L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE, RIFLESSIONI DI MASSIMO CACCIARI

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | In due recenti interventi televisivi, il primo a proposito del salario minimo ed il secondo a proposito dell’IA, il filosofo Massimo Cacciari ha affrontato un tema di rilevanza storica per il futuro dell’umanità. Nella prima intervista Cacciari riteneva che l’argomento del salario minimo sia un piccolo obiettivo di carattere difensivo che, al momento, ha il solo pregio di costituire un campo comune delle opposizioni (qualcosa di simile ho scritto nel mio pezzo, apparso su questo sito, nel quale affermavo di non essere convinto della questione dei 9 euro). Nella seconda intervista, il filosofo, poneva due questioni importanti: di fronte all’IA che rischia di poter cancellare in un futuro non lontano dai 4 agli 8 milioni di posti di lavoro:  a) non si pensi in alcun modo di porre freni o limiti allo sviluppo della scienza che è il cammino dell’uomo, la sua missione e la sua ragione di essere;  b) si pensi piuttosto alla funzione della politica, quella con quattro P maiuscole, che di fronte ad un prodotto della scienza che rende obsoleto e antieconomico il lavoro comandato, e che se da una parte rischia di dividere l’umanità in due razze: quella tecnologica e quella esclusa dalla tecnologia destinata ad essere ridotta ad una specie di nuova plebe, dall’altra potrebbe trasformare umanità eliminando la schiavitù di enormi masse di popolazione costretta a vendere il suo lavoro, gran parte della sua vita, per poter sopravvivere. La tematica proposta dal filosofo Cacciari ci pone veramente di fronte a scelte politiche di enorme portata, ad una di quelle scelte che segnano il futuro dell’umanità e per le quali varrebbe la pena di dedicare tutte le forze per un progresso autentico dell’umanità. Quello che mi perplime tuttavia in questo ragionamento è il fatto che questa tematica è già contenuta nel programma steso da Socialismo XXI a Rimini nel 2019, ragionamento che non è stato sviluppato né approfondito eppure esso era, ritengo, ben argomentato. Riporto una parte del capitolo “economia e lavoro” di quel programma: Economia 4.0 e Lavoro I processi di automazione e robotizzazione dell’economia ci pongono di fronte ad un capitalismo che si appropria  del knowledge oggi risiedente nelle nozioni che stanno dietro ai processi di robotizzazione, automazione, intelligenza artificiale. Una forza Socialista nel XXI secolo deve prevedere una socializzazione dei frutti di questi processi di automazione e robotizzazione, poiché è il pubblico tramite la nostra scuola, la nostra università, il nostro sistema di ricerca a permettere che si possa sviluppare in pieno una simile evoluzione nel nostro sistema di produzione.  Occorre prevedere modelli che incentivino questa socializzazione dei frutti della produzione tramite un moderno piano Meidner per il lavoro. Allo stesso tempo, dobbiamo costruire una forza politica capace di essere strumento non di mera rappresentanza, costruendo un nuovo patto tra coloro che producono ricchezza tramite nell’economia reale, contrapponendolo al patto tra rendita e finanza. Riflessione sulla robotica Dal mezzo di lavoro all’automazione L’introduzione in atto ormai da 40 anni dei mezzi di produzione automatizzati ha mutato profondamente il “modo di produzione” riducendo il tempo di lavoro necessario per la produzione dei beni e servizi, in cui il ruolo dei lavoratori è quello di supervisore e controllore dell’operato delle macchine stesse. In questa fase assistiamo ad una grande contraddizione: il prodotto del cervello sociale, ovvero il risultato dell’azione delle forze produttive organizzate, viene utilizzato per ridurre i tempi di lavoro necessario. Oggi il meccanismo è a grandi linee il seguente: la collettività, tramite fiscalità, finanzia il sapere generale, che a sua volta crea nuove tecnologie che vengono utilizzate per ridurre il tempo necessario per la produzione. Ma la riduzione del tempo necessario per la produzione significa meno posti di lavoro, più disoccupazione: in sintesi la collettività finanzia la riduzione dei posti di lavoro, cui pure ad essi ambirebbe. Qui si misura la capacità dei governanti di predisporre un sistema economico, produttivo e sociale consono alle nuove esigenze. Nel concreto oggi la mancata corrispondenza delle competenze dell’aspirante lavoratore ed i bisogni del datore di lavoro è una contraddizione che l’attuale politica è incapace di affrontare. E ciò nel tempo in cui la tecnologia 5G, alla base dell’invasione delle applicazioni IOT (internet of things), è acuita dalla lotta concorrenziale tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia economica nel XXI secolo, con il restante mondo che arranca per stare alla pari e non essere colonizzato dalla scienza altrui. Una economia completamente robotizzata Può sembrare una curiosità da fantascienza, quella di immaginarsi una economia completamente robotizzata, in cui tutto è prodotto (anche meglio) nelle quantità (anche maggiori) oggi prodotte, senza l’intervento del lavoro (immediato) umano, nemmeno di quello digitalizzato e professionalizzato in quanto le macchine sono in grado di riprodurre macchine ancor più intelligenti. Di fronte ad un simile nuovo modo di produzione sorgono spontanee alcune domande: ► siamo ancora in presenza di un modo di produzione industriale? ► quale modello redistributivo può essere coerente con questo nuovo modo di produzione? Nel nuovo modo di produzione, i possessori dei mezzi di produzione non potranno ignorare a lungo che esiste una massa di ESCLUSI dall’innovazione, che, espulsi dal mondo del lavoro immediato ed in mancanza di un reddito purchessia, costituiranno una massa i cui bisogni di sopravvivenza dovranno in qualche modo essere soddisfatti, al fine di non ingenerare processi irrisolvibili se non mediante guerre. Ecco che allora nasce la necessità di redistribuire il prodotto del processo produttivo in modo adeguato a non mettere in crisi il modo di produzione stesso. Una soluzione socialista Ci troviamo, come abbiamo visto, di fronte ad una prospettiva preoccupante cui i socialisti sono chiamati a dare una risposta per evitare il pericolo di un neo-schiavismo; una volta ancora ci troviamo di fronte all’alternativa: socialismo o barbarie. Il percorso da intraprendere sin da ora, da subito è quello della socializzazione dei frutti della produttività. Ribadiamo che occorre partire da subito perché in caso contrario il processo di totale appropriazione del sapere sociale da parte del nuovo modello capitalistico ci porrà di fronte al fatto …

LA SINISTRA E IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA SOCIALE

di Davide Passamonti | In Italia, la qualità del dibattito politico è calato considerevolmente negli ultimi decenni diventando una sorta di “gioco alle promesse”. Utilizzando i sempre più vari mezzi di comunicazione e rispondendo alla volontà di rappresentare “tutto e tutti”, in una sorta di bulimia elettorale, la classe politica parla per slogan. I partiti tradizionali si sono trasformati in “partiti piglia tutto”, snaturando i propri valori costitutivi, per rappresentare tutte le fasce sociali; di fatto così non rappresentando più nessuno. La politica, così, non risponde più a criteri di qualità ma di quantità. Infine, i vari slogan possono essere ricondotti ad un singolo slogan: «meriti e bisogni». Se in linea di principio tale messaggio assume una valenza evidente, diventa una scatola vuota quando non si ha la volontà di “pesare” gli uni e gli altri. Ormai, tutti i governi inseguono una società che sia allo stesso tempo «meritocratica e equa, solidale ed efficiente» senza aver chiara una strategia che concretizzi in politiche tali indefiniti obiettivi. «Quando si adottano obiettivi così vaghi, si finisce per ripiegare fatalmente sulla soluzione “opportunistica”, che suggerisce di non adottare criteri espliciti di scelta, ma di effettuare le scelte caso per caso, secondo la contingenza»[1]. Così facendo, vediamo che i governi adottano politiche – “oggi a favore dei lavoratori, oggi a favore delle imprese” – nella confusione più totale, problema per problema, senza pianificare e coordinare le scelte di breve periodo con piani o programmi (sviluppati ex-ante) di lungo periodo. Ne consegue una “non visione” della società di domani. La giustizia sociale come “mix” di eguaglianza e efficienza Governare “opportunisticamente” significa, in pratica, lasciare la decisione finale ai gruppi sociali che hanno maggiore forza contrattuale o alle burocrazie dei vari settori; insomma: “non disturbando il manovratore”. Dal punto di vista della destra politica ciò può non essere un problema politico; i consensi elettorali sono un indizio in tal senso. Per la sinistra, invece, il problema della giustizia sociale è centrale e prioritario; e la mancanza di giustizia sociale si ripercuote anche nei consensi elettorali. La funzione sociale della sinistra dovrebbe essere quella di contrastare e opporsi alla sregolatezza governativa vigente, che assume tratti autoritari in certe scelte, «per riaffermare la responsabilità democratica della società nello stabilire regole certe di convivenza»[2]. Infatti, eguaglianza ed efficienza non sono incompatibili. Nella società si formano zone di consenso, più o meno ampio, a seconda della misura in cui si perseguono simultaneamente. Allora, il compito della sinistra è di proporre esplicitamente quelle regole come norme etiche e progettuali; affidandole al dibattito e confronto politico. La giustizia sociale concepita come “mix” di eguaglianza e efficienza si realizza attraverso un programma che può esser definito di equa diseguaglianza[3]; cioè: parità dei diritti civili, garanzia della protezione sociale, limitazione delle diseguaglianze economiche. Il programma di equa diseguaglianza Compito di una sinistra «socialista liberale» moderna è quello di perseguire questo programma. Traducendo, cioè, nella pratica politica la sua regola di giustizia sociale. Così facendo si «rende manifesta la misura in cui la sinistra pensa che i meriti possano essere compensati e che i bisogni debbano essere soddisfatti in termini economici. La fascia dell’equa diseguaglianza deve essere sufficientemente ampia da consentire un’adeguata incentivazione economica allo spirito di iniziativa, all’intrapresa manageriale, alla ricerca del benessere materiale»[5]. La credibilità di un programma di giustizia sociale come quello proposto deve tradursi in pratiche politiche razionali esplicitate e concertate democraticamente. Inoltre, devono dimostrarsi capaci di orientare “programmaticamente” il sistema economico e sociale nella direzione della riduzione delle diseguaglianze più rilevanti. [1]     Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari, Laterza. [2]     Ruffolo 1985. [3]     Ruffolo 1985. [4]     Ruffolo 1985. [5]     Ruffolo 1985. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

MINIMO SALARIALE: CONOSCERE  PER COMPRENDERE LA REALTA’

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | «Confrontarci e solo dopo decidere, come insegnava Luigi Einaudi» Il dibattito sulla proposta di d.d.l. per un salario minimo fissato per legge si è fortemente polarizzato in termini di schieramento e non di confronto sui dati e sulle situazioni salariali reali, alquanto variegate dato il “far west”  che caratterizza il nostro mercato del lavoro e il  diffuso e diversificato sistema di contrattazione nazionale ed integrativa. Spesso si leggono ragionamenti superficiali anche perché non si conosce compiutamente da parte di molti interventori (e forse anche da parte di alcuni firmatari del d.d.l.) la conoscenza di una realtà complicata anche perché da molti commenti si capisce che non sono  molto conosciuti i vari trattamenti retributivi dei molti settori produttivi e di servizio in rapporto con le ore di prestazione in ragione d’anno e mensili. Ad esempio, per gli oltre 16 milioni di lavoratori del settore privato (esclusi gli addetti ai servizi domestici e di parte del mondo agricolo) le giornate medie retribuite sono 235, ma nei servizi di ristorazione ed alloggio le giornate retribuite sono 143 (dati Osservatorio INPS). Da ciò deriva la profonda diversità da settore a settore della retribuzione lorda annua ma anche del numero e dei valori salariali delle giornate retribuite da cui si puo’ ricavare attraverso il divisore previsto dai singoli CCNL  – come stima – il valore della retribuzione lorda oraria. Difficile, se non impossibile (salvo sapere che esiste il fenomeno), valutare quante giornate retribuite “in nero” integrano in certi settori le giornate retribuite regolarmente. Sono 10 anni, il primo che ne parlò – da Presidente del Consiglio –  fu Renzi, e da allora senza esiti si susseguirono una decina di proposte compresa quella dell’ex ministra del lavoro “grillina” on. Catalfo. Se queste proposte di d.d.l. sulla materia non ebbero una conclusione è dipeso dal fatto che la materia è caratterizzata da una complessità tecnica oltre che politica e persino costituzionale come citeremo piu’ avanti. Abbiamo già spiegato nel recente passato che la “questione salariale” non è solo questione di minimi retributivi insufficienti ed inferiori ai 9 (nove) euro all’ora proposti dall’attuale opposizione parlamentare (peraltro interessanti una entità molto limitata di lavoratori), ma lo è invece  una situazione inferiore alle pari realtà dei maggiori Paesi europei, lo è l’insufficiente legame del salario alla crescita della produttività (comunque anch’essa inferiore a quella realizzata dai suddetti maggiori Paesi U.E.), lo è il mancato rinnovo da anni di molti (troppi!) CCNL di varie categorie, lo è la fraudolenta irregolare applicazione dei trattamenti dei CCNL in varie aziende, lo è la situazione dei contratti “pirata” con condizioni “in pejus” di quelle previste dai CCNL seri, lo è la diffusa precarietà di cui soffrono molti lavoratori che operano in maniera non continuativa, con orari “part time” obbligatori, con rapporti a “termine” non confermati, come false partite iva, lo è la situazione in alcuni settori (ad es. lavori domestici e in certi ambiti del lavoro agricolo) di “non contrattualizzazione” del rapporto di lavoro i cui termini sono decisi unilateralmente dal datore di lavoro (spesso non aziende propriamente dette). Sono tutte questioni che per la maggior parte NON possono essere risolte dalla “scorciatoia” della fissazione per legge di un minimo salariale ma da provvedimenti di ben altro respiro e soprattutto dalla contrattazione sindacale. Veniamo comunque alla proposta di d.d.l. Schlein, Conte, Fratoianni, Calenda ed altri per valutare contraddizioni, reticenze e distinguo (anche tra gli stessi proponenti), con una premessa non secondaria che ci dice che i CCNL NON indicano alla voce salariale un valore orario ma mensile e che quindi la traduzione di quest’ultimo in retribuzione oraria tiene conto di vari indicatori di cui parleremo piu’ avanti e che la proposta si riferisce ad un salario LORDO che ben  sappiamo gravato da consistenti trattenuti fiscali e previdenziali il cui problema non è affrontato dal d.d.l. in parola ma puo’ essere affrontato da una seria riforma fiscale. All’art 1, la proposta del d.d.l. dice che “i datori di lavoro imprenditori sono tenuti a corrispondere ai lavoratori di cui all’art 2094 del codice civile una retribuzione COMPLESSIVA sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato” mentre all’art.2 la proposta spiega che “per retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato si intende il trattamento COMPLESSIVO comprensivo del minimo tabellare, delle mensilità aggiuntive, degli eventuali scatti di anzianità, delle indennità fisse e continuative dovute in relazione alla prestazione ordinaria, il tutto per un importo  non inferiore a quello previsto dal CCNL di categoria stipulato dalle Organizzazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale ed aggiunge al comma seguente che questo trattamento economico orario complessivo  stabilito dal CCNL ( che invece non lo stabilisce perché fissa quello mensile) NON puo’ comunque essere inferiore a 9 (nove) euro/ora. Contrariamente a quanto afferma erroneamente  l’ex Presidente dell’INPS Tridico, la proposta di legge Schlein, Conte ed altri  NON PARLA MAI di “minimo tabellare”, ma di “minimo complessivo” composto da quelle voci fisse testè ricordate e che la retribuzione deve essere ragguagliata alla qualità del lavoro prestato (si riconosce con detta affermazione che detta misura deve essere diversificata in relazione alla qualità lavorativa e produttiva  di ogni singola categoria, che – però – solo la contrattazione sindacale puo’ valutare anche in relazione alla produttività e  non l’imposizione da parte del legislatore). Aggiunge anche che, fermo restando il minimo imposto per legge la retribuzione è ragguagliata alla quantità della prestazione, perciò si riconosce che un orario ridotto mensile o annuale per vari motivi, e cioè che  una prestazione intermittente e non continuativa, determinano  una retribuzione limitata o più bassa, rispetto a quella ordinaria prevista da un  orario normale, in ragione di settimana, mese, anno. Come si fa a dire, allora, che ci sono milioni di lavoratori “precari” con retribuzioni insufficienti (per i motivi di cui sopra) che potranno avere vantaggi da questa proposta di legge che riguarda solo i minimi salariali orari e non le ore (ridotte) mensili o annuali di prestazione? Tra l’altro fissare per legge un minimo salariale è …

DECOUPLING

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Questa nuova parola indica un fatto che ha cominciato a presentarsi negli anni ’70 e che consiste nello scostamento tra due indici la cui coincidenza costituisce una “golden rule” nell’economia contemporanea. Mi riferisco a quella regola che vorrebbe che il tasso di incremento dei salari corrispondesse al tasso di incremento della produttività del lavoro. Osservando tale legge si può registrare un aumento del reddito del lavoro senza che si registrino temuti effetti sul profitto, ma, soprattutto, si registra un aumento nei consumi, generato dall’aumento della massa salariale, senza effetti inflattivi, di modo che l’aumento salariale sia non solo nominale bensì reale. Ma al di là dell’effetto salariale, l’incremento della produttività costituisce elemento fondamentale per la competitività del sistema economico in sede europea e mondiale. Si tratta quindi di una regola insita nella logica economica capitalista, senza componenti sociali o men che meno socialisti, il cui mancato rispetto si traduce in un danno per l’economia globale minando il meccanismo che sta alla base della crescita. Non aumentare i salari nella stessa misura dell’incremento della produttività del lavoro comporta una difficoltà nel trovare uno sbocco alla maggior produzione dei beni, effetto della incrementata produttività, che non sia una ricerca mercantile sui mercati esteri o, peggio, un mantenimento degli stessi volumi di produzione comportante una diminuzione dell’occupazione. Inoltre il decoupling comporta un effetto nella distribuzione del reddito a favore del capitale peggiorando gli indici di disuguaglianza che, come stiamo assistendo, fanno registrare un progressivo peggioramento dell’indice Gini. Quantitativamente il fenomeno nelle economie mature dell’OECD dopo gli anni ’70 fa registrare in media, al di là del ciclo, che solo il 50% dell’incrementata produttività si traduce in aumento dei salari e tale scostamento si è incrementato nelle ultime due decadi. Le teorie economico-sociali che cercano di interpretare questo fenomeno si possono concentrare in tre filoni: ● quello del mutamento tecnico che svaluta i lavori poco qualificati senza avere effetti compensativi sui lavori più specialistici. Tale tesi pare essere empiricamente inconsistente osservando che le variazioni nella diffusione degli strumenti ICT non sono correlati con i mutamenti nella distribuzione dei redditi; praticamente si tenderebbe a insinuare che la produttività del lavoro è generata dall’innovazione tecnologica figlia, più che del lavoro, del capitale. ● quello del mutamento di orientamento nella politica economica; questo filone fa registrare una sua consistenza in alcune dimensioni macroeconomiche, rappresentate da numerose variabili. Il clima politico maturatosi storicamente dopo il crollo del muro di Berlino e dopo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, ha riscontri nei rapporti di forza delle parti sociali. ● quello che considera il gap salari-produttività la variabile dipendente da una serie di variabili selezionate stimando i coefficienti dipendenti dallo Stato.   I risultati di queste analisi empiriche indicano che la debolezza ed il deperimento delle istituzioni pro-lavoro paiono aver giocato un ruolo più rilevante: tutte le variabili prese in considerazione indicano nell’aumento della disoccupazione e nel declino dei sindacati le cause del maggior impatto sul decoupling produttività-salari. Il processo dell’incremento della globalizzazione commerciale e finanziaria ha pure contribuito sul declino del salario medio, mentre non pare avere un significativo effetto l’aumentato livello di dividendi distribuiti né l’incrementata finaziarizzazione del mercato dei capitali. Nel nostro paese poi, il nanismo della struttura produttiva comporta che la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti è esclusa dalla contrattazione sindacale di secondo livello che, secondo il protocollo Ciampi, coniuga gli aumenti del salario agli aumenti della produttività. Nulla da stupirsi se il nostro paese, con una produttività che negli ultimi trent’anni si è migliorata ad un tasso ben al di sotto di quello fatto registrare nei paesi più a noi vicini (Francia e Germania) e dove l’amento della produttività si riflette al 50% sugli aumenti salariali dobbiamo registrare l’ormai famoso declino del livello dei salari reali. La recente esplosione dell’inflazione esogena, collegata ad una conseguente inflazione da profitti non ha di certo migliorato la situazione, tenendo conto che la contrattazione collettiva di primo livello, incide nella determinazione dei minimi sindacali in funzione dell’inflazione da cui però siano espunti gli effetti inflattivi generati dall’incremento dei costi dell’energia. E’ su questa contraddizione, ovvero su questo non rispetto di una golden rule capitalista che dovremmo basare la nostra lotta politica, cogliendo l’occasione di questo ossimoro comportamentale per combattere e sconfiggere la concezione egemone oggi predominante.   Le considerazioni fatte sul decoupling, hanno sì una rilevanza di tipo sindacale e retributivo, inquadrando il fenomeno come “il nuovo sfruttamento”, ma rimandano ad un concetto più generale che consiste certamente nel pluslavoro fornito dalla forza-lavoro in eccesso al lavoro necessario al compenso effettivo, ma, come ci ricorda Marx nella critica al programma di Gotha, lo sfruttamento consiste soprattutto nell’escludere la classe subalterna dalle decisioni di impiego del surplus prodotto dall’economia. E l’esclusione della classe subalterna dalla scelta dell’impiego del surplus, ci porta ad un livello più alto, ovvero alla scelta berlingueriana sul “cosa e come produrre” che rimanda all’incipit del Capitale all’alternatività tra “valori d’uso e valori di scambio”.  In termini semplicistici il tema si può sintetizzare nell’alternativa: il sistema produttivo deve produrre beni che producono il massimo profitto (valori di scambio) o i beni che servono maggiormente per soddisfare i bisogni o, meglio, i beni che, in prospettiva sono i più indicati per sostenere lo sviluppo economico (valori d’uso). Mentre la prima scelta è sostenuta dalla logica capitalista che, per sua natura, dovrebbe beneficiare tutti nella ricerca del profitto, la seconda scelta, quella che antepone la produzione di valori d’uso, presuppone che a scegliere “cosa e come produrre” sia la razionalità, ovvero quell’entità superiore che la rivoluzione francese sostituì alle divinità religiose con la “dea ragione”, una divinità tutta umana che umanizza il soprannaturale inglobandola nella naturalità della ragione umana. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA PROGRAMMAZIONE COME METODO PER DEMOCRATIZZARE IL CAPITALISMO

di Davide Passamonti | In Occidente, guardando e interpretando il mondo “da sinistra”, sorge l’esigenza di domandarsi “come democratizzare il capitalismo per ottenere più eguaglianza e giustizia sociale”. Prendendo atto che tutte le forme economiche alternative al capitalismo sono fallite, non c’è dubbio, però, che il capitalismo ha creato problemi di varia natura. Dalla questione ambientale sempre più intollerabile agli stravolgimenti climatici; dalle differenze economiche sempre più ampie, tra chi è ricco e chi è povero, all’interno di uno Stato e tra regioni diverse diverse del mondo; alla mercificazione di ogni bene materiale o immateriale (dal lavoro, ai costumi ecc.), c’è la necessità di porre un freno o limiti democratici di metodo allo strapotere del mercato. Gli anni Sessanta del secolo scorso, oltre a rappresentare la stagione keynesiana della piena occupazione, hanno rappresentato l’esperienza della programmazione economica. Ideata e sviluppata dall’elaborazione scientifica di economisti socialdemocratici come Jan Tinbergen, Ragnar Frisch, Gunnar Myrdal la programmazione doveva rappresentare «il compromesso keynesiano tra democrazia e capitalismo»[1] e prendere le distanze dalla pianificazione centralizzata dell’esperienza sovietica. L’attualità del metodo della programmazione, ieri come oggi, sta nell’economia mista, distinta in due settori, che caratterizza i paesi capitalisti. Da un lato, il settore pubblico che fornisce beni collettivi e servizi; dall’altro, il settore privato che fornisce beni privati attraverso il mercato. Stato e mercato, libertà economica e programmazione non sono in contraddizione o contrapposizione; anzi, «lo scopo di questa esperienza è l’aggiustamento reciproco di questi due settori. Mercato e settore pubblico possono essere armonizzati e resi complementari, realizzando i due obiettivi della crescita e di una equilibrata allocazione ed equa distribuzione delle risorse»[2]. Avendo carattere normativo, nella pratica, la programmazione si traduce nel stabilire come e in che modo lo Stato, controllando il 50% delle risorse, «può orientare lo sviluppo dell’intera economia nazionale verso la realizzazione di obiettivi economici e sociali prioritari, rispettando l’equilibrio tra i due settori e le loro logiche di funzionamento»[3]. Realizzare obiettivi socio-economici, quindi, è lo scopo della programmazione. Il piano assume un carattere democratico in quanto pianifica una serie di obiettivi gerarchicamente ordinati e coerenti tra loro. Le priorità sono espresse socialmente attraverso la concertazione tra le parti sociali e votate dai rappresentanti eletti. La finanza pubblica diviene, quindi, lo strumento principale attraverso cui lo Stato può influenzare indirettamente e indirizzare il resto dell’economia. E lo fa tramite le interdipendenze che costituiscono un’economia complessa come quella odierna. Così, attraverso tecniche economiche è possibile costruire un modello matematico che collega le variabili dell’economia. Se certe variabili del modello (per esempio, il tasso di crescita, l’occupazione, il saldo della bilancia dei pagamenti) sono fissate a priori come obiettivi, è possibile – sempre che il numero delle incognite non superi quello delle equazioni – determinare, attraverso la soluzione del modello, il valore delle variabili strumentali (per esempio, la spesa pubblica, il costo del lavoro, il tasso di cambio). Sarà allora sufficiente, per lo Stato, manovrare le sue politiche in modo che le variabili strumentali assumano i valori richiesti dal modello, per ottenere gli obiettivi desiderati[4]. Per influenzare le variabili strumentali lo Stato può intervenire direttamente attraverso leggi o comandi diretti, oppure indirettamente con la persuasione, l’incentivazione o la contrattazione. Per essere produttiva di risultati reali la programmazione deve legarsi a un’idea di società, a una “visione del mondo” precisa e chiara nella mente dei programmatori trascendendo sia il mercato che l’economia. Ovvero, lo scopo non è il “mito della crescita” fine a se stesso ma porre limiti, regole e obiettivi alla crescita economica attraverso la volontà politica. E, ancora, lo scopo non è quello di aumentare la spesa pubblica per risolvere tutto (come avviene oggi provocando storture economiche come inflazione o burocratizzazione) ma quello di ridare capacità politica allo Stato, oggi dispersa nella burocratizzazione, nel debito pubblico e nell’inflazione, «condensandola in un’area ristretta di competenze e di poteri: in un sistema centrale di pianificazione»[5]. [1]                 Ruffolo G. (1985), La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Roma-Bari, Laterza. p.253. [2]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.255. [3]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.256. [4]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.257. [5]                 Ruffolo G. (1985), Ivi p.261. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ARABIA SAUDITA: MEMORIA DEL CALCIO E “CANCEL CULTURE”

di Franco Astengo | Molti si stanno interrogando, su diversi piani (storico, politico, economico) intorno al fenomeno in corso del trasferimento verso la penisola arabica dell’asse di riferimento del calcio mondiale. Una prima risposta potrebbe essere quella dell’intuizione da parte degli sceicchi del valore del calcio come arma pubblicitaria di “distrazione di massa”: una analisi antica che già mosse i regimi totalitari (in particolare il fascismo) negli anni’30 che puntarono molto sull’universalità del gioco, il divismo (ben alimentato dalla trasformazione dei mezzi di comunicazione in atto in quel tempo), la globalizzazione degli avvenimenti sportivi (cui contribuirono molto i giochi olimpici di Los Angeles del 1932, i campionati del mondo di calcio in Italia nel 1934 e soprattutto le Olimpiadi di Berlino del 1936, esplosione del gigantismo architettonico-mediatico del nazismo al culmine della sua potenza). Il calcio ha sempre espresso una forte egemonia su questi fenomeni rispetto alle altre discipline (pur cresciute con il tempo nell’immaginario dei popoli): adesso gli arabi stanno cercando di spostare – dal punto di vista economico, geografico, di immagine – il riferimento globale di questa egemonia sportiva, mediatica, culturale, di vera e propria affermazione d’identità. La novità arriva da Neom, la città futurista voluta dal chiacchierato principe ereditario Mohammed bin Salman. Neom situata nella provincia di Tabuk in prossimità del Mar Rosso è costruita in pieno deserto seguendo criteri da smart city con un investimento da un trilione di dollari. Neom si dividerà in quattro regioni, differenziate per funzioni e popolazione: Sindalah, Trojena, Oxagon e Line. Restiamo al calcio: la squadra della nuova città si chiamerà Neom Foot Ball club e avrà sede nella regione di Line: una città verticale e interamente alimentata da energie rinnovabili con rinuncia ai mezzi di trasporto tradizionali. In quel luogo sarà allocato il club calcistico: nel nulla e arrivato dal nulla. Un esperimento sociale calcistico nel contesto di un esperimento sociale e territoriale di portata ben più ampia: quasi la realizzazione di un’utopia anticipatrice del “secolo dei lumi”. In questo senso i sauditi stanno rivoluzionando il calcio, azzerando il corredo simbolico che lo ha caratterizzato là dove tra l’800 e il ‘900 si è sviluppato. Una vera e propria operazione di “cancel culture”: i sauditi sanno di non poter disporre di questo corredo storico e soprattutto che questo corredo storico è tra le poche cose che non si possono comprare. Dunque è anche per questo che la nascita del Neon FBC (non a caso la sigla “classica” dell’esportazione del calcio degli inglesi nel mondo magari con l’aggiunta Cricket and Athletic come fu per il Genoa, la squadra “più inglese” d’Europa) va valutata con attenzione: nella città sorta da zero e destinata a diventare da subito una metropoli globale sorge un club privo di passato ma pronto a competere ai massimi livelli sul piano internazionale. Inoltre il Neom, nella logica della distruzione di tutte le roccaforti della memoria, non giocherà in un solo stadio: saranno costruiti stadi per ogni zona della città e la squadra si sposterà partita per partita facendo in modo che il pubblico non debba dar vita di continuo a esodi di massa. Scomparirà così il mito delle “curve storiche”: Anfield Road, Old Trafford, la curva “gialla” del Borussia, i “templi” di Wembley, San Siro, Prater. Insomma: il centro d’attrazione per il calcio internazionale diventerà sempre di più quello dei “capitali della modernità” utilizzati per attrarre e compiere un’operazione culturale e politica di grandissima ambizione: ricomporre e ritrasformare la logica della globalizzazione e le grandi transizioni che si stanno presentando (compresa quella verso un altro “immaginario” per l’appunto globale che non può avere storia). Sarà possibile? !Quanto vale il nostro passato ben oltre il valore degli investimenti miliardari e della collezione di figurine animate? Il calcio così come è stato vissuto in Europa e in Sud America e poi trasferito nel mondo seguendo e rispettando le tracce di quella storia è destinato agli archivi, alla lettura degli albi d’oro e a una sorta di “fine della storia”? Interrogativi che valgono molto anche sotto l’aspetto del rapporto di massa che il potere mediatizzato potrà instaurare andando oltre alle identità storiche in un quadro nel quale ci si sta misurando per superare gli antichi equilibri: l’adesione al BRICS dell’Arabia Saudita e insieme dell’Iran, in una contraddizione solo apparente, è segnale di questa ricerca aperta collocata ben oltre la logica dei blocchi . Il calcio potrebbe rappresentare in questo contesto un veicolo non di secondo livello, tanto più che vi si trovano assieme Brasile e Arabia Saudita. Come si potrebbe dire restando al calcio: il vecchio declinante ormai ridotto al ruolo di esportatore di calciatori e il nuovo che vuol far nascere da zero una idea diversa dello sport che rimane il più popolare. Per noi che pretendiamo di cimentarci con la storia del calcio non ci resterà, probabilmente, altro che la possibilità di raccontarla come se si trattasse della storia dell’impero romano. Così fu il Real Madrid e non sarà cosa da poco se osiamo pensare a un multiculturalismo senza memoria. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL FUTURO PRODUTTIVO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | La faccenda Intel offre molti punti di riflessione sul come si coniuga oggi lo sviluppo economico, il caso INTEL, come sta reagendo l’UE, come si muove il governo italiano, come reagiscono le forze politiche. 1 – Come funziona lo sviluppo economico: L’investimento in tecnologia è decisamente l’elemento economico che differenzia le economie che guardano al futuro, che hanno una visione a lungo termine da quelle che perdono progressivamente capacità di competizione. In questo filone di sviluppo economico assume sempre più importanza il ruolo dello Stato, come ci dimostra dalle sue pagine de “Lo Stato innovatore” Mariana Mazzucato. E’ indubbio che Cina, USA siano all’avanguardia nel ruolo che lo Stato si pone come soggetto innovatore che investe nella ricerca, area che l’impresa privata, intrisa di shortismo, volentieri delega allo Stato facendosi invece avanti, anche tramite i venture capital, appena i risultati della scoperta cominciano a far individuare aree di profitto. I miliardi investiti dallo Stato USA (in particolare con le istituzioni del pentagono) o dallo Stato cinese (tramite il partito comunista) sono una forte componente dei bilanci di quegli stati, incomparabili con quelli investiti dagli altri paesi e soprattutto dall’Italia. La filosofia della libera concorrenza, del libero mercato, dello Stato come incompatibile con le scelte economiche è da tempo una propaganda che vegeta nel senso comune frutto dell’egemonia culturale del post crollo del muro di Berlino. Altro che “non dare fastidio a chi produce”, la funzione dello Stato è richiesta di prendersi l’iniziativa di guardare avanti nel tempo, di individuare la strada che bisogna perseguire per attuare un progetto completo e globale, di essere il soggetto programmatore che sostituisce la razionalità alla decrepita mitologia del profitto; ridare primato ai valori d’uso rispetto ai valori di scambio. 2 – Il caso INTEL Riprendo da un post di Michele Perrone, alcune note sul caso Intel che “lo scorso giugno ha annunciato che aprirà la sua prima fabbrica in Polonia. È stato poi il turno della Germania, che non soltanto sarà la nazione dove sorgerà il primo impianto europeo di TSMC, ma anche quella dove Intel aprirà la sua prima fabbrica, utilizzando processi produttivi di ultimissima generazione. C’è poi la Francia, dove dovrebbe sorgere un nuovo centro di Ricerca e Sviluppo che renderebbe la nazione la sede europea di Intel per High Performance Computing e intelligenza artificiale. Ultima ma non ultima l’Irlanda, dove il chipmaker statunitense espanderà i suoi impianti per portare nel continente il suo processo Intel 4. In tutto ciò, che fine ha fatto l’Italia? (…). Le ultime notizie ufficiali sulla situazione fra Intel e Italia risalgono a giugno, quando il presidente del Veneto Luca Zaia affermava che il Veneto fosse pronto ma che fosse necessario “attendere la decisione di Intel, non su dove lo farà ma se lo farà davvero“. E dopo mesi di silenzio, si rischia la fumata nera per l’ambizioso progetto in casa italiana.(…) Lo snodo cruciale sembrerebbe la componente economica. La trattativa partì nel 2022, quando il governo Draghi mise sul piatto 4,15 miliardi di euro tramite il Decreto-Legge 17 dell’1 marzo 2022. Intel annunciò di conseguenza un “potenziale investimento fino a 4,5 miliardi” per una fabbrica di packaging di nuova generazione che coinvolgerebbe “circa 1500 posti di lavoro in Intel e altri 3500 posti di lavoro fra fornitori e partner“.  Con il passaggio al governo Meloni, la situazione andò in stallo: il governo italiano avrebbe dovuto garantire il 40% dell’investimento di Intel, ma in questi giorni è arrivato il Decreto-Legge 104 dell’agosto 2023, che abbassa i fondi della legge Draghi da 4,15 a circa 2/2,5 miliardi.(…) Non resta che attendere la pubblicazione del Piano nazionale della Microelettronica, che secondo il ministro Adolfo Urso “sarà alla base del Chips act italiano“, ma parliamo comunque di cifre insufficienti che potrebbero non soddisfare i requisiti di Intel. Nel suo investimento in Germania, Intel ha richiesto e ottenuto un aumento dei sussidi da 6,8 a 9,9 miliardi.” 3 – La posizione dell’UE Per aiuto di Stato si intende qualsiasi trasferimento di risorse pubbliche a favore di alcune imprese o produzioni che, attribuendo un vantaggio economico selettivo, falsa o minaccia di falsare la concorrenza. Tranne in alcuni casi, gli aiuti di Stato sono vietati dalla normativa europea e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che disciplina la materia agli articoli 107 e 108. Gli aiuti di Stato (concessi per via amministrativa o per legge) possono determinare distorsioni della concorrenza, favorendo determinate imprese o produzioni. Possono essere compatibili con il Trattato di Lisbona, solo se realizzano obiettivi di comune interesse chiaramente definiti. Gli aiuti sono ammessi quando ad esempio (articolo 107/2 del Trattato): ● consentono di realizzare obiettivi di comune interesse (servizi di interesse economico generale, coesione sociale e regionale, occupazione, ricerca e sviluppo, sviluppo sostenibile, promozione della diversità culturale, ecc.); Indubbia la strategicità dell’investimento nei chips, sia per l’Europa che diminuisce la sua dipendenza da Taiwan e dalla Cina ma aumenta quella verso gli USA, ma la possibilità pratica di erogare detti aiuti dipende evidentemente dalle disponibilità di bilancio dei vari paesi europei; la normativa europea non può non favorire de facto paesi come la Germania, che ha aumentato il suo aiuto a 10 miliardi di €, rendendo più problematica la situazione di paesi con bilanci stitici come quello italiano. Si noti che questi aiuti sono, almeno questo mi risulta, esentasse, essi rappresentano cioè componenti positivi del reddito che vengono tuttavia esclusi dal risultato economico imponibile ai fini fiscali. L’aiuto è quindi doppio: ti regalo soldi e ti esento da imposte il regalo erogato. Peraltro l’European Chips Act di Intel prevede espressamente di utilizzare tutti gli aiuti fiscali e non che ciascun stato può offrire. In un post di Hendrik Bourgeois, vicepresidente degli affari governativi europei di Intel, afferma infatti che “Oggi abbiamo visto cosa può succedere quando grandi idee e buoni politici si uniscono”, ed ha aggiunto che gli aiuti di Stato (o sussidi se preferite), sono un elemento centrale per concretizzare l’EU Chips Act e senza il quale Intel non potrebbe procedere con il suo progetto. …

CONSIDERAZIONE SUL SALARIO MINIMO

di Mauro Scarpellini – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Non ho avuto il tempo per leggere tutte le opinioni, ma ritengo di dare intanto anche la mia. Quando i sindacati erano guidati da Di Vittorio, Novella, Pastore e Viglianesi nel ventennio post bellico (anno più o meno) non riuscivano a conseguire tutte le conquiste e tutti i diritti. Intervenne la legislazione – su iniziativa socialista – per avere una legge in materia di diritti del lavoro e la si ebbe come Statuto dei diritti. Intervenne la legislazione per superare la mezzadria, poiché i rapporti sindacali di forza non consentivano un superamento negoziato. Si ebbe una fase di legislazione di sostegno (così la chiamavamo) ai diritti e alle conquiste per affermarli e/o consolidarli. Nella fase successiva di sviluppo nazionale i sindacati guidati da Lama, Pizzinato, Trentin, Storti, Macario, Carniti, Marini, D’Antoni, Vanni, Benvenuto non riuscivano a conseguire tutte le conquiste e tutti i diritti. Il negoziato coi governi per restituire ai lavoratori dipendenti il cosiddetto “fiscal drag” , cioè le imposte maggiori drenate solo per effetto della forte inflazione, prevedeva e conseguiva l’intervento di accordi e di inevitabile legge. La nuova qualificazione dei lavoratori dipendenti – dirigenti, quadri, impiegati, operai dell’art. 2095 del C.C. –  fu fatta col consenso sindacale per l’introduzione dei quadri e non per accordo negoziale con i datori di lavoro. Ho portato questi esempi, fra i tantissimi, per considerare che la sinergia tra negoziazione sindacale e intervento legislativo è un fatto storicamente e politicamente acquisito, non sarebbe una novità. In questa fase nella quale il lavoro è sottoposto ad un nuovo tipo di sfruttamento per certe attività e nella quale la capacità sindacale è ridotta non trovo anomalo che si possa pensare ad un intervento legislativo. La questione che vedo molto in ombra è quella della poca incidenza propositiva sindacale; mi sembra che la loro posizione sia piuttosto di adesione o di proposta obbligata ma non sono loro a guidarla. La questione che vedo, al contrario, molto in luce e non in ombra è il protagonismo propositivo dei partiti di opposizione vissuto in una rumorosa azione che non è vista – come nei decenni che prima ho citato – come sinergia di supporto, ma come argomento strategico, punta di diamante di una strategia complessiva che non vedo quale sia. La stessa Presidente del Consiglio potrebbe metterli nel sacco sul terreno della propaganda se riuscisse a trovare una proposta legislativa sul più ampio campo dei problemi del lavoro – come lei dice e non inventa il tema – dimostrando la pochezza delle opposizioni. Ho timore che il minimo salariale sia una battaglia nobile, ma angusta per i sindacati. Altrettanto per le opposizioni. Concludo. Occorre avere una visione della società e dei rapporti sociali all’interno di essa e non limitarsi a spicchi di pensiero. Le opposizioni dimostrano di non averla. Le destre improvvisano e comunque si muovono su linee non di progresso complessivo, ma – come da dichiarazioni programmatiche del governo – per non porre difficoltà alcuna alle imprese; evidentemente anche a quelle che non rispettano le condizioni minime di decenza nel rapporto di lavoro. Siamo costretti a proseguire la richiesta per avere una legge sul minimo salariale, sapendo che stiamo operando in questa fase bassa della storia politica. Dovremmo dirlo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

20 AGOSTO 1968, L’INVASIONE DELLA CECOSLOVACCHIA

di Mauro Scarpellini – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI | Ricordo di un grosso triste evento e di un piccolo dettaglio al suo interno. Il triste evento fu l’invasione della Cecoslovacchia la notte del 20 agosto 1968; il dettaglio fu la posizione del PSIUP Il mattino del 21 agosto 1968 i radiogiornali informarono il mondo che circa 250.000 armati sovietici, bulgari, ungheresi e polacchi avevano invaso la Cecoslovacchia nella notte. Tutti paesi comunisti. L’Unione sovietica ne decise l’invasione per bloccare la cosiddetta “primavera di Praga”, cioè lo sviluppo di un comunismo locale che cominciasse ad essere ispirato ad alcuni valori sociali e diritti richiesti dal popolo cecoslovacco, ma non voluti dai dirigenti sovietici. I partiti politici italiani emisero immediate dichiarazioni critiche e nette contro l’intervento. Il PSIUP non emise comunicati. L’unico! Sessanta anni possono bastare per leggere con distacco anche i fatti minori della storia. Mi riferisco al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria nato il 12 gennaio 1964 e morto il 13 luglio 1972. Otto anni di vita non lasciarono traccia significativa; furono un momento di passaggio del gruppo che guidò l’operazione di scissione dal PSI e di costituzione del PSIUP da un massimalismo dogmatico, metodologicamente religioso, all’interno del Partito Socialista ad un proseguimento di attività politica nel Partito Comunista su linee e sviluppi esattamente opposti alle motivazioni di fondo che portarono alla nascita di quel partito. Non riguardò tutti i dirigenti, ma la maggioranza di essi. Alcuni di loro, in minoranza, tra i quali anche personalità con storie politiche di spessore e rispetto, vissero problematicamente la loro scelta e tentarono distinzioni che non ebbero affermazione. Qualche dettaglio può aiutare a capire meglio. Il gruppo dirigente della forte minoranza del Partito Socialista Italiano – cosiddetta “sinistra” – si era caratterizzato per posizioni politiche di un socialismo filocomunista, molto teorico. In politica estera manteneva una preferenza internazionalista (un po’ declamatoria, da indovinare tuttavia nel significato reale della politica concreta) e un appoggio alle scelte dell’Unione Sovietica, sia politiche che militari. Infatti quel gruppo dirigente era già stato definito “carrista” (pro carro armato, per chiarezza) perché nel 1956 aveva mostrato comprensione e approvazione per l’intervento militare dell’Unione Sovietica in Ungheria che represse nel sangue la sommossa popolare che era sorta per le sofferenze economiche e sociali che il popolo subiva dal regime comunista al governo e al potere. Quando in Italia si prospettò la possibilità per mezzo dell’azione politica del PSI, condivisa da socialdemocratici e repubblicani, di un nuovo cammino politico, parlamentare e governativo per lo sviluppo nazionale con una possibile maggioranza parlamentare comprendente socialisti e democristiani, socialdemocratici e repubblicani, quel gruppo dirigente si arroccò contro lo spostamento a sinistra della politica economica e sociale. Non era bastato a convincerlo uno dei prezzi che il PSI aveva chiesto alla DC – e ottenuto nel 1962 – per preparare credibilmente la svolta a sinistra, cioè la legge di nazionalizzazione delle aziende elettriche private e pubbliche in un unico ente preposto ad assecondare programmazione economica, superamento delle disuguaglianze di servizio elettrico tra le zone del Paese ed altro. Fu ed è ancora l’unico atto veramente rivoluzionario e pacifico fatto nell’ industria italiana deciso dal Parlamento dalla fine della seconda guerra mondiale. Non bastò, benché la legge fosse stata promulgata prima del centro-sinistra organico, così fu definito quello con la partecipazione anche dei socialisti. Non bastarono gli impegni della nuova maggioranza di governo di centro-sinistra – poi mantenuti, era il 1970 – dello Statuto dei diritti dei lavoratori e della costituzione delle Regioni. La dichiarazione (qui interamente riportata e interessante anche per il linguaggio) del gruppo cosiddetto di “sinistra” pronunciata il 26 novembre 1963 al Comitato Centrale del Partito Socialista Italiano è esemplare per affermazioni generali e spiccano due riferimenti di portata ideologica massima: il contrasto “con i principi e con le prospettive del socialismo” e la negazione della “collocazione classista del partito”. I componenti di quel gruppo dirigente sarebbero poi confluiti in maggioranza e prestissimo nel Partito Comunista Italiano nel 1972 approvando il “compromesso storico” che il Segretario di quel Partito Enrico Berlinguer propose appena un anno dopo, nel 1973. Il “compromesso storico” non era certo una tappa verso il socialismo e sulla natura classista del partito ognuno sa fare di conto con la storia del PCI-PDS-DS-PD. Subito prima di confluire nel PCI sostennero la candidatura a Presidente della Repubblica del democristiano Fanfani contro quella del socialdemocratico Saragat, poi eletto. E’ difficile collegare quel comportamento col rigore coi suddetti principi sostenuti. Conclusivamente mi rimane incompreso il filone di pensiero di coloro che guidarono il PSIUP. Con le dichiarazioni astratte si compilerebbe un libro, ma l’ispirazione, la linea di azione, la fattibilità delle proposte non sono accessibili a mente normale come la mia. Diversi furono generosi nell’impegno sociale e nel tentativo di elaborare prospettive per una diversa sinistra, talvolta anche in posizione di contestazione da sinistra del PCI, molto gradita ai dirigenti del Partito Comunista sovietico in funzione di richiamo all’ortodossia filo moscovita che volevano far risuonare ripetutamente per mezzo del PSIUP nelle orecchie dei dirigenti italiani del PCI. Credo che gli elettori che lo votarono (solo alla Camera il 4,4% nel 1968; scesi all’1,9% nel 1972) fossero sinceramente antidemocristiani, forse romanticamente aggrappati ad un sogno semirivoluzionario da realizzare in qualche modo pacifico e comunque ad un rivolgimento velleitariamente invocato. La stessa cosa non mi sento di dire per tutti i dirigenti. Mi raccontò l’ex tesoriere del PSIUP – divenuto poi editore dopo il 1972, che conobbi per la pubblicazione del mio primo libro senza sapere chi fosse stato prima – un episodio di mercoledì 21 agosto 1968, appena conosciuta l’invasione della Cecoslovacchia. Il PSIUP non emise comunicati. Il suo Segretario Tullio Vecchietti partì al mattino per Formia, in vacanza marina. Lui, il tesoriere, fu chiamato al telefono dall’Ambasciatore sovietico Nikita Riyov e invitato a recarsi a Villa Abamelek a Roma, residenza dell’ Ambasciatore, e gli fece trovare una borsa con cinquanta milioni di lire. Il giorno dopo, in ritardo rispetto a tutti gli altri comunicati di partito, il segretario del PSIUP emise …

1892: RITROVARE IL CORAGGIO DI QUEI GIORNI

di Franco Astengo | 14 agosto 1892, Genova fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani: Questo richiamo alla memoria vuole misurarsi con l’idea di fondo della ricostruzione di una soggettività rappresentativa posta oltre le antiche separatezze rievocando l’importanza storica di quel momento fondativo. Un esempio di coraggio e di lungimiranza politica datato 1892, ma di grande attualità nella sua essenza di capacità nel progettare il futuro: forse quella capacità che a noi manca nel saper riproporre oggi l’essenza di una presenza della sinistra rivolta sempre coerentemente al riscatto dei ceti sociali sfruttati in modo diverso, ma forse sempre eguale, da un capitalismo sempre più tentacolare, arrogante, manipolatore, ignaro non tanto dei diritti soggettivi, ma del senso della vita intesa come lotta eterna per il riscatto sociale e il cambiamento dello “stato di cose presenti”.Nel corso del primo ventennio del nuovo secolo si sono registrati alcuni passaggi fondamentali che hanno determinato un profondo mutamento nei rapporti economici, politici, sociali: 1) Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno riportato la guerra come fattore essenziale di un’idea di democrazia da esportare attraverso l’operato del “solo gendarme del mondo”; 2) La crisi dei subprime (2007-2008) ha mostrato per intero la fragilità del meccanismo del capitalismo globalizzato e ormai esclusivamente finanziario; 3) Almeno dall’inizio degli anni’ 10 si è aperto un nuovo livello di confronto globale protagonista la Cina avendo come posta possesso e dominio delle nuove tecnologie e delle risorse indispensabili per imporre al mondo un nuovo modello di “solitudine tecnologica”; 4) L’inedita emergenza sanitaria globale principiata nel tardo inverno 2019 – ’20 ha sconvolto l’insieme dei rapporti economici e scompaginato il complesso degli assetti sociali. Un’emergenza che avrebbe dovuto ribaltare le priorità nella graduatoria delle contraddizioni proponendo l’idea di un diverso modello di economia, lavoro infine di vita, fondato sull’idea del “limite” (il socialismo della finitudine). Invece l’emergenza sanitaria ha portato ad una concentrazione dei poteri sul piano politico e ad un allargamento a dismisura delle disuguaglianze tra i popoli e all’interno delle nazioni riportando il mondo sull’orlo di una possibile guerra totale. 5) Dal febbraio 2022 è iniziata l’invasione russa in Ucraina: operazione ancora drammaticamente in corso, causa di indicibili lutti e di rovine non riparabili e – soprattutto – ben lontana dal trovare una soluzione che non sia quella della tensione permanente e del ritrovare logiche da “blocchi contrapposti” fra le grandi potenze, ponendo in vista delle prossime elezioni europee il tema della coincidenza NATO/UE; 6) In Europa e in Italia è emersa una tendenza di raccolta di consenso al populismo di destra (alimentato anche dalla questione dei migranti sospinti alla fuga dalle guerre e dai regimi dittatoriali in Africa) che nel nostro paese è sfociata (anche grazie ad una legge elettorale pericolosamente sbagliata proprio sul terreno dell’equilibrio della traduzione dei voti in seggi parlamentari) nell’avvento di un governo di destra colmo di ideologie nazionaliste e corporative. Questi sei punti (comunque in questa sede lacunosamente riassunti) hanno inciso profondamente sulla fragilità complessiva del sistema politico italiano acuendone le contraddizioni. Hanno avuto origine fenomeni di antipolitica con rigurgiti di nazionalismo , razzismo, vocazione autoritaria, messa in discussione del ruolo del Parlamento e dei consessi elettivi locali in un quadro di modifica delle stesse coordinate costituzionali di fondo al riguardo della forma parlamentare di governo Nell’Italia degli anni ‘20 del XXI secolo il fenomeno più deteriore che si è potuto osservare è stato quello della perdita della capacità di cogliere quella che era stata definita “l’energia sociale del lavoro”. L’ansia di porre il profitto al centro di una non meglio precisata “ripartenza” ha di fatto cancellato qualsiasi logica di diritto, sicurezza, stabilità del lavoro all’interno di una società dominata dal l’individualismo competitivo. Si è aperta la strada al via libera “contro” ogni regola e qualsiasi compatibilità: c’è chi ha scritto (ed è necessario confermarlo) che in nome dell’autonomia del capitale si è riproposto il “connotato di classe” (come se fosse stato logico illudersi della scomparsa della contraddizione di classe, come avrebbe preteso il pensiero mainstream dall’89 in avanti). L’Italia è un paese socialmente abbruttito, soggetto ad un agire politico in larga parte fondato sulla “logica di scambio”, dove si sta zitti davanti a tutte le ingiustizie. Abbiamo perduto una capacità di rappresentanza che abbiamo il dovere di riproporre in una chiave non difensiva ma di forte proposizione dell’idea di un pieno rilancio delle idee di eguaglianza e solidarietà da comprendere in progetto di trasformazione sociale, politica, culturale. La sinistra dovrebbe prima di tutto ritrovare coraggio. Quel coraggio che i nostri progenitori ebbero,proprio in questi giorni, 131 anni fa fondando il Partito dei Lavoratori Italiani poi diventato partito Socialista dei Lavoratori italiani. Queste poche e disordinate righe nelle intenzioni del proponente avrebbero dovuto essere dedicate al ricordo di quei giorni, ma chi scrive si è lasciato prendere la mano tentando di descrivere l’attuale situazione e cercando di collegarla a quanto avvenne in quel tempo. E’ quindi il caso di cercare di descrivere l’attualità collegandola a quel ricordo lontano. Un ricordo che va sempre rinnovato giorno per giorno in una tensione di lotta quotidiana per affermare i grandi principi e i grandi valori del socialismo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it