova soggettività comporterà maggior assunzioni di responsabilità, quali ricercatori di sbocchi di pace, nella questione ucraina. (Penso sempre all’art. 11 della nostra Costituzione che nel perentorio ripudio della guerra, indica come unica strada la ricerca di azioni pacificatorie). Il secondo punto pone un problema di sostanziale portata; perché dovremmo giudicare i nostri rapporti commerciali con la Cina con un metro diverso da quello dell’interesse? In sintesi perché dovremmo rivedere i nostri rapporti commerciali con la Cina sol perché quel paese ha una posizione politica diversa dalla nostra; perché è la maggior concorrente degli USA (ma ha con quel paese un enorme flusso commerciale). Da quando è nata quella repubblica, salvo marginali conflitti locali, non ha mai fatto una guerra, ha fatto uscire dalla fame un miliardo di persone, ed in questo momento diventa strategica per le materie prime fondamentali per l’innovazione. Certo dovremo evitare di costruire una dipendenza paralizzante nelle importazioni da quel paese, ma commerciando con quel paese potremmo evitare di crearci una dipendenza paralizzante da un’altra parte. La decisione del nostro governo di cancellare la prospettiva di una via della seta mi pare succube di un malinteso atlantismo. Il terzo punto riguarda l’inaccettabilità della nostra dipendenza dall’energia russa. Da un punto di vista storico, quando negli anni 70 subimmo i contraccolpi della nostra dipendenza dal petrolio, la prima repubblica seppe impostare un programma che prevedeva fino a 60 centrali nucleari che ci avrebbero resi autonomi in campo energetico. La fine referendaria dell’avventura dele centrali nucleari, non è stata capace di impostare una programmazione atta ad evitare la dipendenza estera del nostro fabbisogno energetico. L’economia tedesca ha goduto, come fattore determinante, del sistema energetico russo al punto di renderlo quasi esclusivo con la costruzione di non uno, ma ben due Nord Streams. Il colpo più grosso all’economia tedesca e a cascata alla nostra economia, è stata l’interruzione della fornitura di gas russo non solo per decisione politica, ma addirittura con la distruzione dei due gasdotti simbolo di un rapporto economico di rilevantissimo valore. Mi auguro che l’inaccettabilità non sia elaborata con un risentimento irragionevole e sordo, visto che il secondo cliente dei prodotti petroliferi russi riciclati da paesi non allineati sono gli USA. Una inaccettabilità quindi non di sostanza ma di ipocrita forma.  SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di …

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE: QUALI PERICOLI?

di Luigi Ferro – Presidente di Socialismo XXI | L’ intelligenza artificiale permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere i problemi, agendo verso un obiettivo specifico. Esistono tre tipi di intelligenza artificiale: quella artificiale limitata, artificiale generale e la superintelligenza artificiale. Insomma, l’intelligenza artificiale consente di progettare sistemi hardware e sistemi di programmi software che consentono all’elaboratore elettronico di fornire certe prestazioni. Gli ambiti di applicazione sono numerosi, ma quali i limiti? Di certo questi sistemi pongono problemi giuridici ed etici. Il progetto di legge Europea sulla intelligenza artificiale sara’ operativo nel 2024 per una regolamentazione del settore. Gli USA sono piu’ avanti in tema di tutela della privacy. I rischi maggiori sono pero’ le pratiche manipoative e la possibilita’ per l’IA di avere un certo grado di autonomia decisionale anche se allo stato a mettere in atto le proprie determinazioni sono sempre gli esseri umani. Invece nel caso di veicoli autonomi la macchina potrebbe prendere tutte le decisioni ed eseguirle. Siamo di fronte a una tecnologia davvero dirompente con capacita’ addirittura di mentire per raggiungere una serie di obiettivi o commettere reati e violazioni informatiche. Non e’ peregrino sostenere che chi controlla l’ IA controlla il mondo. Come tutti i fenomeni tecnologici occorre avere la massima attenzione per le implicazioni o le ricadute dell’ IA nelle nostre vite. Deve essere chiara la contrarietà a un mondo gestito esclusivamente da macchine che possono avere un certo grado di autonomia decisionale e fare a meno dell’uomo con i suoi tempi di reazione o di intervento piu’ lenti. Il rischio e’ notevole. Necessaria appare una regolamentazione basata su principi etici inconfutabili, possibilmente universale. Cio’ peraltro presupporrebbe la condivisione delle conoscenze tra i popoli per una forte responsabilizzazione di tutti per evitare un uso inappropriato di questa nuova tecnologia. I rischi sono molteplici, ma il progresso tecnologico non puo’ essere fermato. Regolamentato e guidato, certamente. Per non commettere gli errori del nostro passato. Un’ ultima riflessioni attiene al mondo virtuale che rende le società e i singoli sempre piu’ soli. Piu’ deboli. Una società che in futuro potrebbe dialogare esclusivamente con una macchina o con un robot (la memoria mi porta a film come War Games, Terminator, etc. ) spaventa i piu’ accorti. Il tema delle relazioni umane rischia di essere fortemente compromesso e con esso il suo portato culturale. L’ IA aiuterà l’umanita’, va sostenuta, soprattutto per l’impatto positivo in campo medico, ma stiamo attenti ai pericoli che questa nuova tecnica potrebbe causare nella nostra vita in assenza di quei comportamenti etici universali e di leggi adeguate , anche queste universali, capaci di limitarne i rischi mettendo al centro l’ uomo con la sua intelligenza e sensibilita’. Sempre! IL RAPPORTO TRA INTELLIGENZA ARTIFICIALE E LAVORO L’intelligenza artificiale fa parte della nostra vita e di conseguenza trasformera’ il mondo del lavoro. L’ IA riguarda tutti i settori e nasce per aumentare la produttivita’ con meno persone.Pensiamo ai supermercati dove invece del cassiere troviamo le casse automatiche. In un mondo che sara’ dominato dalle macchine, quali scenari si avranno sul fronte lavorativo? Secondo una recente ricerca dell’OCSE, le attivita’ lavorative a rischio automazione sarebbero circa il 28% del totale. Si tratta di settori legati alla produzione, alla costruzione, all’ allevamento, all’agricoltura e al trasporto. Per ora, ovviamente! Se da un lato l’IA portera’ ad un aumento dei posti di lavoro e’ altrettanto vero che in alcuni settori l’automazione fara’ decrescere il tasso di occupazione. Quali rimedi per evitare il collasso e un numero considerevole di soggetti senza lavoro? La sfida e’ giuridica ma anche etica. Una societa’ giusta e libera non lascia indietro nessuno. Occorre evidentemente investire in settori dove la presenza dell’ uomo e’ primaria. Investire in cultura, turismo, per esempio. Ricerca e formazione. Biotecnologia e innovazione. Altro settore essenziale e’ la scuola e l’ istruzione. Di fondamentale importanza sono le questione climatiche e ambientali. Insomma investire in settori dove e’ necessaria la forza lavoro dell’uomo. La sua presenza. Ma cio’ non basta! Occorre pensare a forme di sostegno universali qualora il mercato non sia in grado di assorbire tutti e di garantire a tutti una fonte di reddito da lavoro per sopravvivere. Secondo alcuni economisti, il futuro deve basarsi sui concetti di decentralizzazione e di reddito universale. In Alaska gli abitanti ogni anno ricevono un assegno che deriva dagli utili generato dall’estrazione di gas e petrolio nel territorio nazionale. Le materie prime in Alaska sono considerate risorse comuni. In Italia pensiamo per esempio ai profitti dell’ENI, facendo un parallelo. Questo è il modello di decentralizzazione ovvero creare aziende che gestiscono le risorse comuni che a loro volta producono un reddito universale per sostenere l’umanita’ in un mondo con poco lavoro. Anche il mondo del software dovrebbe essere assoggettato al decentramento per evitare, peraltro, l’eccessiva concentrazione e monopolizzazione del settore nelle mani dello Stato o di aziende private. Mettere in campo politiche di sostegno concrete per aiutare popolazioni prive di lavoro. A tutto questo occorre pensare anticipatamente accompagnando la societa’ alla transizione verso un mondo dove l’automazione lentamente sostituira’ l’uomo in alcuni settori essenziali. Una forza di ispirazione socialista non può trascurare la portata della questione ed immaginare il futuro. I processi di trasformazione della societa’ o di cambiamento sono necessari per migliorare le condizioni generali di vita di tutti. Si chiama progresso. Ma opportunamente occorre ripensare al nostro modello economico e sociale perche’ sia concretamente inclusivo. Il rischio e’ di aumentare il disagio sociale e quelle forme di disuguaglianza che abbiamo il dovere di contrastare e di combattere. E’ l’essenza del socialismo! Pensare al futuro adesso e alle ricadute nelle nostre vite dell’IA per progettare la societa’ del futuro. Una societa’ giusta e libera dove a tutti sia consentito di vivere dignitosamente. Ne consegue che se e’ vero che l’automazione soppiantera’ la forza lavoro degli uomini in alcuni settori, e’ questo il momento di pensare a politiche di sostegno universali onde evitare crisi sociali dagli esiti incerti. A quelle forme di …

MINIMO SALARIALE PER LEGGE: UNA SCORCIATOIA!

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Dopo anni di silenzio, l’emergenza salariale è diventato finalmente uno dei punti centrali dell’agenda economico-sociale del Paese ma, ci chiediamo se il nodo fondamentale di questa criticità è il valore del salario minimo (che riguarda un numero limitato di percettori) o la dinamica in larga parte stagnante di tutte le retribuzioni. Intanto mi sembra sbagliato affrontare questi nodi ricorrendo ad affermazioni (anche da parte di ex ministri del lavoro) NON VERE, espresse o per non conoscenza delle reali situazioni o (come pensiamo) per pura demagogia o propaganda preelettorale in vista delle “europee”. Abbiamo sentito in vari talk show televisivi  o letto in interviste sulla stampa dichiarazioni di autorevoli politici ed anche di  sindacalisti che i “salari italiani sono i PIU’ bassi in Europa e nell’area OCSE”. Ebbene, sia che si tratti dei 27 Paesi della U.E., sia che si tratti dei 20 Paesi dell’eurozona, sia che ci si riferisca con queste “boutades” a tutta L’Europa allargata anche ai Paesi non facenti parte della U.E. (come Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Serbia, Montenegro e via dicendo), le retribuzioni italiane non possono essere PIU’ basse in confronto a queste realtà, tenendo conto ad es. che i Paesi dell’Europa orientale ex-comunisti – a causa del loro passato –  hanno tutt’ora retribuzioni mensili di circa la metà di quelle italiane ed anche meno. La retribuzione media lorda in Russia, che non è nemmeno la piu’ bassa fra quelle analoghe di detti Paesi, si aggira (tradotta in euro) sui 450 € mensili mentre in Italia (vedi statistiche ISTAT ed Eurostat) è sui 2.500 € mensili inferiore alla retribuzione lorda media europea (U.E. a 27 Paesi) che è di 2.790 € mensili. Certamente la retribuzione italiana “paga dazio” rispetto all’U.E. il cui piu’ alto valore medio è trainato dalle retribuzioni tedesche, francesi, del Benelux e dei Paesi scandinavi mentre non è così per i profitti italiani che sono fra i piu’ alti in Europa rispetto ai PIL nazionali. A questo punto, pero’, serve un chiarimento “tecnico” che approfondisca i motivi anche contabili di questo sfavorevole rapporto per la massa lavoratrice italiana, di un Paese con il terzo PIL d’Europa, con la terza piu’ grande  attività produttiva e con la seconda posizione nell’export europeo. Ed il chiarimento che vogliamo fare  – in parte tecnico – vale anche per l’altra annotazione statistica, quella dell’OCSE,  che circola da tempo che affermando  che dei 38 Paesi aderenti l’Italia si trova all’ultimo posto nella classifica degli andamenti retributivi delle singole realtà nazionali (tutte in crescita dal 1992 al 2021, tranne l’Italia che registra una riduzione) quasi che nel nostro Paese non fossero mai stati rinnovati i CCNL. Bisogna  tener conto che le statistiche e le comparazioni fra le varie situazioni salariali nazionali avvengono tra retribuzioni lorde MEDIE che sono delle retribuzioni contabili in quanto rappresentano una media ponderata tra varie  e diversificate retribuzioni categoriali e, soprattutto,  tra le altrettanto diverse retribuzioni delle varie qualifiche di ogni categoria. Le criticità della variegata situazione salariale italiana e che hanno abbassato negli ultimi anni il VALORE MEDIO delle retribuzioni dipendono da vari fattori. a) Sono cresciute le piccole e microimprese nelle quali NON  si è sviluppata la contrattazione integrativa aziendale collegata quasi sempre all’indice di produttività (per tale motivo il “sistema Italia” registra un regresso anche in questo importante fattore di competitività) mentre sono fortemente diminuite le grandi e medie imprese nelle quali invece la negoziazione integrativa è prassi consolidata. b) Le retribuzioni si sono ulteriormente “ammassate” nei livelli piu’ bassi dell’inquadramento professionale e retributivo e sono calate nei livelli superiori a causa della diffusione di lavori non stabili ed intermittenti in quanto gli addetti interessati rinunciano a rivendicare un giusto inquadramento professionale (e retributivo)  per la speranza di essere confermati nell’impiego quando verrà a scadenza. c) A differenza di altri Paesi europei il sistema produttivo e lavorativo italiano NON ha guarito  un certo “appiattimento” nella classificazione retributiva frutto di vecchie pratiche “egualitarie” ereditate dal passato  (aumenti uguali per tutti e non in %, una scala parametrale insufficiente che non premia la professionalità ed il merito, etc). Non è un caso che in quest’ultimo biennio di ripresa produttiva le domande di lavoro “pregiato” da parte di molte imprese industriali rimangono inevase (si tratta di quadri, tecnici, operai specializzati e qualificati, molti dei quali – in particolare giovani – vanno all’estero dove la professionalità e la competenza sono  ben retribuite). d) Vi è anche una irregolare applicazione dell’inquadramento professionale e retributivo  previsto dai CCNL a sfavore delle donne e dei giovani 15-25 anni a causa per quest’ultimi dell’estensione dell’apprendistato (retribuito in misura minore) fino a 25 anni. La normativa contrattuale sull’inquadramento professionale fissa per ogni qualifica e corrispondente livello retributivo precise declaratorie ed esemplificazioni dei vari profili professionali. Spesso – malgrado ed in violazione a ciò – il personale femminile con la medesima prestazione e profilo professionale del collega maschile  viene arbitrariamente  inquadrato in un livello inferiore rispetto a quello assegnato per contratto al collega di sesso maschile. Una ennesima violenza contro la donna, in questo caso lavoratrice. e) A tutto ciò si aggiunga che – in molti settori – da anni non si rinnovano i CCNL di varie categorie, malgrado che il “patto di concertazione Ciampi” del 23/7/93 obbligasse le parti sociali e i Governi (in quanto garanti) a rinnovare i contratti nazionali alle rispettive scadenze. Molti Governi – in qualità di datori di lavoro nel Pubblico Impiego – sono stati i primi a non rinnovare i CCNL alle debite scadenze, offrendo  un pessimo esempio all’impresa privata. Tutte queste negative motivazioni, malgrado i rinnovi contrattuali nella maggioranza delle categorie, hanno compresso la massa salariale globale anche in presenza di una stabilità o di un aumento della massa lavoratrice e pertanto si  capisce come la retribuzione media risulti abbassata rispetto al passato o scarsamente lievitata, comunque distante dalle retribuzioni dei Paesi europei socialmente piu’ evoluti. Non vi è dunque solamente un problema di salario minimo che tra l’altro, riguardando solo gli ultimi livelli dell’inquadramento professionale/retributivo e gli addetti …