ULTIMO, MA NON ULTIMO..

Robert Owen è il primo e il più significativo tra i socialisti utopisti. Comincia a lavorare a dieci anni come commesso di negozio a Londra; nel 1789 apre una piccola industria tessile. Il successo di questa gli permette di acquistare dieci anni dopo, nel 1799, le filande di New Lanark in Scozia. La sua mentalità è strettamente legata alla sua esperienza di dipendente prima, e di capitano d’industria poi; si rende conto che il modello di self-made man teorizzato dagli economisti è un’astrazione, in quanto le condizioni ambientali non possono non influenzare gli individui: l’ambiente quindi deve essere costruito a servizio dell’uomo, prima di pensare a qualsiasi vantaggio economico, individuale e collettivo. Owen sperimenta questa sua idea nella gestione delle filande di New Lanark, iniziata simbolicamente il 1° gennaio del 1800. Queste diventano una fabbrica modello grazie all’introduzione di nuovi macchinari, buoni salari, abitazioni salubri e alla costruzione presso la fabbrica un asilo infantile, il primo in tutta l’Inghilterra; una parte dei profitti industriali viene destinata al miglioramento delle condizioni di vita degli operai. Egli istituisce inoltre nel 1816 un singolare centro di servizio, chiamato Istituzione per la Formazione del Carattere. Ciò non impedisce comunque a Owen di realizzare forti guadagni, consentendogli di affrontare con successo le proteste dei soci, che nel 1813 vengono sostituiti da persone di maggiore apertura mentale, tra cui il filosofo Jeremy Bentham. Nella prima metà dell’Ottocento l’officina di New Lanark diviene famosa, tanto da attirare visitatori da tutto il mondo. Il successo economico della sua impresa, negli stessi anni in cui l’Inghilterra è attraversata da una grave crisi economica e la disoccupazione raggiunge livelli preoccupanti, convince Owen a proporre una generalizzazione della sua proposta. Elabora quindi nel secondo decennio del secolo un modello di convivenza ideale: un villaggio per una comunità ristretta, che lavori collettivamente in campagna ed in officina, e sia autosufficiente, avendo al suo interno tutti i servizi necessari. Owen espone per la prima volta questo piano nel 1817 in un rapporto ad una Commissione d’inchiesta sulla legge dei poveri (R. Owen, Report to the Committee for the Relief of the Manufacturing Poor, 1817); in seguito difende la sua proposta su vari giornali e la sviluppa con maggiore ampiezza in un rapporto alle autorità della contea di Lanark del 1820 (R. Owen, Report to the County of Lanark, 1820). L’analisi della società capitalistica da parte di Owen è incentrata sul tentativo di cogliere le ragioni della disoccupazione: queste vengono individuate nel mancato assorbimento della produzione da parte del mercato. La mancanza di domanda è dovuta, secondo Owen, all’impossibilità per i lavoratori di entrare nell’area dei consumatori. Il capitale cerca di porre rimedio a questa crisi abbassando i costi, e quindi ricorrendo al lavoro delle macchine o abbassando i salari, ma ciò non fa che peggiorare la situazione. Per sanare la situazione deve dunque succedere una di queste tre cose: l’uso dell’energia meccanica deve essere fortemente diminuito; milioni di esseri umani devono morire di fame, per permettere l’attuale livello produttivo; bisogna trovare un’occupazione vantaggiosa per i poveri e i disoccupati, a cui il lavoro meccanico deve essere subordinato, invece di essere indirizzato, come ora accade, a sostituirlo. Owen dimostra che la terza alternativa è la sola possibile; per combattere la disoccupazione bisogna dunque promuovere profondi cambiamenti nella società esistente, che portino a pianificare sia la produzione che la distribuzione; è preferibile inoltre passare dalla concorrenza e dall’iniziativa individuale all’organizzazione comunitaria della produzione. A tutti vanno concesse condizioni ambientali favorevoli ed equilibrate, inclusa tra queste la possibilità di un’istruzione scolastica di base; accanto al nuovo assetto sociale viene anche elaborato un nuovo tipo di insediamento finalizzato a favorire la vita associata ed a regolare la produzione. Il modello fisico proposto da Owen nel 1817 (R. Owen, Report to the Committee for the Relief of the Manufacturing Poor, 1817) consiste in un insediamento di circa 1.200 persone, circondato da 1.000-1.500 acri di terreno. La pianta del villaggio è costituita da una grande unità edilizia quadrilatera, diviso al suo interno in settori dagli edifici pubblici (cucina pubblica, depositi, scuola e biblioteca). Tre lati del quadrilatero perimetrale sono destinati alle case, il quarto ai dormitori per tutti i bambini che eccedano i due per famiglia, o che abbiano più di tre anni. All’esterno del quadrilatero orti e giardini, circondati da strade e «al di là di questi, abbastanza distanti per essere schermati da una zona alberata, sorgeranno i laboratori e le industrie». Il piano viene ulteriormente illustrato nel 1820 (R. Owen, Report to the County of Lanark, 1820). Questa proposta di Owen è il primo piano urbanistico moderno sviluppato in ogni sua parte, dalle premesse politico-economiche al programma edilizio e al preventivo finanziario. Quanto alla realizzazione effettiva di queste proposte, Owen sostiene che esse possano interessare i singoli imprenditori, le società industriali, ma anche le stesse autorità pubbliche. Egli quindi si impegna in un’assidua opera di propaganda, presentando le sue proposte a tutti i grandi personaggi del suo tempo: al futuro zar Nicola I in visita a New Lanark, a Napoleone I confinato all’isola d’Elba, all’imperatore di Russia Alessandro I durante il congresso di Aquisgrana, oltre che ai governanti del suo paese. Ma il mancato successo dei suoi tentativi lo convince a tentare di persona. Al corrente delle esperienze già condotte negli Stati Uniti, decide di fondare una comunità cooperativa in America. Nel 1825 acquista da una setta protestante un terreno di 30.000 acri nell’Indiana, per 190.000 dollari. Il villaggio viene ribattezzato New Harmony. Owen vi attira molti uomini di cultura americani ed un gruppo di scienziati e di educatori, fra cui William Maclure. Tuttavia ben presto si aprono dissidi e contrasti nella gestione, dovuti in parte all’intransigenza di Owen, che sfociano nella secessione di individui e gruppi dissidenti tra cui Maclure, che fonda una sua comunità autonoma chiamata Macluria. Owen abbandona quindi la colonia nel 1828, lasciandone la direzione ai figli. Contemporaneamente vedono il fallimento anche le iniziative prese da seguaci di Owen a Orbiston in Scozia (nel 1826), ed a Ralahine in Irlanda (nel 1831). …

LIBERI E UGUALI MA PUR SEMPRE REFRATTARI AL SOCIALISMO

di Carlo Patrignani Alla fine, per rifarsi all’Ars poetica di Orazio: parturient montes, nascetur ridiculus mus (i monti avranno le doglie, nascerà un ricolo topo) la montagna ha partorito la carovanina rossa dei Liberi e Uguali, che d’ora in avanti dovrà dimostrare, come narra, di rappresentare la titolarità dell’onda maestosa dei più di 19 milioni di No al referendum del 4 dicembre scorso. Un’impresa questa assai ardua: chi può dire, tra coloro che si sono schierati per il No, quanti di quei 19.419.507 pari al 59,1% sono propri elettori, specie in un contesto in cui l’astensione, per la disaffezione crescente verso la partitocrazia, marcia a livelli vicinissimi al 50, e, in alcuni casi, addirittura superiori alla metà degli aventi diritto? E tra i tantissimi No quanti sono – soprattutto tra i giovani accorsi numerosi ai seggi – coloro che non condivevano le contro-riforme istituzionali del governo in carica e quanti hanno utilizzato il voto referendario per indicare con il No il loro pollice verso sul premier di allora, Matteo Renzi? Intestarsi, anche parzialmente, la straordinaria vittoria referendaria, è scorretto: basta vedere le disastrose – tanto per il Pd di Renzi, non più premier, quanto per la sinistra a sinistra del Pd – elezioni regionali in Sicilia per rendersi conto che l’onda maestosa ritiratasi ha lasciato sulla spiaggia il 53,24% del non voto, più di un elettore su due e ha spinto il ritorno al governo del risorto centro-destra. Liberi e Uguali non è la riedizione, dieci anni dopo il tracollo del 4 aprile 2008, della Sinistra Arcobaleno ma quasi: entrambe le carovane rosse discendono dal vecchio Pci del centralismo democratico e entrambe, al di là di richiami formali, i conti con il socialismo e le diverse anime europee -laburismo e/o socialdemocrazia – non li hanno fatti e non intendono farli. Lo stesso dicasi del Pd di Renzi: pur se ha aderito al Pse, di socialismo nelle sue scelte – emblematica l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori  propedeutica al Jobs Act che avrebbe prodotto un milione di posti di lavoro tutti da dimostrare, e forse più virtuali che reali – se ne è vista poco, ce ne è assai poco: per entrambi – Pd e Liberi e Uguali – la parola laicità è totalmente sconosciuta. Eppure basterebbe volgere lo sguardo al di là delle Alpi dove un distinto signore di 68 anni, Jeremy Corbyn, sta realizzando giorno dopo giorno una seconda rivoluzione in Inghiliterra: il Labour Party  ripulito – a differenza del Pd renziano e delle carovane rosse alla sua sinistra – dai Blaires dinosaurs, quelli del libero mercato che aggiusta tutto, è dato dal sondaggio di Survation, l’istituto che indovinò i clamorosi risultati delle elezioni di giugno scorso, ben otto punti avanti ai Tories della Premier Theresa May: 45% ai laburisti e 37% ai conservatori. Si dirà: qual’è la differenza? Sta tutta nella credibilità e coerenza di Corbyn, laburista da sempre: qualità che alimentano la diffusa popolarità tra i giovani, i ceti popolari e la middle class, ma che mancano all’establishment a trazione catto-comunista e ex-comunista: Pd e carovane varie. Poi gli apprezzamenti dello storico Luciano Canfora tutti i punti di riferimento che abbiano un richiamo esplicito al socialismo vanno benissimo come appunto Corbyn o quelli di Pippo Civati libertà, uguaglianza e socialismo sono parole antiche ma sempre attuali, lasciano il tempo che trovano perchè vengono dall’establishment poco credibile, coerente e quindi poco popolare. Fonte: alganews.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CAPITALISMO E SOCIALISMO

Economia e società nella prima metà dell’Ottocento Nella prima metà dell’Ottocento, in seguito all’estensione della Rivoluzione industriale, la divisione della società fra proletari e capitalisti diventa sempre più evidente. La principale caratteristica di questo periodo consiste nel trionfo di un’economia fondata sul mercato. In altri termini, viene a compimento quel processo, già iniziato da tempo, ma che subisce nell’Ottocento una brusca accelerazione, per il quale non si produce più per il consumo, ma per mercati sempre più vasti, a livello nazionale ed internazionale. Insieme con il mercato e la rapida moltiplicazione degli scambi, gli altri due protagonisti della prima Rivoluzione industriale sono il capitale e il lavoro salariato. Si verifica una netta distinzione tra l’imprenditore, fornito di capitali, e coloro che lavorano per lui. Le nuove ricchezze prodotte si distribuiscono in modo molto ineguale. La diffusione di sistemi di produzione capitalista provoca un fenomeno sociale rilevante: la progressiva eliminazione di varie categorie di lavoratori indipendenti e la loro trasformazione in salariati o, come si comincia a chiamarli, in proletari. Si è molto discusso sulle condizioni delle classi lavoratrici in questo periodo. Prima di tutto occorre notare che, nella logica del capitalismo, il lavoro è considerato una merce come le altre, che si compra e si vende sul mercato. Le frequenti crisi economiche e la conseguente disoccupazione sono minacce sempre pendenti sulla testa dei lavoratori salariati ed in particolare degli operai di fabbrica, subordinati e legati al ritmo delle macchine. Questi ultimi ricevono paghe in genere superiori a quelle degli altri lavoratori salariati, ma non si può non considerare la gravosità degli orari di lavoro, le cattive condizioni igieniche e di sicurezza, la disciplina da caserma vigente nelle fabbriche. In Inghilterra nascono le prime forme di resistenza e di tutela dei lavoratori dell’industria. L’impossibilità di ogni protesta legale scatena dapprima una reazione negativa e violenta contro l’introduzione delle macchine e la proletarizzazione del lavoro operaio: è il fenomeno del luddismo, al quale aderiscono gruppi di operai, che si danno alla distruzione delle macchine e all’incendio degli stabilimenti. In seguito sorgono le prime forme di associazione tra operai, le Trade Unions, inizialmente segrete, poi legalmente riconosciute. Le origini del socialismo Alla maturazione del movimento proletario danno un importante contributo i primi teorici del socialismo (tra i quali ricordiamo i Francesi Saint-Simon, Fourier e Proudhon, e l’Inglese Owen); essi, ognuno a suo modo, intraprendono il progetto di un nuovo tipo di società, un nuovo ordine sociale. Le prime teorie socialiste hanno appunto la funzione di mettere in rilievo i problemi sociali derivanti da un tale sistema di produzione e organizzazione della ricchezza, e di emancipare l’uomo dalle contraddizioni dell’età industriale capitalistica. Karl Marx e la fondazione del “socialismo scientifico” Il massimo contributo alla fondazione teorica del socialismo è però dato da Marx ed Engels, che insieme elaborano il Manifesto del partito comunista, pubblicato all’inizio del 1848. I due autori ritengono che il sistema capitalistico, dopo aver stimolato efficacemente lo sviluppo delle forze produttive, sia ormai diventato un ostacolo all’ulteriore progresso: esso deve perciò essere abbattuto da una rivoluzione, che lo sostituirà con un sistema comunistico, caratterizzato dalla proprietà comune, e non privata e individuale, dei mezzi di produzione. Questo risultato, necessario per la liberazione di tutti gli uomini, si può raggiungere solo contrapponendo all’organizzazione internazionale del capitale l’organizzazione internazionale dei lavoratori, alla quale – secondo Marx ed Engels – spetterà il compito di fondare una società senza classi. Marx ed Engels elaborano i principi fondamentali del materialismo storico e del cosiddetto socialismo scientifico: la storia dimostrerebbe – sostiene il Manifesto – che lo sviluppo stesso della società capitalistica comporta il continuo aumento del numero dei proletari, elimina le classi intermedie e divide la società in due grandi classi direttamente contrapposte, borghesia e proletariato. L’inasprimento dei conflitti di classe preparerebbe le condizioni per lo scontro finale, che si dovrebbe concludere con la vittoria del proletariato e con l’avvento di una società comunista. Il socialismo di Marx si definisce “scientifico” in quanto si fonda non su desideri personali dell’autore, ma su analisi molto accurate della società esistente, condotte in una serie di saggi e in particolare nell’opera Il capitale. La Prima e Seconda Internazionale Coerentemente con queste premesse, Marx ed Engels partecipano nel 1864 alla fondazione della Prima Internazionale, associazione di operai, contadini e intellettuali, fondata allo scopo di coordinare sul piano mondiale la lotta contro il capitalismo. L’internazionale prese posizione contro la guerra franco-prussiana, scoppiata nel 1870 e, l’anno seguente, fu a favore della nascita della Comune di Parigi, intervenendo attivamente nelle sue vicende storiche; ciò contribuì ad una sua ulteriore espansione. Questa associazione è però lacerata da contrasti insanabili fra marxisti e anarchici, seguaci di Bakùnin: i marxisti puntano sulla lotta di classe condotta dalle grandi masse, che si dovrebbe concludere con la conquista del potere politico e la collettivizzazione dei mezzi di produzione; gli anarchici credono invece nei metodi rivoluzionari tradizionali delle congiure e degli attentati, e sono contrari ad ogni forma di collettivismo. Il Consiglio dell’Internazionale fu trasferito a New York. Nel 1876 al Congresso di Filadelfia venne deliberato il definitivo scioglimento dell’Associazione. Il suo compito, secondo Marx, era stato portato a termine e si doveva lasciar spazio allo sviluppo di partiti operai e socialisti in ogni paese. Gli anarchici, molto diffusi in Svizzera, Spagna, Italia e Russia si riunirono in una struttura parallela all’Internazionale, chiamata Alleanza della Democrazia Socialista o “antiautoritaria”, che si definì prosecutrice dell’originaria organizzazione, con sede a Ginevra. L’influenza anarchica in Europa tese a diminuire sempre più col tempo. Durante la prima internazionale vi fu anche uno scontro fra il delegato italiano, inviato da Giuseppe Mazzini, ed i marxisti. I mazziniani infatti erano decisamente contrari alle teorie che prevedevano la lotta di classe (pensavano di risolvere i problemi sociali attraverso la solidarietà nazionale), ma nello statuto provvisorio Marx aveva già inserito dei punti che qualificavano in senso classista l’organizzazione. In seguito infatti anche i mazziniani si ritirarono dall’Internazionale (al contrario di Garibaldi, che espresse il suo favore verso l’Internazionale). La Seconda Internazionale, fondata a Parigi nel …

LA “FELICE GIOVINEZZA”DEL SOCIALISMO

di Domenico Argondizzo Prendo le mosse da un concetto chiaramente espresso nell’editoriale “Il socialismo, l’Italia e l’Europa”, su «mondoperaio» n. 6/2012. Si parla della necessaria presenza sullo scenario politico-elettorale di opzioni ben radicate nella cultura politica europea. Lo esige la profondità della crisi, che postula risposte innovative sia sul piano sociale (crisi fiscale e riforma del Welfare), sia sul piano economico (limiti al capitalismo finanziario), sia infine sul piano politico (ruolo degli Stati-nazione e democratizzazione dell’Unione europea). Come contributo, anche in occasione del centoventicinquesimo anniversario della fondazione del Partito socialista, mi permetto di richiamare un po’ di anima e respiro socialista, poggiandomi su alcuni documenti che si collocano in un passaggio cruciale della storia del movimento socialista, a cavallo tra la sua massima affermazione nella società italiana ed in Parlamento, ed il suo assassinio. Se infatti è necessaria la presenza anche e soprattutto del movimento socialista, essa è necessaria non semplicemente – e riduttivamente – perché manchi una organizzazione che si richiami direttamente ad esso (cosa infatti che non è, vista la longeva vita del Partito socialista italiano), ma bensì per il contributo di pensiero, di analisi, di idee, di progetti concreti che il socialismo seppe esprimere in epoche lontane e per questioni (forse) remote; contributo che potrebbe essere decisivo anche e soprattutto oggi. Ciò che mi preme è stabilire un nesso – direi inscindibile – tra la necessaria presenza dei valori del socialismo, del suo metodo di analisi (esso stesso tra i suoi caratteri distintivi, e precondizione per la definizione dei suoi valori di riferimento), del suo metodo di prospettazione di risposte alle esigenze sociali (prospettazione orientata dai suoi valori), e le ragioni di merito del suo assassinio. Altrimenti tale necessaria presenza sarebbe fatua e comunque non atta a durare. Se non si ricostituisce un legame consapevole con il passato, se non si ripercorrono gli iter logici, i ragionamenti, che motivarono scelte concrete, e più concrete reazioni, non può mettersi a frutto tutta la potenzialità dirompente degli ideali socialisti. Ci si dovrebbe contentare della presenza di un simulacro mendace ed incapace di parlare incisivamente all’elettorato. Inizio dall’intervento che Filippo Turati tenne il 7 ottobre 1919, al congresso socialista nazionale di Bologna[1]. La prima questione che veniva affrontata era l’antagonismo tra riforme e rivoluzione. Secondo Turati era mal posta tale antitesi perché le rivoluzioni più sostanziali (e quindi “socialiste”) sono il frutto di tante piccole riforme affiancate le une alle altre (e tendenti tutte agli obiettivi del socialismo). Ragione per cui gli “atteggiamenti” “anarchici” che pretendevano di sostituirsi al socialismo, ne invece erano la “diametrale negazione”. Questi erano gli stessi temi dibattuti a Milano nel 1891, alla Sala Sivori di Genova nel 1892, a Reggio Emilia nel 1893 (“Quale eterna giovinezza è la nostra! Felice giovinezza, per la quale, dopo oltre un quarto di secolo, ci si ritrova qui a ribalbettare gli stessi identici discorsi che facemmo. Nel partito socialista, come a tavola, evidentemente non si invecchia”). Sin da quei momenti fondativi del PSI venne infatti confutato il preteso antagonismo fra rivoluzionarismo e riformismo fondato su una differenziazione tra piccole e grandi riforme. Si può dire, anzi che il socialismo italiano nacque proprio quando si affrancò idealmente e praticamente da quegli atteggiamenti “anarcheggianti”. E discuteva quindi la centrale questione del metodo riformista (perciò stesso socialista). Esso guidò “quel partito operaio – che del resto, per quei tempi e per le condizioni dell’Italia d’allora, era pure una grande e gloriosa affermazione politica di classe […], a poco a poco, verso la conquista del potere, verso una molto più alta comprensione di concetti politici nazionali e internazionali, insomma verso il socialismo”. Quello che si battezzava nel 1919 come massimalismo rigettava in un canto, come armi superate, tutti i principi, i metodi, gli organismi, che nei precedenti trenta anni erano stati affermati, conquistati e perfezionati dal socialismo italiano. L’apologia e l’esaltazione della violenza, come il migliore, se non l’unico, mezzo per la più pronta attuazione dell’ideale socialista, non “è che il rinculo di 30 anni; non è che la ripetizione ad litteram della discussione che facemmo al congresso di Genova, 28 anni or sono”. Tutta l’esperienza accumulata, dal 1882, di azione socialista avrebbe dovuto essere superata per l’apparire prodigioso di una nuova rivelazione (“Alla elevazione della classe proletaria che, via via […] come più acquista di compattezza, di capacità, di valore, e più impara a farsi valere, a improntare di sé l’evoluzione storica, a instaurare nello Stato e nella nazione e nei rapporti internazionali la grande, la vera democrazia, quella del Lavoro, con le armi della intelligenza, della civiltà, della libertà più sconfinata, si sostituisce un gretto ideale di violenza armata e brutale”). La cosiddetta dittatura del proletariato avrebbe escluso d’un sol colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, e la stessa grande maggioranza dei lavoratori; rivelandosi così per essere la dittatura di alcuni uomini sul proletariato, ossia la dittatura contro lo stesso proletariato. Questo metodo apparteneva alla preistoria politica del movimento popolare, ed il socialismo scientifico non fu che “la reazione dottrinale e pratica contro questi vecchiumi”. Prima di esso dominava ancora il concetto che il socialismo potesse improvvisarsi in virtù della bontà della causa che esso rappresenta, per un atto di volontà, e quindi, o per decreto imperiale, o per concessione generosa delle classi dominanti, oppure per un atto di violenza delle masse; che una rivoluzione soprattutto economica, che interessa i più profondi tessuti dell’organizzazione sociale, potesse instaurarsi, trionfare, mantenersi prima della completa elaborazione di tutti gli elementi tecnici, morali, economici, politici, che rendono questa nuova formazione possibile (“La compagine sociale è un prodotto storico complicatissimo, di elementi economici, tecnici, morali, politici”). Preciso che specifiche proposte – allora formulate anche da Turati – come la collettivizzazione dei mezzi di produzione, si dovrebbe trattarle con l’acquisita maggiore comprensione dei fenomeni economici, portato degli ulteriori 80 anni che ci separano dagli anni venti del 1900 (“Le formule dei programmi sono sempre effetto di transazioni […]. Poi la storia le seppellisce”). All’idea – un …

AUTONOMIA, UNITA’ E CHIARIFICAZIONE

Tratto dalla relazione indroduttiva al 41° Congresso del PSI, Torino 29 marzo-2 aprile 1978 – Bettino Craxi Abbiamo insistito e insistiamo sulle caratteristiche autonome della nostra azione e sulla natura autonoma, non subalterna, non sussidiaria, del nostro ruolo nel movimento operaio e dei lavoratori, nella sinistra italiana. Senza una nitida e rigorosa affermazione della nostra identità non riusciremo a rovesciare le tendenze negative e a uscire da una crisi che per tanti aspetti ci mortifica e che per altri ci ha indotto a molte riflessioni autocritiche e che però consideriamo tutt’altro che irreversibile. Ricaviamo dalla nostra storia, dalle nostre tradizioni, dalle molteplici esperienze condotte dal nostro Partito nel trentennio della vita repubblicana, i tratti della nostra autonomia, la giustificazione del nostro ruolo, l’individuazione delle nostre prospettive future. Sono i lineamenti di un Partito ancorato al socialismo occidentale per comune origine e per comune tradizione democratica. Un Partito che lotta per cancellare i tratti classisti della società capitalistica e per accelerarne il superamento senza cadere nei vizi e nelle degenerazioni della società burocratica. Siamo in questo senso un Partito progressista e riformatore. Un Partito aperto a tutte le esperienze e a tutti gli apporti che possono approdare al terreno del socialismo nella democrazia e nella libertà. Consideriamo estranei alla realtà e all’accettabilità della trasformazione socialista nel nostro Paese tutti i principali postulati della teoria leninista e del tutto inattuali le implicazioni storiche che ne derivano per tanta parte alla sinistra italiana. La questione non riguarda la rivoluzione bolscevica e ciò che ne è derivato. Riguarda noi ed il nostro socialismo. Né la teoria del potere, né quella dello Stato, né quella dell’economia, né quella del Partito, né quella dell’imperialismo possono indicarci le vie maestre del socialismo nel nostro Paese. Su questo terreno si è sviluppato con grande ricchezza di elaborazione il filo del revisionismo socialista e la critica socialista si è fatta più incalzante. Essa mira a stimolare il processo revisionistico dei comunisti che ristagna. Se esso rimane a metà del guado rischia di impantanarsi nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni. La nostra posizione nella sinistra corrisponde ad una idea di unità e di chiarificazione. Abbiamo salutato la tendenza che ha preso il nome di eurocomunismo come un fatto importante e positivo e ne abbiamo accreditato il valore, e sottolineato tutte le potenzialità positive ai fini di una nuova e più compatta realtà della sinistra europea. Assistiamo oggi ad una disarticolazione di questo fenomeno ed alla sua crisi oramai evidente. La improvvisa svolta del Partito comunista francese e la rottura deliberatamente provocata dalla unità delle sinistre con le conseguenze che ne sono derivate e che non erano difficili da prevedersi, risponde ad una logica estranea ad una possibile strategia socialista e della sinistra nell’Europa occidentale e può essere piuttosto collocata in altre logiche. In Francia non sono bastati anni di unità di azione, un programma comune, il vaglio di promettenti prove elettorali ad impedire un ritorno virulento ad un passato di settarismo e di dogmatismo di classico stile internazionalista. La campagna di accuse, di sospetti, di processi all’intenzione, imbastita contro Francois Mitterrand e i compagni socialisti francesi li ha posti in una posizione di grande difficoltà. I compagni francesi si sono difesi, hanno conservato ed anzi accresciuto la loro forza; non hanno potuto evitare lo sfondamento elettorale del blocco conservatore ed il fallimento del disegno alternativo. Ciò introduce un fattore e una difficoltà nuova in quel processo di convergenza tra «eurosocialismo» ed «eurocomunismo» e che era stato auspicato con particolare chiarezza dal segretario del Partito comunista spagnolo Santiago Carrillo quando indicava il movimento socialista occidentale come l’interlocutore principale e indicava una politica di convergenze verso di esso come la tendenza naturale dell’eurocomunismo. Nella nuova situazione si accrescono le responsabilità dei comunisti italiani posti al bivio tra un ennesimo tentativo di unire diverse e contrastanti impostazioni strategiche in una zona grigia in cui prevalgono le ambivalenze e le ambiguità, o riprendere con forza e con convinzione la via della revisione lungo un cammino già del resto illuminato da lucide ed anticipatrici analisi di intellettuali comunisti italiani. L’affermazione del compagno Berlinguer «siamo e resteremo comunisti» è una affermazione puramente retorica. Nessuno chiede di rinnegare le tradizioni o di mettere in causa le denominazioni storiche. Ciò che si chiede è che nella sostanza vada avanti il processo di trasformazione e di accostamento alle impostazioni del socialismo occidentale. Non è del resto una pretesa assurda se devo prestar rilievo a quanto scrive Paolo Spriano nella sua Storia del Partito Comunista Italiano riferendo che Togliatti stesso non escludeva nel ’44 una evoluzione in senso laburistico della esperienza comunista italiana. Noi non intendiamo riaprire il capitolo di aspri conflitti concorrenziali tra socialisti e comunisti anche se non possiamo rinunciare a considerare legittimo e necessario il riequilibrio delle forze nell’ambito della sinistra. Noi siamo spinti a tenere viva e critica un’esigenza di chiarificazione nella convinzione che dal successo di molte delle ragioni che facciamo valere dipende l’avvenire di tutta la sinistra italiana, l’avvenire ed il successo di tutte le forze della riforma e del progresso. Dalla difesa della identità del Partito e dalla vitalità che sapremo imprimere al ruolo che ne deriva dipende in grande misura il successo dell’imponente lavoro che ci aspetta per estendere e consolidare il nostro insediamento nella società, per portare la presenza socialista in una molteplicità di aree sociali e istituzionali nelle quali siamo o assenti totalmente o insufficientemente e male rappresentati. Nella politica di autonomia e di iniziativa del Partito non c’è posto per divagazioni terzaforziste, o per progetti unificazionisti. Abbiamo risposto con rispetto alle esigenze altrui ma in modo negativo a tutte le sollecitazioni che in modo diretto ed indiretto ci sono state indirizzate in questo senso. I problemi della cosiddetta area intermedia non sono omogenei e comunque investono in modo tutt’affatto particolare il Psi, Partito medio ma non intermedio. Siamo certo interessati a frenare lo sviluppo bipolare, attorno ai due maggiori Partiti ma ci proponiamo di farlo radicando ancora più la nostra presenza nel terreno storico e di classe …

FILIPPO TURATI «RIFARE L’ITALIA!»

Discorso pronunziato alla Camera dei Deputati il 26 giugno 1920 sulle comunicazioni del governo (Ministero Giolitti), 1920. dall’introduzione di Aldo G. Ricci all’edizione Talete, 2008 Uno dei testi più importanti della tradizione socialista italiana, ispirato al metodo delle riforme possibili e condivise con i settori più dinamici e aperti del mondo imprenditoriale e dei tecnici, è certamente il famoso discorso pronunciato da Filippo Turati alla Camera il 26 giugno del 1920, un discorso dal titolo quanto mai emblematico e destinato a essere più volte ripreso, «Rifare l’Italia». Il discorso è accompagnato da due testi politicamente importanti e utili per inquadrarlo nel dibattito tra le correnti socialiste del tempo: il primo è l’intervento pronunciato da Turati al convegno di Bologna, nell’ottobre del 1919 (Socialismo e massimalismo), nel quale il leader riformista segna le distanze dalla componente maggioritaria massimalista, che in attesa di una improbabile rivoluzione spontanea condannava il partito all’inazione, e l’altro è il discorso del 19 gennaio 1921 al congresso di Livorno (Socialismo e comunismo), dove Turati saluta con inconfessata soddisfazione l’uscita della frazione comunista dal Partito Socialista. (…) All’indomani della fine del conflitto, Turati è uno dei pochi leader del socialismo italiano a non soffrire del complesso «sovietico». Fare in Italia come in Russia è una parola d’ordine che gli ispira orrore e che continuerà a stigmatizzare negli scritti e nei discorsi, senza curarsi delle reazioni che tali posizioni provocano in una base ormai fortemente suggestionata dal mito dell’Ottobre russo. Negli anni precedenti la guerra, la sua «sintonia asimmetrica» con l’azione politica di Giolitti aveva consentito al movimento operaio di raggiungere una serie di importanti conquiste sociali e normative che il leader liberale di Dronero è ben lieto di favorire, convinto com’è, fin dalle sue prime esperienze politiche, che il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici e lo sviluppo della scolarizzazione non solo rappresentino in se stesse delle conquiste di civiltà, ma favoriscano alla lunga il consolidamento dello stesso regime democratico-liberale, legando alle istituzioni quelle masse proletarie che solo in minima parte erano state coinvolte nel processo unitario e poi nel consolidamento dell’Italia come Stato moderno. Con questa strategia, l’accordo di fondo di Turati è completo, al di là delle schermaglie d’occasione e dei contrasti spesso più apparenti che reali. Il leader del riformismo (…) non pensa più che a un programma minimo di conquiste sociali debba poi seguirne uno massimo, ovvero la fuoruscita dal sistema capitalista, per usare un termine ancora recentemente usato con gran sussiego da molti maîtres à penser della sinistra italiana. Egli ha messo a fuoco che, come afferma Bernstein, «il movimento è tutto», ovvero quello che conta è la direzione che caratterizza i cambiamenti introdotti dalle riforme (…) Turati non ha fretta di vedere il proletariato italiano, attraverso il suo partito di riferimento, ovvero il partito socialista, approdare alla gestione diretta del potere. (…) Sostituire la borghesia nell’impresa di gestire le contraddizioni, in particolare dell’infuocato dopoguerra, appare a Turati non solo sbagliato, ma pericoloso per il futuro stesso del socialismo, che non può, a suo modo di vedere, diventare il cane da guardia di un capitalismo in difficoltà. In questa prospettiva va inquadrata anche l’incomprensione del Nostro nei confronti del Fascismo montante, che gli fa sottovalutare l’opportunità di sostenere Giolitti nel programma di riforme da lui stesso delineato al momento della formazione del suo ultimo governo. (…) Ma resta convinto che al futuro appuntamento con gli impegni di governo il partito socialista dovrà presentarsi a ranghi compatti, maggioritario e fortemente saldato al movimento sindacale. L’adesione di una minoranza riformista a un governo Giolitti gli sembra un controsenso, ovviamente perché sottovaluta l’impatto politico più che numerico di tale scelta. E’ questo il contesto in cui nasce «Rifare l’Italia». Un contesto di ripetute tentazioni ministeriali, di offerte a mezza bocca e di rifiuti ufficiosi. (…) Di fronte alla rapida caduta di Nitti, per l’improvvida decisione di aumentare il prezzo del pane, e al reincarico a Giolitti, che si presenta alla Camera il 24 giugno, con un discorso prevalentemente improntato al risanamento fiscale, che ha perduto quegli accenti riformatori di ampio respiro che avevano caratterizzato il programma enunciato a Dronero nella campagna elettorale dell’anno precedente, Turati decide che è arrivato il momento di pronunciare l’intervento a cui sta lavorando ormai da diverse settimane, soprattutto per sollecitazione della Kuliscioff. Il discorso del 26 giugno 1920 rappresenta comunque il massimo sforzo del leader del riformismo socialista per dare una risposta concreta ai bisogni di un Paese uscito radicalmente trasformato dai quattro anni di guerra: (…) un paese, soprattutto, che si presenta in preda a una profonda crisi morale e civile, che alterna scioperi privi di contenuti (le polemiche di Turati contro la «scioperomania» sono infinite) a occupazioni di terre e stabilimenti realizzate senza alcuna strategia politica (la fallimentare occupazione delle fabbriche, neutralizzata da Giolitti, sarebbe avvenuta nell’autunno successivo), in attesa di una rivoluzione salvifica che non si sa né chi dovrebbe fare né come potrebbe essere realizzata. «Rifare l’Italia», scritto in poco più di un mese, ma pensato certamente da molto più tempo, vuole essere la risposta riformista a tutto questo. Come è stato detto, non è un programma di legislatura, ma un disegno complessivo di trasformazione del Paese che può essere realizzato solo da una o più generazioni di volenterosi, mobilitati tra imprenditori, tecnici e operai. Il discorso è allo stesso tempo un invito alle forze migliori del mondo liberale (Turati pensa a un impossibile connubio Giolitti-Nitti) perché superino le rivalità e collaborino alla salvezza dell’Italia, ma è anche un sonoro rimprovero al nullismo propositivo del minimalismo socialista, unito all’invito a sostenere quelle forze liberali che fossero in grado di farsi carico delle esigenze del momento. (…) All’appuntamento del 26 giugno 1920, Turati si presenta con un bagaglio di documentazione ragguardevole, accumulata attraverso la lettura di opere di autori stranieri del dopo-guerra destinate in seguito a diventare dei classici ma soprattutto utilizza molte delle conclusioni formulate da Walther Rathenau nel suo saggio «L’economia nuova», scritto nel 1918 e pubblicato in Italia l’anno successivo, in favore di un’economia …

FILIPPO TURATI «SOCIALISMO E MASSIMALISMO»

Discorso tenuto il 7 ottobre 1919 al Congresso socialista di Bologna, ed. dalla Frazione di Concentrazione socialista 1919. “… nella presente situazione italiana, la dittatura del proletariato non può essere che la dittatura di alcuni uomini sopra ed eventualmente contro, la grande maggioranza del proletariato. (…) la miseria, il terrore, la mancanza di ogni libero consenso (basti ricordare che in Russia non esiste libertà di stampa, il diritto di riunione è conculcato, il lavoro è militarizzato) (e i piú presi di mira dalla persecuzione governativa sono i socialisti di tutte le scuole) e infine la pretesa irrazionale di forzare l’evoluzione economica, tutto ciò ha portato e porterà ineluttabilmente lo scoraggiamento di qualsiasi attività produttiva e avverrà questo paradosso: che un paese così vasto, ricco di tutte le risorse, che ha l’enorme vantaggio di non essere tributario dell’estero, che quindi non può essere boicottato, che ha dovizia di miniere, di cereali, di ogni ben di dio, che avrebbe potuto, con sapiente gradualità di provvedimenti, diventare l’antesignano della nuova civiltà, per avergli imposto una rivoluzione ad oltranza per la quale è manifestamente immaturo, dovrà varcare attraverso una infinita odissea di dolori, forse di ritorni verso il passato, e nel miglior caso dovrà soffrire, per l’adattamento necessario al nuovo regime, decenni di patimenti e di povertà, mentre fin d’ora è costretto a creare una immensa macchina militaristica, quale non ha alcun altro Stato, e che è un permanente pericolo per qualunque presente o futura democrazia! Ma, checché sia per essere della Russia, quel che è incontestabile è che le condizioni della Russia non le abbiamo in Italia! In Italia noi possiamo procedere per una via radicalmente diversa, senza passare per quei dolori e per quegli orrori. Ecco perché la teoria della violenza – se anche fosse plausibile in Russia – non si potrebbe applicare in Italia. (…) noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché è chiaro che, mantenendole nell’aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e pel quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa. Perché chi aspetta con cieca fede il terno al lotto, non si rimbocca le maniche e non s’industria di prepararsi il pane quotidiano. In altri termini, voi uccidete il socialismo, voi rinunziate all’avvenire del proletariato. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo. Filippo Turati da una raccolta di Nicolino Corrado SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

CRITICA SOCIALE

La rivista “Critica Sociale” venne fondata a Milano il 15 gennaio 1891 da Filippo Turati, come continuazione di “Cuore e critica” (fondata nel 1886 da Arcangelo Ghisleri). Tra il 1891 ed il 1898 la rivista fu testimone della presenza politica e dell’autonomia del socialismo italiano.  Nacque in questo periodo la polemica contro gli anarchici e gli operaisti e nello stesso tempo iniziò l’opera di promozione dell’autonomia nei confronti della sinistra borghese, repubblicana e radicale. Il 1º gennaio 1893 “Critica Sociale”, che aveva pienamente accettato il programma del Partito dei Lavoratori Italiani approvato nell’agosto del 1892 al Congresso di Genova, cambiò il sottotitolo della testata “Rivista di studi sociali, politici e letterari” in “Rivista quindicinale del socialismo scientifico” ed iniziò ad affrontare tutti i gravi problemi pubblici degli anni Novanta (scandali bancari, repressione dei fasci siciliani, guerra di Abissinia, moti popolari per il pane) con articoli di forte denuncia. In occasione dei Moti di Milano, il 1º maggio 1898 la rivista venne sequestrata e quindi chiusa dalle autorità a causa della condanna del suo direttore, Filippo Turati; le uscite ripresero dopo più di un anno, il 1º luglio 1899. La rivista diventò l’espressione della tendenza riformista all’interno del Partito Socialista Italiano. Nota Carlo Lacaita che grazie alla sua rivista, presto riconosciuta come la maggiore palestra di idee e di discussione aperta, di analisi dei problemi italiani e di informazione sulle concrete esperienze europee, Turati esercitò una notevole influenza su larghi ambienti intellettuali. “Critica Sociale” contribuì a formare, come ha scritto Gaetano Arfé, “il primo e più omogeneo quadro dirigente che il partito socialista abbia avuto, quello che si troverà a costituire il nucleo della corrente riformista e, fino al fascismo, lo stato maggiore del movimento operaio”. Vi furono pubblicati scritti di autori come Luigi Einaudi, Friedrich Engels, Gabriele Rosa, Corso Bovio, Giovanni Merloni, Giovanni Montemartini, Claudio Treves, Leonida Bissolati, Carlo Rosselli, Alessandro Levi, Giacomo Matteotti e di molti altri protagonisti del pensiero socialista e dell’azione riformista. Il giurista Sabino Cassese ha messo in risalto che “chi ha letto la sua rivista [di Turati], ha visto quanti pseudonimi erano presenti in calce agli articoli che vi erano contenuti: erano di alti funzionari amministrativi. Quindi si era creato un flusso di conoscenze, un rapporto che andava a beneficio della Pubblica Amministrazione e del corpo politico, che così conosceva i fatti amministrativi”. Tra il 1902 ed il 1913 la rivista affrontò i problemi della scuola, discutendo il ruolo degli insegnanti, la loro organizzazione, l’edilizia scolastica, l’igiene e la refezione scolastica e contestò il bilancio del ministero della guerra. “Critica Sociale” adottò, nel discutere di letteratura, una metodologia critica positivista e marxista e, convinta dell’efficacia del libro, dell’istruzione e delle biblioteche, offrì ai lettori, indifferentemente, i versi sociologici di Pietro Gori accanto alle poesie di Ada Negri e alle pagine di narrativa di Italo Svevo. Dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922) e la presa del potere dei fascisti, “Critica Sociale” venne sottoposta a censure e sequestri. Gli ultimi articoli militanti uscirono all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924). Alla fine dell’anno 1925 “Critica Sociale” si rifugiò sul terreno culturale-ideologico, ma viene comunque soppressa con la legge fascista che vietava la stampa d’opposizione. L’ultimo fascicolo, il n. 18-19, riporta la data 16 settembre – 15 ottobre 1926. “Critica Sociale” riprese le pubblicazioni nel 1945 con l’autorizzazione del comando alleato in Italia. La dirigevano Antonio Greppi, il futuro primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, e Ugo Guido Mondolfo, che la “ereditò” direttamente da Filippo Turati a Parigi (dove uscì un unico numero per impedire che alcuni esponenti vicini al PCI si impossessassero della testata). Non era una rivista di partito, anche se al primo congresso del PSI dopo la Liberazione (aprile del 1946 a Firenze) “Critica Sociale” presentò una mozione contro la fusione tra comunisti e socialisti. Appoggiando Giuseppe Saragat con un apporto del 14 per cento circa di voti congressuali, diede un contributo che permise a Saragat di vincere il congresso e di proporre un più blando “patto di unità d’azione” tra PSI e PCI. Nel 1947 a Palazzo Barberini, Saragat uscì dal PSI rifiutando la lista unica tra PCI e PSI per il Fronte Popolare, che si stava organizzando per le elezioni politiche del 1948. Da allora la rivista fece riferimento a Giuseppe Faravelli e, poi, a Beonio Brocchieri della sinistra del PSDI di Saragat, scontando un certo isolamento politico che porterà alla crisi della casa editrice durante gli anni ’70. Fu Bettino Craxi, appena eletto segretario del PSI nel 1976, a voler raccogliere le azioni della casa editrice di “Critica Sociale” per impedirne la scomparsa. La rivista sostenne sempre la linea “autonomista” del nuovo leader socialista, impegnandosi in modo particolare sul terreno della solidarietà ai gruppi del dissenso anti-sovietico nei paesi dell’Est europeo. La direzione di Ugoberto Alfassio Grimaldi (1974-81) dette alla rivista un notevole rilancio, caratterizzandola anche con una maggiore apertura verso argomenti culturali. Una nuova interruzione delle pubblicazioni si registrò nel biennio 1992-’94, in seguito allo scioglimento del PSI. “Critica Sociale” riprese le pubblicazioni dal 2000. L’attuale direttore è Ugo Finetti. Nel 2011, in occasione dell’anniversario dei 120 anni dalla sua fondazione (15 gennaio 1891 – 15 gennaio 2011), “Critica Sociale” ottenne il riconoscimento dell’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica da parte di Giorgio Napolitano. L’anniversario fu celebrato nel segno della comune radice con il 150 anniversario dell’Unità d’Italia. Sotto questo aspetto, “Critica Sociale” è stata riconosciuta come una fonte preziosa di documentazione del processo di costruzione della società italiana post-unitaria. da una raccolta di Nicolino Corrado SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

PERTINI E LA COSTITUZIONE, IL LIBRO DI CUCCODORO SULLA FIGURA DEL PRESIDENTE E SUA MOGLIE CARLA

Enrico Cuccodoro, docente di Diritto Costituzionale presso l’università del Salento, ha recentemente pubblicato il libro “Gli impertinenti”, dedicato alla figura del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e sua moglie Carla. Nel settantesimo anniversario della Costituzione italiana, ormai imminente, il prof. Cuccodoro racconta la figura di Sandro Pertini attraverso una fitta serie di ricordi e testimonianze dirette che ne fanno emergere il peso specifico e soprattutto fanno riflettere su ciò che la politica dovrebbe tornare a essere, in termini di impegno, di giustizia sociale, di levatura morale. Il libro verrà presentato in Basilicata nelle prossime settimane, in più occasioni. Tra le altre date, Rionero in Vulture il 7 dicembre e Brienza il 12 dicembre prossimi. Professor Cuccodoro, quali aspetti dell’esperienza politica di Sandro Pertini ne fanno un riferimento ancora attuale per l’Italia di oggi? A distanza di anni la figura di Sandro Pertini è ancora nel cuore di moltissimi. Proprio oggi conversando con un giovane del Senegal, che lavora in Italia, lui mi ha sorprendentemente detto queste parole stupende: “Sandro Pertini non è lontano è solo dall’altro lato del nostro cammino…!”. Un itinerario umano che ci richiama valori di libertà e giustizia sociale universali, di pace, soprattutto di moralità nella politica e che faccia argine alla corruzione e al malaffare dilaganti. Sentimenti che a settanta anni di vita costituzionale debbono spronare le più giovani leve della democrazia del paese a rinnovare lo spirito di fedeltà e unità verso la nostra Repubblica. Era preoccupazione costante di Pertini che mai i giovani dovessero conoscere le difficoltà e i patimenti che gli uomini della sua generazione avevano subito e sopportato per dare all’Italia una nuova direzione di progresso civile sociale ed economico. Egli era un combattente risoluto che riusciva ad entusiasmare e avvicinare i ragazzi di ogni età, rendendosi pienamente formidabile educatore civico in momenti difficilissimi della storia del Paese. Perché “gli impertinenti”? L’impertinenza era la sua caratura caratteriale…non amava i grandi discorsi tribunizi, bensì amava che gli si rivolgessero sempre tutte le domande più “impertinenti” alle quali dava risposte convincenti appassionate e credibili, fuori dalla retorica e dal facile convincimento, catturando fiducia e simpatia da parte soprattutto dei cittadini più piccoli. Nell’attuale scenario politico, sociale ed economico, quale contributo potrebbe offrire una via “socialista”? La via “socialista” di Pertini con Carla è stata la strada dell’umanità più profonda e vitale, volta a riassestare le ragioni della corrispondenza del Paese reale al Paese legale, per superare fratture tensioni e incomprensioni, talvolta anche percorrendo un cammino senza speranza immediata di successo, ma nella fede assoluta di non barattare mai le proprie idee per vittorie del contingente momento. Mai! sempre, tuttavia, con l’intento di allargare gli spazi possibili della libertà in ragione armonica della giustizia sociale: binomio inscindibile in equilibrio simbiotico nel pensiero di Pertini per il campo d’azione politico-istituzionale e per quello altrettanto fondamentale della “cura promovendae salutis”, in ciò assistito qui dalla fermezza caratteriale altrettanto intransigente della compagna di vita a lui carissima, Carla. Cosa fece di un partigiano il Presidente più amato e super partes della nostra storia repubblicana? Pertini innova, così, il ruolo del Presidente della Repubblica, forte dall’aver ricoperto per lunghi anni la carica di guida saldissima e assai apprezzata della Assemblea di Montecitorio. Egli non il Capo dello Stato solo “nel” Palazzo del Quirinale. Ma diventa, in realtà, il primo impiegato dello Stato, spesso a fianco dei cittadini, che mette dunque il suo “corpo” al servizio del Paese sempre, in una missione popolare virtuosa per le circostanze liete e per quelle drammatiche che tanto caratterizzano gli anni del settennato presidenziale a lui affidato dal 1978 al 1985; di fatto ponendosi sovente quale difensore civico per tutta la Collettività nazionale fra Società civile e Stato. Una Presidenza popolare e amata che resta modello di comportamento inimitabile per rispetto super partes e per sensibilitá di rendere davvero il Quirinale, la casa di tutti gli italiani. Qual era la percezione della questione meridionale nel presidente Pertini? Quando Pertini, a braccio, parla a Turi, nel ricevere la cittadinanza onoraria, egli ripete come la priorità sia soprattutto la dignità umana e il lavoro nel Mezzogiorno d’Italia… “Italiani che chiedono di vivere tranquillamente in questo tormentato Paese”. Fonte: basilicata24.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ECCO LA COSTELLAZIONE DOMINANTE

Dopo il tentativo di golpe del generale Kornilov e con il mutare brusco dello scenario in Russia, la Conferenza “social-diplomatica” promossa dal Soviet a Stoccolma s’inabissa in un mare di veti incrociati: «Non si può fare a meno di riconoscere che il tentativo è definitivamente fallito», constata Angelica Balabanoff in un taglio basso di prima pagina che appare sull’ADL del 15 settembre 1917 (“Intorno alla mancata conferenza di Stoccolma“). Le ragioni del falli­mento stanno nelle pressioni esercitate dai governi belligeranti sulle delega­zioni “social-patriottiche” dei loro paesi. Le quali, in base ai più diversi calcoli strategici e alle più varie dinamiche politiche interne, non ritengono ancora «giunto il momento di parlare di pace», nota la Balabanoff, con amarezza. Accanto al testo della Dottoressa, un trafiletto a centro pagina (“Fino ad oggi“) s’incarica di squadernare i numeri sanguinosi della guerra. Le perdite umane si attestano a 9.750.000 morti: «Una media cioè di 264.000 al mese, 8.700 al giorno… 5.000.000: ciechi, sordi, muti, monchi di braccia, di gambe. Frutto magnifico, e magnifico testimonio, domani, della civiltà borghese» (ADL 15.9.1917). È il “suicidio dell’Europa” di cui aveva scritto Maksim Gor’kij. E le proporzioni di questo macello, già tutte mostruosamente novecentesche, non può che far apparire surreale la paralisi delle coscienze di cui l’esito della Conferenza di Stoccolma è espressione. Surreale, ma anche coerente con la logica della guerra: «Come conciliare le sincere aspirazioni alla pace dei delegati russi colle mire apertamente imperialiste dei delegati inglesi e collo sfrenato social-imperialismo dei delegati francesi?» (ADL 15.9.1917). La Balabanoff non dimentica Lugano, dove nell’autunno 1914, alla Conferenza pacifista convocata dai socialisti italiani, russi e svizzeri, i compagni francesi si erano presentati in divisa militare. Ora la situazione patisce tuttavia un ulteriore degrado. «Se non è possibile una intesa fra i rappresentanti della stessa coalizione, come sperare che la si possa raggiungere fra rappresentanti di coalizioni divise da fondamentali quistioni d’interesse?» (ADL 15.9.1917). La guerra si approssima al lugubre traguardo dei dieci milioni di morti, ma neppure in paesi tra loro alleati, come la Francia e la Gran Bretagna, la sinistra riesce a individuare un bandolo comune per ritessere la tela della pace. A fronte di ciò gli zimmerwaldiani spingono a tutto gas sulla “rivoluzione mondiale“. È una strategia della deterrenza, potremmo dire, che mira sul breve periodo alla salvaguardia della Rivoluzione russa in pericolo, sul medio periodo a “convincere” le borghesie nazionali che solo la pace potrà evitare un vasto contagio rivoluzionario, e che sul lungo periodo fungerà da banca mondiale del contro-potere operaio. Nell’immediato, in parallelo alla linea della deterrenza panrivoluzionaria, si rafforza il partito filo-bolscevico, cioè la propensione per quella “pace separata” originariamente percepita in aperta contraddizione con l’universalismo zimmerwaldiano. In Russia la situazione precipita ogni giorno di più: «Riga è caduta nelle mani dell’esercito imperialista di Germania. Le truppe del Kaiser marciano verso Pietrogrado. Korniloff, il generalissimo russo che doveva difendere la patria contro l’invasore nemico, tenta il colpo di stato, di sciogliere il governo provvisorio per afferrare nelle sue mani il potere, e marcia verso Pietrogrado alla testa delle sue truppe. Il governo provvisorio si dimette cedendo a Kerenski la dittatura» (ADL 15.9.1917). A questo punto due grandi esponenti del socialismo e del femminismo europeo – non solo Angelica Balabanoff, quindi, ma anche Clara Zetkin – spezzano una lancia a favore di Lenin. In un articolo pubblicato al seguito di quello della Dottoressa Angelica, la Zetkin evidenzia il senso della svolta. Gli interessi della Rivoluzione antizarista (di Febbraio) inducono il grosso degli “internazionalisti” a convergere con la “estrema sinistra” dei bolscevichi, e ora tutti «nonostante alcune divergenze di idee, sono concordi nella lotta di principio contro ogni offensiva e per la pace immediata» (ADL 15.9.1917). Dopo l’Offensiva Kerenskij, la formula vincente è ora “pace immediata”, in rima neppur tanto occulta con la “pace separata” che si prometterà a piene mani nei proclami d’autunno per gli operai e i soldati del Soviet di Pietroburgo e che, dopo la presa del Palazzo d’Inverno, troverà attuazione a Brest-Litovsk, nel trattato del febbraio 1918 stipulato tra la Russia e gli Imperi Centrali. D’altronde – argomenta la redazione in un fondo dal titolo “Il delitto del social-patriottismo in Russia” – siamo giunti al momento delle scelte: «Germania e Russia di fronte. Kerensky e Korniloff petto a petto. Invasione straniera e guerra civile in patria. Ecco il quadro. Disordine nei servizi pubblici, scarsità di viveri, situazione economica minacciosa. Ecco il quadro completato.» (ADL 15.9.1917). Le “divergenze” di chi, come Rosa Luxemburg, vede il leninismo instradarsi irreversibilmente nella trappola di una “dittatura sul proletariato“, finiscono in secondo piano, insieme alla parola d’ordine della “pace universale“. Dopo l’Offensiva Kerenskij, la formula vincente è ora “pace immediata“, in rima neppur tanto occulta con la “pace separata” che si prometterà a piene mani nei proclami d’autunno per gli operai e i soldati del Soviet di Pietroburgo e che, dopo la presa del Palazzo d’Inverno, troverà attuazione a Brest-Litovsk, nel trattato del febbraio 1918 stipulato tra la Russia e gli Imperi Centrali. Il testo redazionale, non firmato (e quindi attribuibile al direttore Francesco Misiano), evidenzia il punto di saldatura della strategia zimmerwaldiana con la centralità della Rivoluzione russa (di Febbraio): «I gazzettieri di tutto il mondo al servizio delle borghesie ve lo dicono chiaro e netto (…) La voce borghese, impaurita della rivoluzione russa, preoccupata d’uno sviluppo epidemico in tutti gli altri paesi (…) la voce borghese, anche quella dell’Intesa, non nasconde le sue gioconde soddisfazioni nell’annunziare l’avanzata tedesca da un lato, quella di Korniloff dall’altro e in costui, in questo traditore della patria e della rivoluzione, pone tutte le sue speranze. E si comprende: per la borghesia dell’Intesa, la Germania è un pericolo, è un nemico. Ma la rivoluzione è un pericolo di gran lunga maggiore» (ADL 15.9.1917). Ed ecco la costellazione dominante del secolo breve – la “rivoluzione conservatrice” in traiettoria di collisione con la “rivoluzione mondiale” – eccola che si staglia già all’orizzonte del cielo notturno. Presiederà allo scatenamento della Seconda guerra mondiale. Ma questo “dopo”, perché il suo primo …