RIFORMA IRPEF DA 4 A 3 SCAGLIONI

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Nel programma del governo Meloni è presente la riforma fiscale che, nel Nadef presentato all’inizio del mese di ottobre, viene attuato in una sola tra le misure previste ovvero quella che prevede la riduzione degli scaglioni IRPEF da quattro a tre. Anticipiamo allora, senza considerare eventuali revisioni delle detrazioni e simili, che effetto avrà tale modifica su ogni contribuente e al gettito fiscale totale. Vediamo allora come si modifica il vecchio modello a 4 scaglioni introducendo un nuovo modello a 3 scaglioni: MODELLO A 4 SCAGLIONI DA A SCAGLIONE ALIQUOTA 0 15.000 15.000 23% 15.001 28.000 13.000 25% 28.001 50.000 22.000 35% 50.001 oltre ind 43% MODELLO A 3 SCAGLIONI Paticamente i primi due scaglioni vengono unificati in un unico scaglione, gli altri due rimangono occupati. L’aliquota per lo scaglione da 15.000 a 28.000 passa dal 25 al 23% scende cioè di due punti, ma attenzione la riduzione non riguarda solo chi ha redditi tra 15 e 18.000 € ma TUTTI I CONTRIBUENTI con reddito superiore a 15.000€. Chi ad esempio ha un reddito di 100.000€ ripartisce il suo imponibile utilizzando il nuovo modello e usufruendo dei nuovi scaglioni. Confrontiamo ad esempio tre contribuenti: uno con un reddito di 7.500€, uno con un reddito di 25.000€ e infine uno con un reddito di 100.000€. Presentiamo allora i tre casi: Reddito da 7.500 € Sistema IRPEF a 4 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota Imposta 0 15.000 15.000 7.500 7.500 23,00% 1.725 15.000 28.000 13.000 -7.500 0 25,00% 0 28.000 50.000 22.000 -20.500 0 35,00% 0 50.000 up -42.500 -42.500 0 43,00% 0         7.500 23,00% 1.725 Sistema IRPEF a 3 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota Imposta 0 28.000 28.000 7.500 7.500 23,00% 1.725 28.000 50.000 22.000 -20.500 0 35,00% 0 50.000 up -42.500 -42.500 0 43,00% 0         7.500 23,00% 1.725 Reddito da 25.000 € Sistema IRPEF a 4 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 15.000 15.000 15.000 15.000 23,00% 3.450 15.000 28.000 13.000 10.000 10.000 25,00% 2.500 28.000 50.000 22.000 -3.000 0 35,00% 0 50.000 up -25.000 -25.000 0 43,00% 0         25.000 23,80% 5.950 Sistema IRPEF a 3 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 28.000 28.000 25.000 25.000 23,00% 5.750 28.000 50.000 22.000 -3.000 0 35,00% 0 50.000 up -25.000 -25.000 0 43,00% 0         25.000 23,00% 5.750 Reddito da 100.000 € Sistema IRPEF a 4 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 15.000 15.000 15.000 15.000 23,00% 3.450 15.000 28.000 13.000 13.000 13.000 25,00% 3.250 28.000 50.000 22.000 22.000 22.000 35,00% 7.700 50.000 up 50.000 50.000 50.000 43,00% 21.500         100.000 35,90% 35.900 Sistema IRPEF a 3 scaglioni da a scaglione imponibile valida aliquota imposta 0 28.000 28.000 28.000 28.000 23,00% 6.440 28.000 50.000 22.000 22.000 22.000 35,00% 7.700 50.000 up 50.000 50.000 50.000 43,00% 21.500         100.000 35,64% 35.640 Rileviamo quindi che i redditi fino a 15.000€ non risparmiano nulla; i redditi da 15.001 a 28.000€ risparmiano da 1 a 260€, i redditi superiori a 28.000€ risparmiano 260€. Concludendo che la riforma fa non fa risparmiare nulla ai redditi bassi, fa risparmiare un importo fino a 260€ ai redditi fino a 28.000€ e fa risparmiare 260€ a tutti i contribuenti con reddito superiore a 28.000€. A favore quindi dei redditi medio-alti. E quanto costa all’erario questa operazione? La tabellina qui di seguito fa un semplice calcolo; moltiplica il numero dei contribuenti per il risparmio che ciascun contribuente registra, calcolando così di conseguenza la perdita di gettito. Da a numero versanti minor get MINOR GE 0 7.500 9.436.027 2.453.971 0 0 7.500 15.000 8.584.180 6.692.218 0 0 15.000 20.000 6.104.263 5.820.012 0 0 20.000 35.000 11.304.070 11.182.232 100 1.118.223.200 35.000 55.000 2.909.996 2.900.254 260 754.066.040 55.000 100.000 1.259.277 1.256.664 260 326.732.640 100.000 200.000 345.778 345.229 260 89.759.540 200.000 300.000 46.696 46.631 260 12.124.060 300.000 up 31.772 31.745 260 8.253.700     40.022.059 30.728.956   2.309.159.180 Per regalare un po’ di euro ai ceti medio-alti il gettito dello stato perde 2.3 miliardi di €, non è un granchè, ma in considerazione della coperta corta, farebbe comodo evitare questa perdita di gettito. Allora perché fare l’operazione “a parità di gettito” cioè senza rimetterci un euro? Basterebbe aumentare di qualche punto percentuale l’imposizione per i redditi superiori ai 50.000€, operazione certamente non rivoluzionaria, o forse, meglio, portando la flat tax dal 15 al 23% adeguando cioè la tassa piatta alla più bassa aliquota pagata da dipendenti e pensionali. Peraltro, a proposito di gettito perso a favore del proprio elettorato, voglio calcolare il costo dell’ampliamento della flat tax da 65.000 a 85.000€ recentissimo bonus elettorale del centrodestra. Prendiamo come media tra 65.000 e 85.000€ di fatturato l’importo di 70.000€. Applichiamo a questo importo di fatturato  il 72% come percentuale di utile applicabile al fatturato, e determiniamo l’imponibile in 50.000€. Su questo importo con l’applicazione dell’IRPEF  l’importo da pagare sarebbe stato di 14.400€ pari al 28.8%; applicando la flat tax al 15% l’importo da pagare scende a 7.500 con una perdita di gettito di ben 6.900€ per contribuente. Il numero di contribuenti interessati a questa modifica è di 100.000. La perdita di gettito è stata allora di 6.900*100.000= 690.000.000€ cui va aggiunta la perdita di gettito relativa alle addizionali regionali e comunali e la perdita di iva cui questi contribuenti non sono più soggetti. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

E’ GIUNTO IL TEMPO DEL COMPROMESSO GLOBALE

Cambiamento, Crisi Climatica, Guerra, Nazioni Unite Prof. Giuseppe Scanni – Già Vicepresidente di Socialismo XXI | Intervento Audio Pubblicato su www.ilmondonuovo.club SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UNO STUDIO SULL’INFLAZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | GIà ho avuto modo di scrivere sull’inflazione su questo sito, comparando l’operato di Sanchez in Spagna, che ha ridotto l’inflazione al 2.1%, con i non-risultati del nostro governo che non riesce ad essere altrettanto efficiente. In quell’articolo elencavo una serie di provvedimenti messi in atto dalla Spagna mentre nel presente articolo voglio segnalare un articolo di Giacomo Cucignatto e Nadia Garbellini, apparso sul volumetto “L’INFLAZIONE” edizione Punto Rosso, che va alla ricerca delle cause che hanno innescato la crescita dei prezzi. Gli autori analizzano il sistema produttivo italiano simulando l’effetto che un aumento del 500% nel prezzo del gas può generare sull’insieme dei costi di produzione. Elaborata l’operazione si confronterà l’effetto dell’incremento dei costi con l’effettivo aumento dei prezzi sul mercato. Occorrono alcune precisazioni: ● Per ogni impresa occorre distinguere i costi di produzione in due branchie: costi direttamente sostenuti dall’impresa e costi sostenuti acquistando da altre imprese beni o servizi necessari al processo produttivo; ● In un successivo passo si procede a scindere i costi diretti in costi energetici e  costi non energetici. Di seguito la stessa scissione va fatta per i costi indiretti determinando quindi quanta energia è contenuta in ciò che acquistiamo esternamente; ● E’ ovvio che le varie imprese hanno contenuti energetici (diretti più indiretti) molto diversi come per esempio appare dalla seguente tabella pubblicata nell’articolo: Mix energetico Diretto Indiretto Totale Raffinazione petrolio 57,8 17,3 39,8 Estrazione minerali non energetici 12,6 10,5 11,5 Fornitura energia elettrica gas vapore 12,2 9,2 10,5 Estrazione minerali prodotti energetici 9,0 4,7 6,8 Attività metallurgiche 5,5 5,4 5,4 Attività servizi supporto estrazione 3,8 5,6 4,8 Prodotti chimici 3,4 8,6 3,5 Magazzinaggio e supporto trasporti 3,2 3,8 6,3 Istruzione 2,8 4,3 3,5 Sanità assistenza sociale 2,6 3,3 3,0 Amministrazione pubblica difesa 1,8 3,2 2,5 Servizi alloggio e ristorazione 1,7 2,9 2,3 Servizi postali e corriere 1,3 4,9 3,2 Attività artistiche 1,0 2,4 1,7                   ● I costi energetici sono rappresentati da fonti di energia diversa da paese e paese come appare dal seguente prospetto: Fonte energetica Europa Germania Francia Italia Rinnovabili 12 5 8 11 Petrolio 36 35 31 36 Carbone 11 15 2 4 Gas naturale 25 26 17 41 Energia idroelettrica 5 1 6 7 Nucleare 11 5 36 0             Da rilevare che solo il gas, per il quale noi abbiamo la più alta incidenza, è aumentato di prezzo anche prima, ma significativamente dopo l’invasione dell’Ucraina, per esempio la Francia con il grosso contributo del nucleare ha sofferto decisamente meno di noi. ● Poiché lo studio tende a calcolare l’aumento del 500% (confrontando le quotazioni del TTF (Title Transfer Facility) tra il 2018 e il 2022) dei costi di produzione causati dall’utilizzo di gas, occorre determinare settore per settore l’incidenza del consumo del gas sul totale consumi energetici. ● Tutte queste elaborazioni sono possibili utilizzando le tavole delle transazioni inter-industriali disaggregate per branche merceologiche e riportate secondo i codici Ateco. Queste tavole hanno anche una dimensione geografica potendo distinguere gli effetti al nord centro sud Italia e potendo determinare di produzione nostrana o importata. ● Aumentando quindi il costo del prezzo del gas del 500%, applicato al consumo di gas ponderato con il peso che ogni branca produttiva ha nell’ambito della produzione nazionale si ottiene di quanta inflazione è generata dai costi di questa componente esogena. ● L’inflazione può poi essere calcolata come effetto sul PIL, oppure calcolato prendendo in considerazione i soli consumi finali delle famiglie. ● Tali indici vanno comparati con il tasso di inflazione calcolato per l’intera collettività nazionale NIC, oppure per le famiglie di operai e impiegati FOI. Dati calcolati dall’ISTAT per il periodo 2018/2022. ● Considerando che i salari, ovvero il costo del lavoro non ha subito aumenti a causa di questa inflazione anche perché l’adeguamento dei minimi salariali quando effettuato terrebbe conto solo dell’inflazione diversa da quella causata dai costi di energia importata, possiamo considerare la differenza tra aumento dei costi e aumento dei prezzi come inflazione dovuta all’aumento dei profitti. Vediamo la tabella Indice inflazione Da costi Da prezzi Differenza Paniere del PIL 3,54 10,70 7,16 Paniere consumi finali delle famiglie 3,51 10,20 6,69 Conclusioni I dati rilevati sono calcolati su tabelle globali non differenziano quindi tra piccole, medie e grandi imprese, potendo quindi dedurre che l’incidenza sulle grandi imprese sia inferiore a quella sulle piccole. Poiché la composizione delle imprese può essere computata come segue: Dimensione imprese         numero dipendenti da 0 a 9 da 10 a 49 da 50 a 249 oltre 250   95,0% 4,0% 0,5% 0,1% Il superamento del nanismo aziendale potrebbe essere uno delle cause dell’inflazione da combattere. Resta comunque da concludere che (riporto dall’articolo citato):” La risposta alla domanda posta all’inizio di questo capitolo sembra chiara: l’aumento dei costi di produzione non sembra sufficiente a spiegare l’andamento dell’inflazione negli ultimi mesi. E’ dunque legittimo concludere che si  sia trattato piuttosto di inflazione da profitti dal momento in cui si è iniziato a parlare di aumenti del prezzo del gas e di inflazione le persone hanno iniziato ad attendersi rincari generalizzati.” SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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LA CROCE E L’ARATRO

a cura della Redazione con I Piedi per Terra | www.conipiediperterra.it Una tesi di laurea diventa una pubblicazione in cui l’autore, Alessio Tomasin ricostruisce le tensioni che nel corso degli anni ’70 hanno contrapposto i fittavoli di Anguillara Veneta alla Veneranda Arca del Santo di Padova Le lotte dei fittavoli di Anguillara Veneta contro l’Arca del Santo, che si protrassero per tutti gli anni ’70 del Novecento, possono essere interpretate come uno dei sintomi di quelle crisi, di natura politica, economica e sociale che si abbatterono sull’Italia intera in quel decennio. Se in città si combatteva per rinnovare la società (o per distruggerla), ricorrendo anche alla violenza e al terrorismo, in campagna si lottava per affrancarsi da obblighi e da situazioni di sfruttamento che ricordavano maggiormente il Medioevo, piuttosto che la dinamica società italiana degli anni ’70. Il Medioevo; è proprio da qui che occorre partire per comprendere le radici storiche del rapporto lungo quasi sei secoli che legò Anguillara Veneta alla Veneranda Arca del Santo, perché la nascita di questa istituzione laica va ricondotta agli anni immediatamente successivi alla morte di Sant’Antonio (1231) e alla sua santificazione, avvenuta l’anno seguente, per la gestione del flusso di donazioni e lasciti testamentari che i tanti fedeli e pellegrini rivolgevano a beneficio del monastero e della neo eretta basilica. Cifre talmente significative da costituire motivo d’imbarazzo per i frati francescani, che appartenendo a un ordine mendicante, facevano la povertà il proprio stile di vita. Dal 1396, dunque, la Veneranda Arca iniziò ad occuparsi della gestione ordinaria del complesso antoniano, sia negli aspetti che riguardavano la manutenzione agli alloggi dei frati, come in quelli di provvedere al loro vitto, di organizzare le cerimonie liturgiche, di custodire le reliquie e di gestire l’acquisto di paramenti. La storia di Anguillara Veneta s’intreccia con quella della Veneranda Arca del Santo in occasione della guerra tra Padova e Venezia combattutasi tra 1404 e 1405. All’epoca, la Signoria padovana era in mano ai Carraresi, i quali, per far fronte alle spese derivanti dal conflitto, si rivolsero all’Arca del Santo e ottennero un prestito pari a 1720 ducati. A garanzia del prestito, i Carraresi offrirono la gastaldía di Anguillara Veneta, possedimento personale della famiglia. La guerra terminò con la vittoria veneziana, quindi, il 17 giugno 1405, Francesco Novello da Carrara e i massari dell’Arca si recarono dal notaio Sicco Ricci Polenton, il quale redasse l’atto grazie al quale la proprietà del territorio di Anguillara fu trasferita all’Arca del Santo. Per effetto di questo accordo, l’Arca divenne proprietaria del più ampio possedimento terriero che essa abbia mai avuto: circa 4.920 campi padovani, pari a un’estensione di oltre 19 chilometri quadrati. Potrebbe sembrare che l’Arca avesse concluso un ottimo affare, ma in realtà non era affatto così. Infatti, il terreno di Anguillara, all’epoca, più di sei secoli fa, si presentava come una grande distesa acquitrinosa, maggiormente sfruttata per la raccolta della canna palustre, piuttosto che per l’agricoltura. Il suo valore iniziò a crescere in seguito alle bonifiche avviate alla metà dal ‘500 dal governo veneziano e ai primi edifici costruiti dalla stessa Arca destinati all’agricoltura gestita in forma estensiva. La situazione restò pressoché immutata fino all’inizio del ‘900. In particolar modo, dopo la fine della Grande Guerra, l’Arca dovette fronteggiare le prime agitazioni dei contadini. Sia per limitare il fenomeno dell’emigrazione, sia per calmare le tensioni con la popolazione rurale, iniziò a frammentare la terra in porzioni sempre più piccole, che venivano poi affittate a singole famiglie di contadini. Questo fenomeno si accentuò dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’Arca del Santo, per far fronte ad una condizione economica e sociale disastrosa, procedette ad un ulteriore frammentazione. All’inizio degli anni ’70, anche la situazione di Anguillara Veneta appariva critica sotto molti punti di vista, soprattutto l’agricoltura risultava particolarmente frenata nelle possibilità di sviluppo per le politiche di gestione poderale portate avanti dall’Istituto antoniano. Quasi ogni famiglia, infatti, aveva in affitto un piccolo pezzo di terra, nella maggior parte dei casi sotto i 5 campi padovani (nemmeno due ettari), da coltivare nel tempo libero e per integrare i magri salari. Molto critiche erano anche le condizioni abitative in cui versava la popolazione anguillarese. Quasi la totalità degli abitanti viveva in edifici fatiscenti di proprietà dell’Arca. All’inizio degli anni ’70, l’80% delle case non disponeva di servizi igienici; molte abitazioni erano, inoltre, prive di acqua corrente e di elettricità. Questa situazione si deteriorò ulteriormente quando, nell’autunno del 1970, iniziarono a circolare le prime voci riguardanti l’avvio delle trattative dell’Arca del Santo con degli imprenditori lombardi, Balzarini e Corvi, per la cessione dei terreni. Da un documento del luglio 1971 si evincono le condizioni di vendita stipulate: 1.180 ettari di terreno per 1,3 miliardi di lire. Queste notizie diffusero in paese un sentimento di esasperazione misto a rabbia e preoccupazione. La vendita, infatti, avrebbe significato nel migliore dei casi avere un nuovo proprietario a cui versare l’affitto, nel peggiore ritrovarsi in mezzo alla strada perché non si avrebbe più avuta una casa a disposizione. Con la nascita del primo Comitato presero avvio le prime lotte, una serie di iniziative che trovarono maggiori risultati quando vennero coordinate insieme a quelle dei sindacati, delle associazioni professionali e dei partiti politici. Dal canto loro, Balzarini e Corvi reagirono dando avvio ad un’azione speculativa, con l’intento non solo di recuperare i capitali investiti, ma di ricavarne lucrosi profitti. Ai fittavoli venne chiesto di acquistare il proprio lotto di terra al prezzo di un milione di lire il campo padovano o di liberare i terreni accettando la corresponsione di 100.000 lire come buonuscita. Il comitato fittavoli respinse queste azioni speculative e propose che, per quei fittavoli che lo desideravano, fosse possibile acquistare il proprio fondo a un prezzo inferiore alle 500 mila lire per campo padovano. L’Arca e i nuovi proprietari continueranno a respingere qualsiasi proposta dei fittavoli fino all’inizio del 1974, ossia fino a quando furono avviate le prime azioni parlamentari; in particolare, il senatore De Marzi presentò una proposta di legge ad hoc, estendendo il diritto …

IMPEGNO SOCIALISTA: UN PARTITO DI GOVERNO

di Davide Passamonti | Oggi si sente spesso dire: “C’è un vento di destra nel paese“; e aggiungo in Europa e in occidente. Lo affermano sia la gente comune sia la classe politica critici verso i partiti di destra. Ma non è, forse, una lettura troppo scontata? Non è che manca un contrastante “vento di sinistra”? Preso atto che sì, la destra ha vinto le ultime elezioni (in Italia) e ha una forte presa sull’elettorato  in tutti i paesi occidentali. E’ altrettanto vero, però, che manca completamente una visione chiara di cosa sia la sinistra oggi. Per quanto riguarda l’Italia, va constatato che i due principali partiti di “centrosinistra” – Partito Democratico e Movimento 5 Stelle – non sono riusciti mai a qualificarsi in modo efficace e permanente con le qualifiche di partiti: autonomi, responsabili e autorevoli. Le infinite contraddizioni interne ai due partiti e la mancanza di programmi politici di lungo respiro, cioè di quelle “visioni del mondo” chiare e definite, hanno pesato notevolmente sui risultati elettorali e hanno evidenziato tutti i limiti delle precedenti esperienze di governo. Ho indicato spesso «il rimedio nella programmazione come metodo di governo»[1]. La critica per il caos politico “a sinistra” va, quindi, impostata principalmente nella totale mancanza di conoscenza sulla “politica di programma” come assunto valoriale di rifermento per un “impegno socialista” e “un partito di governo”. Va chiarito, però, che non basta enunciare un “programma quinquennale” per definirsi programmatori o per avere quella visione di mondo tanto richiesta. In realtà, sono altrettanto fondamentali tutti «quegli istituti, strumenti, procedure disponibili o da trasformare o da creare per rendere efficace e coerente l’azione del potere pubblico, all’applicazione di un metodo nella direzione quotidiana della politica economica [e sociale] conforme alle finalità e ai criteri della programmazione, alla valutazione esatta di tutte le condizioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi»[2]. Invece, quelle idee – conformi ai valori del capitalismo moderno – fatte proprie dai partiti di sinistra  del “mito della crescita”, del progresso spasmodico e non regolamentato della tecnologia e la disattenzione sistemica della questione ambientale vanno ricondotti alla loro collocazione reale. Ovvero, vanno connaturati di valori etici, riportati alla loro vera funzione “di strumenti” e utilizzati per realizzare valori sociali, civili e umani. Ciò che ho già, in altre occasioni, definito “la riforma dello stato” diventa il tema centrale e costitutivo di un partito socialista, progressista e riformista di governo: un partito socialista liberale. La riforma dello stato cessa così di essere uno slogan, sbandierato in vari tentativi – disastrosi e controproducenti – di riforme costituzionali, tentati negli ultimi decenni, e «diventa il tema centrale della politica finalizzato alla creazione di una efficiente e democratica direzione pubblica dello sviluppo economico e del progresso sociale e civile»[3]. La strategia della programmazione socio-economica va, dunque, intesa come metodo di comportamento delle istituzioni pubbliche atte a conseguire risultati economici, mediante l’uso efficiente delle risorse, miranti a creare condizioni di vita individuali e collettive migliori. Perché ciò possa realizzarsi deve poter riferirsi a tutti, quindi a ciascuno di noi, attraverso modi e mezzi per un sostenibile sviluppo economico che crei condizioni di solidarietà e non di sfruttamento. «Abbiamo così enunciato due fondamentali valori che ispirano il pensiero e l’azione socialista: libertà individuale e solidarietà collettiva. Giustizia ed eguaglianza ne sono componenti implicite»[4]. L’indirizzo proposto in questo “impegno socialista” vuole essere un richiamo ad un nuovo impegno che tenga conto che le condizioni della società italiana, europea e occidentale sono arrivate ad un punto tale che divengono indispensabili e urgenti delle riforme profonde. Sta alla sinistra, qui chiamo in causa anche il Partito socialista italiano, e ai suoi originali valori di cambiamento e di progresso economico-sociale di riprendere iniziative concrete che mettano in primo piano i problemi e le aspirazioni di partecipazione democratica che si manifestano nella società. Partendo dai giovani, dai disoccupati “strutturali” e dalle donne ancora non trattate in maniera egualitaria sul posto di lavoro. Un partito di sinistra «deve stabilire una prassi d’incontri e confronti tra i propri organi dirigenti e le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro, della produzione, della ricerca, della cultura. E’ in termini di partecipazione, di autogoverno, di soluzioni dinamiche da sperimentare e aggiornare e approfondire in continuo confronto con la realtà in movimento, che vanno affrontati e risolti i problemi della società italiana»[5]. Ad esempio, vanno affrontati temi come: la riduzione della durata del lavoro (come orario medio di lavoro) e la redistribuzione delle ore “liberate” fra la popolazione disoccupata, ma potenzialmente occupabile; erogare il lavoro utile socialmente, cioè chiedersi quali lavori, quali beni e servizi, quali occupazioni e quali attività sarebbero utili da “creare“. La nuova occupazione generata deve, però, essere programmata e guidata verso impieghi con rilevanza sociale, cioè necessari a soddisfare bisogni insoddisfatti. E’ solo in questo modo che si risolvono i problemi della società odierna, puntando a obiettivi di libertà, giustizia, dignità e benessere. Infine, ma non per questo meno importante, è prioritario per ogni partito di sinistra richiamarsi ai suoi storici valori internazionalisti, cioè all’Europa. «E’ l’Europa il terreno sociale, economico, politico e culturale sul quale può svilupparsi una un’iniziativa socialista capace di costruire un modello alternativo rispetto al neocapitalismo»[6]. E’ dalle istituzioni europee e dal Gruppo Socialista che deve ripartire la spinta ad un’ulteriore integrazione europea democratica e alla necessità dello “Stato Federale Europeo”. [1]     Giolitti A. (1992), Lettere a Marta, Ricordi e riflessioni, Bologna, Il Mulino. [2]     Giolitti 1992. [3]     Giolitti A. (1967), Un socialismo possibile, Torino, Einaudi Editore. [4]     Giolitti 1967. [5]     Giolitti 1992. [6]     Giolitti 1992. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Non sono un costituzionalista, ma sento una forte pulsione a rivedere, dopo 75 anni, come i principi della Costituzione si sono evoluti (o devoluti) nella vita pratica dal momento della nascita ai tempi odierni.                Riporto l’articolo 1 nel suo immutato testo originario:                L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.                La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Di questo articolo due sono gli elementi che attraggono le mie riflessioni: “fondata sul lavoro” e “la sovranità appartiene al popolo”. La formula “fondata sul lavoro” fu il risultato di una discussione innescata dalla proposta dei gruppi comunista e socialista che recitava “L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori” che secondo molti costituenti presentava un inadeguato significato classista. Interpretazione classista inteso poi in maniera molto limitante del concetto di lavoratore. L’on. Fanfani infatti precisò che quel termine significava “niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico (…)”. Questa preoccupazione che il lavoratore fosse solo quello manuale appare anche nella relazione di Ruini, quando la proposta social comunista fu sostituita dalla versione finale “fondata sul lavoro”. Ebbene Ruini precisò “Lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana”. Più fondata, a mio parere, è quanto precisato dal proponente Fanfani, e cioè che “Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui”. Il contenuto economico della formulazione “fondata sul lavoro” esclude cioè che la vita economica della Repubblica possa basarsi sulla rendita, sulla speculazione o sullo sfruttamento riconoscendo cioè “al mondo del lavoro” il protagonismo economico del Paese; principio che viene riaffermato, questa volta rivolto ai cittadini italiani, dopo aver sancito il diritto al lavoro, quando nel secondo comma dell’art. 5 recita:                “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. L’evoluzione (o devoluzione) del capitalismo da produttivo a finanziario ha nella prassi modificato il motore economico del Paese che rimane pur sempre il secondo paese produttivo dell’Unione Europea, ma dove la rendita, la speculazione hanno assunto dimensioni crescenti pur non essendo produttive ma soltanto ricollocatrici della ricchezza, contribuendo ad esasperare le disuguaglianze. Di fronte a questa trasformazione del capitalismo il sistema italiano, invece di seguire il dettato costituzionale, ha reagito sul piano fiscale favorendo rendita e speculazione invece di tutelare i redditi da lavoro. Sicuramente interessi sulle obbligazioni, locazioni di fabbricati sono rendite che non sono generate dal lavoro e, tuttavia, godono di una flat tax inferiore all’imposizione di chi ha un lavoro dipendente. Anzi il lavoro dipendente ed i pensionati (e gli autonomi con fatturato, per ora, superiore a 85.000€) sono gli unici assoggettati, come da art. 53 della Costituzione, ad imposizione progressiva, e contribuiscono per la gran parte al gettito fiscale nazionale. La contraddizione del sistema si rivela, come recentemente è successo, che per tassare gli extraprofitti derivanti dalla speculazione sul gas o sull’incremento del tasso di interesse, due governi (quello Draghi e quello Meloni) sono costretti ad inventarsi una super imposta, ma l’imperizia legislativa e la debolezza dell’esecutivo stanno portando alla nullificazione dei provvedimenti. Il risultato ricercato sarebbe stato naturalmente raggiunto con una imposta progressiva costituzionalmente ineccepibile. Ecco le conseguenze di una imposizione flat. Passiamo ora all’argomento “sovranità” Il testo costituzionale prevede il verbo “appartiene” che è la scelta, operata dai costituenti, tra gli altri termini proposti quali “emana”, “risiede”, “è del”, “spetta”, termine che è poi precisato come esercitabile nelle forme e nei limiti della Costituzione. La Costituzione prevede che l’esercizio della sovranità avviene in maniera diretta ed indiretta; ovvero indiretta attraverso i suoi rappresentanti (la Camera ed il Senato) e diretta tramite due strumenti le elezioni e il referendum. Per quanto riguarda lo strumento diretto della elezione dei deputati e senatori, le leggi elettorali, non rispecchiano più, come ci insegna il compagno Besostri, la libera scelta dell’elettore. In questo senso, la cessione di sovranità dal popolo al suo rappresentante conosce limiti sostanziali nel meccanismo di conferimento del potere di rappresentanza. A questa cessione segue poi un’altra cessione da parte delle camere a favore del governo che sempre più aggiunge al suo potere esecutivo quello legislativo tramite una consolidata prassi di legislazione per decreto. Il Parlamento è sempre più demansionato a ratificare i decreti governativi, rinunciando di fatto al suo potere legislativo. Un procedimento anomalo, denunciato dal presidente Napolitano in occasione del suo secondo mandato, che vanifica la sovranità del popolo, che reagisce astenendosi in modo sempre pesante dalle elezioni. Ma il popolo elegge anche il Parlamento europeo, un organismo che è comunque sovrastato nella gestione da una commissione europea composta dai governi dei paesi membri. Anche in tal caso la sovranità è stata ceduta a entità diverse dal popolo, vanificando il principio originario dettato dalla Costituzione. C’è stato però un periodo in cui la “partecipazione” aveva creato organismi che, nei vari campi, investivano i cittadini di una responsabilità nella gestione del pubblico creando una rete di vero esercizio della sovranità da parte del popolo. Forse è guardando a queste forme che potremo ridare al dettato costituzionale una concretezza ed una autenticità che tale dettato ha, in questi anni, perso. Pensiamo poi alla “sovranità limitata”, che registriamo per il nostro Paese, nell’ambito internazionale dove dobbiamo constatare una evidente e duratura subordinazione ad una egemonia statunitense nel dominante atlantismo, subordinazione che condividiamo con tutti gli altri paesi dell’Unione Europea e che suggerisco di approfondire nel libro “Sovranità limitata” di Luciano Canfora edizioni Laterza. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RIFLESSIONI INTORNO ALLA PERDURANTE CRISI ECONOMICA

di Davide Passamonti| Riflettendo sulla situazione economica italiana mi pare evidente che i problemi hanno radici profonde. Mi pare, altresì, chiaro che non è possibile far ricadere tutte le colpe sulle politiche dell’Unione europea o della Banca Centrale Europea. Una cosa è certa: le politiche neo-liberiste di austerità ideologica per contenere il debito, pareggio di bilancio e tagli lineari alla spesa pubblica, hanno completamente fallito. Imposte in seguito alla crisi dei debiti sovrani nel corso del 2008/2009 si sono rivelate una “cura peggiore della malattia”. Appresa la lezione, sia le istituzioni europee che i governi nazionali, hanno adottato la politica contraria, di keynesiana memoria: politiche di deficit-spending e di massiccia erogazione di liquidità nell’economia. Ma ancora una volta si è andati “fuori strada”. Il Quantitative easing è stata una politica messa in atto dalla BCE per “creare moneta” mediante l’acquisto di titoli di Stato o altre obbligazioni sul mercato. Aumentando la quantità di denaro prestata agli istituti di credito la BCE fornisce liquidità al sistema per i prestiti a famiglie e imprese. Il q.e. è una politica monetaria aggressiva, i cui effetti in termini di inflazione sono pericolosi. Dal 2016 al 2020 sono stati stanziati dalla BCE, su base mensile, tra i 40/50 miliardi di euro al mese. Inoltre, con la pandemia è stato lanciato un ulteriore q.e., dal 2020 al 2022, per una somma di circa 1850 miliardi di euro[1]. Dato che questa iniezione di liquidità “non è bastata”, le istituzioni europee hanno promosso il programma Next Generation EU (NGEU), pacchetto da 750 miliardi di euro. La principale componente del programma NGEU è il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza, ha una durata di sei anni (dal 2021 al 2026), e una dimensione totale di 672,5 miliardi di euro[2]. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si inserisce all’interno del NGUE. Per l’Italia ammonta a 191.5 miliardi di euro, al quale il Governo italiano ha stanziato un ulteriore Piano Nazionale Complementare (PNC) pari a 30,6 miliardi di euro[3]. Mi pare evidente che è un miope errore pensare che la crisi economica e sociale, in Italia e negli altri paesi europei, si possa guarire con una iniezione generosa di liquidità. Quali sono stati gli effetti benefici di tutti questi soldi? Si sa dire “dove sono finiti”? In concreto quali politiche, industriali o sociali o fiscali o ambientali o infrastrutturali, sono state messe in campo? La certezza è la perdurante situazione di crisi in cui versano l’Italia e gli altri paesi europei nonostante la Commissione preveda una crescita della zona euro dell’1,1% (l’Italia dell’ 1,2%) nel 2023. Il tasso dell’inflazione nella zona Euro è al 5,5%, con gli alimentari all’ 11,7%. Il tasso di disoccupazione per l’Eurozona è al 6,5%; quella giovanile al 13,9%. Rispetto ad aprile 2023 quest’ultima è aumentata di 11 mila unità nella zona euro. Rispetto a maggio 2022, invece, è aumentata di 46 mila unità nella zona euro[4]. Ecco cosa hanno prodotto le politiche economiche e monetarie “novecentesche” di questi ultimi decenni: inflazione, disoccupazione, debito pubblico e bassi tassi di crescita. Il contesto italiano, però, è aggravato da storture interne che mettono il nostro paese in condizioni di “inferiorità” strutturale rispetto agli altri paesi dell’Unione. Il male ha radici profonde. E’ la crisi di un’economia pilotata da una imprenditorialità che si affida, ancora oggi, a salari tra i più bassi d’Europa[5]. E’ la crisi di un’economia in cui sono troppo largamente perseguite scorciatoie speculative e parassitarie alla formazione di fortune che hanno poi poca propensione a trasformarsi in capitale applicato alla produzione e molta, invece, a fuggire e nascondersi all’estero di fronte alla minaccia dei normali obblighi fiscali. Con quest’altro grave risultato negativo: di creare costi crescenti, in termini fisici e monetari, per i lavoratori e di annullare, così, gran parte di quegli stessi benefici che questi riescono a ottenere con la loro azione sindacale[6]. Esempi tipici di questi costi si ritrovano: in un sistema di trasporti arretrato, costoso, inquinante; un sistema mafioso che occupa un’ampia fetta dell’economia; un sistema sanitario sempre più privatizzato, meno efficiente ma più costoso per la collettività; un’organizzazione scolastica sovraffollata e mal distribuita sul territorio. Da tutto questo deriva l’estrema lentezza con la quale la condizione del lavoratore, da noi, stenta tanto ad allinearsi con quella dei paesi confinanti. Da tutto questo deriva anche, però, nelle masse lavoratrici, una insofferenza crescente per tali ritardi, una sempre minore disponibilità a tollerare e attendere. [Giolitti, 1992] Ciò che serve, quindi, all’Italia è un “nuovo metodo di governare”. Cioè una politica austera, eliminazione dei privilegi e degli sperperi, non fine a se stessa ma come condizione di scelte coerenti, che comportano rinunce, per perseguire e raggiungere obiettivi pianificati. [1]             Dati tratti da Enciclopedia Treccani e Wikipedia. [2]             Dati Ministero dell’Economia e delle Finanze. [3]             Dati tratti dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy. [4]             Dati Eurostat. [5]             Conflavoro, Piccole Medie imprese (2022), Salari, in Italia sono fra i più bassi d’Europa. Resta alto il costo del lavoro. [6]             Giolitti A. (1992), Lettere a Marta, Ricordi e riflessioni, Bologna, Il Mulino. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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LA NECESSITA’ DI UN REDDITO DI BASE UNIVERSALE

di Davide Passamonti | La situazione sociale in Italia, come negli altri Paesi europei, è sempre più allarmante; soprattutto se, al centro dell’attenzione, consideriamo la situazione giovanile. A questo riguardo, a preoccupare sono i dati della disoccupazione, in crescita, al 13.9% nella zona Euro (dati Eurostat). Preoccupano altrettanto le condizioni lavorative di coloro che riescono a trovare un’occupazione. Infatti, spesso si tratta di un lavoro a tempo determinato (in media il 47%) o part-time, quindi precario, e non retribuito adeguatamente. Le trasformazioni socio-economiche in atto, con il passaggio alla società post-industriale, generano ciò che può essere definita una disoccupazione “strutturale”. Questa situazione frena lo sviluppo economico e continuerà finché non si attiveranno processi di redistribuzione dei redditi che sosterranno la domanda globale. Nel corso degli ultimi anni si è individuato nel reddito di base (o reddito garantito) una possibile soluzione al non più equilibrato avanzamento della redditività personale rispetto alla produttività del lavoro. Il reddito di base consiste in un pagamento periodico che viene erogato incondizionatamente a tutti su base individuale, senza criteri di erogazione o requisiti lavorativi. I principi essenziali del reddito sono: periodicità, pagamento monetario, base individuale, universalità e incondizionalità Un significativo effetto di un reddito di base universalistico lo si avrebbe sul mondo del lavoro. Con la sua introduzione, infatti, si potrebbero tradurre i benefici della produttività nella riduzione della durata del lavoro. Keynes nel 1930 scriveva in proposito: «[Il compito del futuro sarà] fare in modo che il lavoro che rimane da fare sia il più ampiamente condiviso»[1]. Questo significa garantire inclusione e sicurezza sociale senza doversi affidare alla creazione di posti di lavoro, ormai sempre più difficilmente garantibili. Di conseguenza, si dovrà ristrutturare il Welfare, il sistema educativo e il mercato del lavoro, così da garantire una redistribuzione dell’occupazione tra le persone e tra le varie fasce d’età. E il reddito di base diviene il meccanismo stabilizzatore del processo redistributivo e strumento di vera giustizia sociale. La società capitalistica ha abituato all’idea che l’accesso al reddito e, di conseguenza, al consumo potesse avvenire solo se disposti a contribuire alla produzione. Nella società industriale questo era vero e necessario, ma oggi – in una società post-industriale – questo non è più scontato. I deficit strutturali e le condizioni economiche e tecnologiche odierne fanno sì che non è necessario fare del contributo alla produttività, dunque del lavoro, una condizione di accesso al reddito. L’introduzione del reddito, quindi, ha l’intenzione di combattere non solo la povertà ma anche l’esclusione[2]. Il reddito di base non rappresenta un’alternativa al diritto del lavoro ma, semmai, una possibilità ulteriore alla sua realizzazione, data la situazione strutturale deficitaria odierna. Più in generale, la questione del reddito non la si affronta solo in termini di giustizia ma anche di potere. Ovvero della libertà reale di fare, nel lavoro e al di fuori del lavoro. «Anche se parliamo di reddito i benefici non si limitano a considerazioni sul benessere materiale degli individui, ma investono anche l’uso che possiamo fare del nostro tempo. Il reddito di base, o reddito minimo universale, ci consente di accedere al lavoro, di svolgere attività al di fuori del lavoro, ci dà maggior potere di consumo, essendo universale contribuisce a combattere l’esclusione dal lavoro, in quanto incondizionato ci permette di scegliere tra lavori diversi e tra differenti attività non lavorative. Grazie a tutti questi elementi può celebrare un “matrimonio” tra giustizia ed efficienza[3]». [1] Vedasi il capitolo di Van Parijs Ph., Reddito di Base, in Battiston G. – Marcon G. (2018), La Sinistra che verrà, le parole chiave per cambiare, Roma, minimum fax. p.206. [2] Vedasi il capitolo di Van Parijs Ph., Reddito di Base, in Battiston G. – Marcon G. (2018), La Sinistra che verrà, le parole chiave per cambiare, Roma, minimum fax. [3] Ibidem. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’INFLAZIONE IN ITALIA E IN SPAGNA

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Rielaborazione di un articolo di Carsten Ju apparso sul Guardian Il governo italiano non ha ancora vinto la lotta contro l’inflazione, il Paese non è ancora fuori pericolo, come dimostra l’ennesimo rialzo dei tassi di interesse (ora al 4,50 per cento) adottato nei giorni scorsi dalla BCE e l’abbassamento delle previsioni di crescita secondo le stime della UE. In Spagna, invece, l’inflazione è già arrivata all’obiettivo del 2 per cento. A cosa è dovuta questa differenza tra Roma e Madrid? La risposta si chiama politica economica: il governo iberico ha intrapreso un’azione più rapida e concertata rispetto all’esecutivo italiano. La Spagna ha limitato i prezzi dell’energia, ha abbassato il costo del trasporto pubblico, ha tassato gli extraprofitti delle imprese e ha posto un limite all’aumento degli affitti. Ciò ha impedito all’inflazione di produrre metastasi in tutta l’economia domestica. In pratica, è stata usata la politica fiscale per ridurre i prezzi. Un esempio è offerto dall’introduzione del tetto ai prezzi dei beni energetici che dovrebbe restare in Spagna fino al 2024. In Italia sappiamo tutti cosa è successo con le accise e del successo che ha avuto il provvedimento che obbliga i distributori ad esporre il prezzo medio regionale. La politica fiscale sembra essere l’arma corretta visto che quello a cui stiamo assistendo, anche in Italia, è una sorta di gioco dei pacchi, anzi del pacco. Non nel senso del pacco regalo, ma di quello che ad esempio in gergo romanesco è definito ‘una sola’. In sostanza, l’inflazione è principalmente dovuta al tentativo di trasferire costi più elevati ad altri. Il problema è che spesso ciò sta avvenendo anche in assenza di un aumento dei costi. Con il risultato che alcune imprese stanno vedendo schizzare in alto i loro profitti. La BCE è l’unica ad intervenire ma i suoi limiti stanno nel fatto che essa può operare e sa operare solo tramite il tasso di interesse. Dovrebbe pertanto evitare ulteriori rialzi dei tassi e considerare semmai la possibilità di ridurli a breve. L’Europa, guardando all’esperienza iberica che, dopotutto, dimostra come l’inflazione possa scendere senza che l’economia vada in tilt potrebbe coordinare una serie di azioni concordi per i suoi membri, visto che i governi locali presentano difficoltà. E le misure dovrebbero partire dalla volontà di combattere la divisione tra chi sfrutta l’inflazione e chi ne subisce i costi. Se infatti i costi dell’inflazione fossero equamente ripartiti, anche le imprese e i proprietari di immobili sarebbero chiamati ad assorbirebbe parte dei costi, e si eviterebbe quantomeno di far ricadere sui lavoratori buona parte dell’aumento dei prezzi al consumo. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ANCORA SULL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio | Noi e la guerra in Ucraina Riporto nuovamente l’art. 11 della nostra Costituzione: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Al momento dell’invasione russa in Ucraina, il nostro paese ha dovuto decidere come comportarsi in questo frangente tenendo conto della nostra Costituzione e degli obblighi derivantici stante la nostra adesione alla NATO, La domanda cui moltissimi hanno cercato, argomentando, di rispondere è quella che si chiede se la nostra Costituzione ci vietasse di inviare armi all’Ucraina. La prima risposta è stata quella che afferma che il ripudio di cui all’art. 11 – come ha osservato Amato  –  non è assoluto, tanto che la stessa Costituzione prevede, in altri articoli, che l’Italia possa trovarsi in stato di guerra. Si afferma che ciò valga soltanto a condizione che la guerra sia intrapresa e condotta a scopo puramente difensivo contro una ingiusta aggressione, pur se subita da un paese diverso dall’Italia non essendo essa diretta, in tal caso, né ad offendere la libertà di altri popoli, né a risolvere, con l’uso della forza, una controversia internazionale. Ritengo che tali deduzioni siano errate nel caso dell’invasione dell’Ucraina ove si tratta a tutti gli effetti di una controversia internazionale riguardante un paese che non rientra nell’alleanza alla quale partecipiamo e che ci obbligherebbe ad un intervento solidale. Sostenere poi che l’aggressione debba essere ingiusta mi pone nella condizione di chiedermi quando mai si possa configurare una aggressione giusta. Mi sorge qualche dubbio, poi, se si possa configurare senza esitazioni la NATO come un “ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” così come richiede la nostra Costituzione. Si rammenti inoltre che Zelenski (come ci ricorda nel suo articolo Pietro Dubolino) a Fox News il 2 aprile scorso afferma (mai smentito e imitato da molte personalità politiche occidentali) che la guerra con la Russia non potrebbe aver fine se non con il conseguimento di una non meglio precisata “vittoria” da parte dell’Ucraina. Il che ben potrebbe intendersi come rifiuto “a priori”, di ogni soluzione  negoziale del conflitto, anche nell’ipotesi che l’invasione da parte della Russia venisse definitivamente bloccata e si desse luogo, pur se in via di mero fatto, a una tregua fra i belligeranti  Se così fosse, la guerra, per quanto sopra detto, non potrebbe più essere considerata puramente difensiva ma assumerebbe piuttosto le connotazioni  di un mezzo di risoluzione (vietato, per l’Italia, dall’art. 11 Cost.), della già preesistente controversia internazionale tra Russia ed Ucraina, avente a oggetto, nell’essenziale, l’adesione o meno di quest’ultima alla NATO  (vista dalla Russia, non  del tutto ingiustificatamente,  come una minaccia alla propria sicurezza), e la destinazione finale della Crimea e della regione del Donbass (la prima delle quali, peraltro, già in possesso, di fatto incontrastato, della Russia fin dal 2014). Ciò posto, mi interessa un diverso tipo di interpretazione dell’art. 11; e tale interpretazione parte dalla perentorietà del verbo “rifiuta”, termine che è prevalso nella costituente sugli altri due termini proposti, ovvero “rinuncia” e “condanna”. La scelta di quel termine indica che la nostra Costituzione non intende ammettere interpretazioni del tipo “ripudia ma,,,”  elencando eccezioni che, come nel caso in esame, vengono costruite con il solo scopo di contravvenire alla norma costituzionale. Il ripudio, invece di invitare a partorire aborti interpretativi come quello del sen, Amato, induce invece a percorrere la strada di una ricerca costante, insistente, indefessa, spregiudicata, permanente di una soluzione pacifica. Ci sono solo tre casi, che io conosca, di autorità politiche che perseguono il dettato dell’art.11 della nostra Costituzione: papa Francesco, Erdogan e la Cina. Papa Francesco con la sua insistenza di mediazione effettuata dal cardinale Zuppi; Erdogan che ha portato a casa il primo accordo sul grano e che non perde occasione per ritentarci con insistenza; la Cina che con il suo documento in 12 punti ha posto le basi per una trattativa e che ha recentemente accolto il cardinale Zuppi per un possibile coordinamento degli sforzi. Non esiste un solo politico italiano (salvo rarissime eccezioni) che rispetti l’art.11 della Costituzione, né nella maggioranza né all’opposizione, incapaci di ubbidire ad un comportamento costituzionale inequivoco. Personalmente in ogni momento in cui fossi chiamato a pronunciarmi (e penso alle elezioni politiche del 2022 o alle prossime europee) non ho dato e non darò il mio voto a chi non si impegnasse a osservare nel suo mandato pacifista l’art. 11 della Costituzione. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it