SE E’ NECESSARIO SI MUORE CON LA SEMPLICITA’ DI UN GRAMSCI

Carlo Rosselli commemora Antonio Gramsci il 23 maggio 1937 a Parigi Il 27 aprile 1937 Antonio Gramsci moriva a Roma, vittima dei duri anni di prigione fascista, diciassette giorni dopo questo discorso Carlo e Nello Rosselli furono uccisi in Francia su mandato di Mussolini. Gramsci e Mussolini: quale contrapposizione tra di loro! Non solo di destino e di fede politica, ma di tempra morale. Sono due mondi che si contrappongono, due concezioni antitetiche della vita e dell’uomo. L’uno, Mussolini, esteriore, irrazionale, improvvisatore, demagogo, avventuriero, traditore dell’ideale della sua giovinezza, trionfante sulle piazze, con tutta una schiera di poliziotti per salvarlo dall’odio del popolo. L’altro, Gramsci, intimo, riservato, razionale, severo, nemico della retorica e di ogni tipo di faciloneria, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella con una schiera di poliziotti per sottrarlo alla solidarietà, all’amore del popolo. Per l’uno niente vale se non il successo, niente conta se non la forza. Purché si arrivi al vertice del potere, purché si domini, ogni mezzo è buono. Le idee, i principi, gli uomini non sono che mezzi per l’affermazione del proprio io, strumenti del successo individuale. Per l’altro al contrario niente vale se non la coerenza, la fedeltà a un ideale, a una causa che vive per sé medesima, indipendentemente dal successo, dall’interesse della propria persona; tutto è in lui ispirato da questo universalismo, da questo distacco che è proprio degli esseri superiori, nei quali il sociale prevale sull’individuale, l’altruismo e l’umano sull’egoismo e la bestia. L’ideale lo si serve, non ci si serve di esso. E, se necessario, si muore per esso, con la semplicità di un Gramsci, piuttosto che continuare a vivere perdendo la ragione di vivere. Chi dei due vincerà ? Non c’è che da tornare alla storia, alla vostra storia francese. Le dittature passano, i popoli restano. La libertà finirà sempre per trionfare. Centinaia, migliaia di giovani, formatisi alla scuola di Gramsci, di Gobetti, di Matteotti, riempiono oggi le prigioni e le isole d’Italia. Una opposizione nuova, una Italia nuova è in procinto, silenziosamente, di sostituirsi alla vecchia. Ciò che impressiona è la sua semplicità, la sua calma. Giovani, soprattutto operai, intellettuali partecipano alla lotta clandestina sapendo che un giorno la polizia verrà e li arresterà. Dopo uno, due, tre anni di isolamento, davanti al tribunale speciale. Nessuno parlerà di essi. Spariranno nel gorgo, entreranno nella grande legione dei precursori. In prigione, studieranno, divideranno fraternamente il poco di vettovaglie che l’amministrazione fornisce. Quando usciranno, ricominceranno. Qualche giorno fa il tribunale speciale ha condannato per la seconda volta un giovane compagno di nome Scala. Egli era stato arrestato una prima volta come studente, con altri studenti e condannato a cinque anni. Questa volta è stato condannato a dodici anni. E con lui c’erano degli operai. Il legame storico tra proletariato e intellettuali è fatto. E’ questa nuova opposizione, questa nuova Italia che vincerà finalmente il fascismo, che noi vi domandiamo di conoscere, di appoggiare, di difendere, compagni di Francia. Essa lotta non soltanto per la libertà d’Italia, essa lotta per la libertà e per la pace del mondo. Essa muore in prigione, essa muore, armi in mano, in Spagna. Ma essa vivrà domani, essa vincerà domani, quando sulle rovine del fascismo, sorgerà il mondo nuovo sognato da Gramsci. Fonte: ipensieridiprotagora SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DAL CONGRESSO DI FIRENZE ALLA SCISSIONE

Dopo il congresso di Firenze, come per incanto cessano le discussioni sullo statuto. Il compromesso politico raggiunto tra le correnti sembra avere ottenuto l’effetto d’insabbiare il progetto di organizzazione del partito presentato da Basso. Peraltro, le correnti autonomiste che nel loro complesso al congresso di Firenze avevano ottenuto la maggioranza, non sostengono il progetto Faravelli, né propongono altro modello di struttura organizzativa che si ispiri alla concezione del socialismo democratico, e che fissi statutariamente le norme dirette a garantire l’autonomia del PSIUP, e con l’autonomia la garanzia interna di partito. Al contrario, le stesse correnti autonomistiche (una delle quali, Iniziativa socialista, ha addirittura sciolto la propria organizzazione) sostengono e sottoscrivono anche esse un nuovo patto di unità d’azione con il Partito comunista, non scorgendo i pericoli che esso comporta per la loro stessa esistenza nel partito. Il nuovo patto di unità d’azione tra PSIUP e PCI viene sottoscritto e ratificato in seduta plenaria dalle direzioni dei due partiti il 25 ottobre del 1946. Il patto prevedeva la costituzione di una giunta centrale d’intesa, composta di tre rappresentanti per ciascun partito, la decisione e il coordinamento della posizione dei due partiti in tutti i problemi politici d’importanza nazionale. Alla giunta centrale veniva affiancata una giunta esecutiva parlamentare anch’essa composta di tre rappresentanti (deputati) per ciascun partito. A questo organo venivano attribuite le funzioni inerenti al coordinamento dell’azione dei due gruppi parlamentari. La struttura del patto unitario si ramificava dal vertice alla base, mediante la costituzione di giunte esecutive a livello sezionale e provinciale, che avevano il compito di determinare le forme dell’iniziativa unitaria tra i socialisti e i comunisti in ogni settore della vita pubblica. Il patto stabiliva inoltre una scala di competenze che prevedeva, in caso di mancato accordo in sede comunale, il rinvio della questione sulla quale si verificava il contrasto alla giunta centrale. Soltanto al centro quindi poteva accertarsi “un mancato raggiungimento di accordi per un determinato problema“. Questo disaccordo, peraltro, rendeva ai singoli partiti la loro libertà d’azione soltanto in relazione a quella specifica questione controversa. Il patto unitario rimaneva in vigore a tutti gli effetti, fino all’eventuale disdetta di una delle parti.” Paolo Emiliani nel suo volume Dieci anni perduti così commenta le conseguenze del nuovo patto: “In pratica, i comunisti hanno diritto di bloccare qualsiasi decisione che a loro non piaccia, deferendola alla giunta centrale (e intanto passano mesi per la risposta quando viene). La proposta di federazione fra i due partiti avanzata dai comunisti al loro V congresso era stata pressoché unanimemente respinta al congresso socialista di Firenze, ma queste disposizioni del nuovo patto la realizzavano nella sostanza esattamente secondo la linea organizzativa in quell’occasione magnificata da Longo”. Nella situazione che viene a crearsi con il nuovo patto si inserisce l’iniziativa di Lelio Basso, il quale subito dopo il congresso di Firenze ha posto mano alla formazione di un apparato di tecnici, professionisti della politica, di quadri sperimentati che aderiscono alla “Iinea leninista” da lui caldeggiata fin dalla Resistenza. Basso, posto dinanzi all’esito del congresso di Firenze, che ha visto la “sinistra” in minoranza, ha realisticamente modificato la sua tattica nella lotta interna di partito. Non ha più insistito nella richiesta che venga accettato dal partito quel complesso di regole di organizzazione rispondente al modello leninista del partito operaio guidato da un monolitico apparato di quadri; ma, favorito dalla sua posizione nella direzione del partito, si e dato a organizzare questo apparato con l’appoggio dei comunisti, che in Basso vedono la pedina migliore per sconfiggere gli autonomisti. La corrente apertamente “fusionista” di Compiti Nuovi viene praticamente disciolta e Basso diviene il leader effettivo della “sinistra”. Egli, dunque, non pretende più che il partito adotti la struttura organizzativa da lui suggerita. Costituisce di sua iniziativa l’apparato che di tale struttura deve essere il fulcro, per impossessarsi del potere del partito e poi plasmare la struttura secondo il modello leninista che egli propone. In questo tentativo, che avrà un esito positivo per Basso, egli trova l’appoggio incondizionato del PCI, ed è favorito soprattutto dalla situazione che si e creata con l’entrata in vigore del nuovo patto unitario. Infatti, come osserva sempre l’Emiliani, “nel PSIUP come in tutti i partiti del dopoguerra, abbondavano gli elementi opportunisti e gli avventurieri, portativi dal crollo del fascismo a cercarvi protezione e fortuna; erano minoranza, a causa dell’atmosfera italiana del ventennio, i compagni di matura formazione socialista. Numerosi erano poi gli elementi del ceto medio in cerca di occupazione, bisognosi di mezzi immediati per vivere, anche modestamente, nel marasma del dopoguerra, e inclini perciò a servire i più potenti, specialmente quando vi era la garantita copertura di una popolarità proletaria che trasformava il servilismo in dedizione alla causa. Con la legale partecipazione alla vita del partito non fu perciò difficile ai comunisti estendere il loro apparato, ottenere la composizione di giunte malleabili, provocare l’allontanamento dalle cariche dei loro avversari, far eleggere con ogni mezzo delegati favorevoli alla loro tesi: dominato il gruppo dirigente, messo qualche comunista nella sala, le manovre congressuali diventano assai facili”. La scissione del ’47. La formazione del PSI Tra il XXIV e il XXV congresso, tenutosi a Roma nel gennaio del ’47, maturarono gli eventi che portarono alla crisi. Al congresso di Roma le correnti autonomiste di Iniziativa Socialista e di Critica Sociale non parteciparono ai lavori congressuali. Esse furono però presenti nella lotta a livello provinciale. I dati forniti dal quotidiano del partito sono ancora più incompleti e contraddittori di quelli del precedente congresso, per cui non è possibile stabilire quali fossero le forze delle correnti che dovevano operare la secessione. I voti complessivi congressuali furono 610.876, circa 250.000 in meno rispetto al precedente congresso. Si dovrebbe presumere che la forza dei secessionisti si aggirasse intorno a questa cifra che è di circa 100. 000 unità. Inferiore alla cifra dei voti riportati dalle correnti autonomiste nel loro insieme al congresso di Firenze. Ma questa valutazione è largamente approssimativa e non verificabile. Probabilmente gli iscritti al PSIUP, a voler prestar fede alle affermazioni della relazione Morandi …

Tocca a noi fermare il fascistellum

Il rischio è che ci sia assuefazione alla legge elettorale approvata con ben 8 voti di fiducia per impedire che i parlamentari si prendessero la libertà di avere un’opinione, presentando e votando emendamenti. Questa forzatura è servita a creare un fatto compiuto e nel nostro paese questo spesso vuol dire assuefazione, tanto ormai… Invece no, occorre contrastare la politica del fatto compiuto e dell’assuefazione facile. Questa legge elettorale probabilmente sarà quella con cui si voterà nelle prossime elezioni, se la Corte non accetterà prima del voto i rilievi di costituzionalità che sono stati presentati in diversi tribunali dagli avvocati del Cdc. Dopo il voto le elettrici e gli elettori potranno far sentire di nuovo la loro voce sulla legge elettorale. Solo un’iniziativa forte dei cittadini potrà sbloccare la situazione allucinante che questa legge provocherà. Resta in parte un mistero perchè il Pd abbia voluto questa legge fino a spingere il governo a mettere voti di fiducia a ripetizione sia alla Camera che al Senato per imporne l’approvazione. Certo si intuisce che è una legge elettorale studiata per fermare i 5 stelle e stroncare sul nascere la sinistra che ha rotto con il Pd a trazione renziana. Al di fuori di questo è evidente che al Pd questa legge non porterà benefici, anche moltiplicando le liste civetta, perchè il problema del Pd non è aumentare i richiami ma le elettrici e gli elettori che non perdonano scelte politiche sbagliate, a partire dal lavoro, e una condizione sociale reale che contraddice l’ottimismo propagandistico di facciata sulla situazione economica e sociale del nostro paese. Invece il centro destra avrà benefici importanti, al punto che anzichè un nuovo patto del Nazareno potrebbe ricomparire in grande spolvero un nuovo palazzo Grazioli. Comunque sia è evidente che la maggioranza dei partiti che occuperanno le Camere con i loro parlamentari nominati non rimetteranno in discussione questa legge elettorale che anziché far scegliere i parlamentari dai cittadini li impone dall’alto. E’ già accaduto con il “porcellum” voluto dal centro destra e che il centro sinistra non ha cambiato quando avrebbe potuto e dovuto, perchè la tentazione di decidere chi verrà eletto in parlamento per i capi partito è troppo forte, inarrestabile. Infatti ci siamo tenuti il porcellum per tre legislature, che sono state le peggiori degli ultimi decenni. La questione di chi elegge i rappresentanti non è un’astratta questione di principio ma un concretissimo problema costituzionale. La nostra è una repubblica parlamentare, così afferma con forza la nostra Costituzione. Se il parlamento viene ridotto a mero votificio, per di più con l’uso spregiudicato del ricatto del voto di fiducia e dei decreti legge – quasi sempre approvati con il voto di fiducia – viene intaccato un caposaldo del nostro assetto costituzionale: il ruolo fondamentale del parlamento. Da questa atrofizzazione del ruolo del parlamento è inevitabile che si arrivi ad un accentramento del potere in poche mani, ad una democrazia sbrigativa e decisionista. In sostanza si finirebbe con lo scivolare, prima o poi, verso qualche forma di presidenzialismo, come del resto era già implicito nelle modifiche costituzionali (da valutare sempre insieme all’Italicum) di Renzi, per fortuna bocciate il 4 dicembre 2016. La questione in gioco è la qualità della nostra democrazia, tormentata da attacchi interni ed esterni che non a caso puntano a fare i conti definitivamente con il ruolo fondamentale del parlamento per scivolare verso oligarchie politiche e tecnocrazie nominate ogni 5 anni. Una democrazia rinsecchita. Può essere che il colpo di mano dei voti di fiducia a raffica impedisca di votare tra pochi mesi con una legge elettorale degna di questo nome, ma non deve accadere che ci teniamo questo infernale meccanismo elettorale per sempre. Non sarà dal parlamento che verranno modifiche positive. Ancora una volta sarà solo dalla volontà attiva dei cittadini, come è stato il 4 dicembre 2016, che potrà venire la spallata per cambiare, completando idealmente il percorso iniziato con il referendum costituzionale. E’ opportuno provare a smuovere la Corte costituzionale con le iniziative degli avvocati. Ci sono punti su cui è possibile ottenere risposte, ad esempio sul voto per i candidati nei collegi uninominali della Camera e del Senato che portano con sé l’elezione conseguente di altri parlamentari e potrebbero perfino aiutare l’elezione di candidati in aree molto lontane. La costrizione creata dal voto unico crea un serio problema di libertà del voto dell’elettore. Tuttavia anche se le istanze degli avvocati trovassero ascolto presso la Corte, come è auspicabile, ci sono aspetti dewlla legge elettorale che per questa via difficilmente verrebbero risolti perchè richiedono scelte politiche più impegnative. Quindi è inevitabile che per modificare la legge elettorale si arrivi a porsi seriamente il problema di usare lo strumento del referendum abrogativo in modo tale da arrivare per via partecipata a supplire a quanto è prevedibile il parlamento non farà. I cittadini debbono rialzare la testa e, come nei momenti decisivi della nostra storia, debbono porsi il problema di modificare la legge elettorale per riportare i parlamentari ad un rapporto diretto con gli elettori e non ad una sorta di carriera per cooptazione dall’alto. Sono possibili obiezioni ma ci sono altre soluzioni ? Non ce ne sono. Se non vogliamo tenerci questa schifezza per chissà quanto tempo occorre spiegare, mobilitare, arrivare ad una prova di forza referendaria che obblighi a cambiare, piaccia o non piaccia. La qualità del parlamento è decisiva per le scelte concrete che ci aspettano. Le oligarchie hanno logiche contrastanti con i problemi della maggioranza delle persone ed è da queste che deve venire la spinta a cambiare. Fateci eleggere i nostri rappresentanti, questa era la sintesi della nostra critica alla legge elettorale e resta la parola d’ordine fondamentale. Senza trascurare che questa legge elettorale potrebbe rivelarsi una pentola diabolica ma senza coperchio e quindi la prossima legislatura potrebbe non avere vita lunga e un’iniziativa referendaria che inizia il suo percorso dopo il voto potrebbe rivelarsi provvidenziale. E’ aperta una grande questione democratica, la risposta deve essere una risposta di massa per imporre il cambiamento di questa legge elettorale di …

CONTRO LA DISUGUAGLIANZA NON BASTA LA LEVA FISCALE

di Laura Pennacchi Economia. La prima grande questione è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva ma quella della produzione Il dilagare dei populismi e il diffondersi del disorientamento non si contrastano con la mimetizzazione che accentua la spoliticizzazione – la ripetizione ossessiva del mantra «meno tasse (per i ricchi)» o il ricorso ad un argomento tipico dell’antipolitica quale la polemica sui vitalizi -, ma con il rilancio della dimensione programmatica del «progetto». Ce n’è bisogno anche per problematiche che, dopo un lungo oblio, hanno riconquistato le luci della ribalta, come la diseguaglianza. Se non vogliamo, infatti, che su di esse si dia vita ad una sorta di nuova retorica inconcludente, dobbiamo andare più a fondo. LA PRIMA GRANDE questione aperta è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva – su cui invece si concentra, con la fondamentale eccezione di Atkinson, la letteratura prevalente in materia, compreso Piketty –, ma primariamente la sfera produttiva, l’allocazione, le strutture in cui si articolano i vari modelli di sviluppo, ponendo in evidenza la profonda connessione tra i trend della diseguaglianza e le dinamiche della finanziarizzazione e del deterioramento dell’economia reale esplose con la crisi del 2007/2008. Le recenti analisi di Lazonick mettono in luce da una parte come l’odierno incremento delle diseguaglianze sia dovuto all’incredibile capacità dello 0,1% al top della distribuzione del reddito di appropriarsi delle risorse generate e di tutti i guadagni di produttività – una capacità «estrattiva» predatoria, acutizzante il vecchio potere monopolistico della rendita, consentita non da autentici contributi propri ma dalla posizione che si occupa nel processo di produzione -, dall’altra come esso sia veicolato da specifici meccanismi connessi alle nuove tecnologie. Il dispositivo degli stock buybacks – con cui le imprese vendono e ricomprano freneticamente le loro azioni per farne salire il valore, così da remunerare al rialzo i propri manager – e gli incentivi non salariali ai manager, come la remunerazione attraverso l’erogazione di stock options – che alimentano lo shortermismo e deprimono la spinta ad investire in capacità produttiva reale e in innovazione – sono tutti interni al processo di finanziarizzazione neoliberistica in atto da molti anni, a sua volta strettamente legato all’avanzare del ciclo innovativo odierno. D’ALTRO CANTO, anche dal lato redistributivo l’analisi viene molto complicandosi, dando più concretezza al dibattito sulla scomparsa del ceto medio (the disappearing middle class): Richard Reeves, per esempio, insiste che il problema non è solo l’1% più ricco (che certo dei 7 mila miliardi dollari di ricchezza nazionale creata negli Usa dal 1979 al 2013 è riuscito ad accaparrarsene ben 1300), ma anche la upper middle class (il 19% che è riuscito ad accaparrarsene 2.700 miliardi, mentre al rimanente 80% sono andati solo 3.000 miliardi), facendo sì che la vera frattura sociale, perpetuata attraverso una drammatica confisca del sistema educativo dalle scuole elementari alle Università, corra lungo quel confine di reddito (pari a 112 mila dollari l’anno), al di sotto del quale stanno la middle class e la bottom class. SONO QUESTE, peraltro, le ragioni che inducono a ritenere inefficaci per contrastare i meccanismi innovativi profondi alla base dell’acuirsi odierno delle diseguaglianze, così come delle tensioni occupazionali e dell’elevata disoccupazione, semplici misure di trasferimento monetario – quale la riduzione delle tasse, ma anche il reddito di cittadinanza – e a considerare preferibili misure di taglio più strutturale, quale la proposta di Lazonick di vietare gli stock buybacks e di rivedere radicalmente la struttura degli incentivi ai manager (tra l’altro non consentendo la vendita a breve delle stock options). La stessa Bce da una parte riconosce esplicitamente che i programmi di quantitative easing (che iniettano massicciamente liquidità mediante l’acquisto di titoli dei debiti pubblici generante guadagni di capitale per i suoi possessori) hanno accresciuto la ricchezza dei già ricchi producendo effetti redistributivi perversi non voluti, dall’altra ancora alza il velo sull’inadeguatezza dei salari e ne denunzia la mancanza di corrispondenza con i fondamentali dell’economia. LA SECONDA GRANDE questione aperta, se vogliamo andare più in profondità nel trattare la problematica «eguaglianza/diseguaglianza», è quella della democrazia economica, prendendo atto che le dinamiche di finanziarizzazione sono strettamente intrecciate con lo shift dell’ottica imprenditoriale verso profitti di breve periodo e verso l’enfasi sulla teoria della shareholder value e lo schortermismo, trasformando il ruolo del manager da attore contemperante i vari interessi in gioco in agente di se stesso e del capitale finanziario. SIGNIFICATIVAMENTE tra i lavori prodotti dalla Commission on Economic Justice istituita dallo Ippr londinese nel 2016 (in esplicito rinvio/distacco dalla Commission on Social Justice creata dal Labour di Tony Blair nel 1994) ve ne sono alcuni che mettono in evidenza la correlazione tra il primato, nella corporate governance inglese, degli interessi degli azionisti – all’origine dell’innalzamento della quota dei profitti distribuiti e non reinvestiti – e il declino degli investimenti, argomentando come tale modello di corporate governance (basato sull’esclusività della rappresentanza degli azionisti e privo della partecipazione degli altri stakeholder, in particolare dei lavoratori) sia una delle ragioni delle debolezze e delle fragilità dell’economia britannica (specie per quanto riguarda la stagnazione della produttività). In questo ambito non si dovrebbe dimenticare che Roosevelt, iniziando la sua straordinaria opera riformatrice dalla denunzia delle molte cose che andavano male nell’economia americana (la distribuzione del reddito, la bilancia dei pagamenti, la struttura bancaria, ecc.), non mancò di sottolineare la «cattiva struttura societaria», rea di aver dato vita, con le parole di John Galbraith, a «una specie di alta marea del furto societario». Così come dovrebbero essere recuperate le ispirazioni «non proprietarie» del piano Meidner del 1975-76 (che aveva al proprio cuore la preoccupazione per la caduta dell’interesse dei capitalisti agli investimenti, quando ancora sarebbe stato possibile uscire dalla crisi innescata dal primo shock petrolifero in modo diverso dalla sola compressione dei salari). PER TUTTE QUESTE ragioni Atkinson collega all’idea di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito» agendo come employer …

Bruno Trentin: «Vorrei poter morire socialista»

Iginio Ariemma , Il socialismo eretico di Bruno Trentin Bruno Trentin – in una intervista rilasciata a Bruno Ugolini, (L’Unità 6 giugno 2006), poco più di due mesi prima di essere colpito dal trauma che lo ha portato alla morte un anno dopo, disse:” …intendo partecipare a questo processo unitario e nello stesso tempo morire socialista”. Il riferimento è al Partito democratico di cui allora si discuteva la costituzione, ritenuta necessaria e urgente dopo l’esito positivo delle elezioni che portarono al secondo governo Prodi. Bruno in questa intervista si pronuncia per la forma federativa del nuovo partito, al fine di garantire il pluralismo degli orientamenti e la più ampia partecipazione. E con saggezza aggiunge:” E’ un tragitto che ha bisogno di anni di esperienze comuni, al basso come in alto, per diventare un fattore di contaminazione tra le culture diverse”. La nascita del PD, invece, è stata innanzitutto il risultato di un  accordo  di vertice tra i due partiti fondatori o meglio tra i due gruppi dirigenti; un accordo per giunta frettoloso che non è riuscito a dare una chiara identità al partito né regole per davvero condivise. Né diede coesione e solidità al governo Prodi. Ma che cosa Bruno Trentin intendeva dicendo che voleva “morire socialista”? Che cosa intendeva per socialismo? Quale socialismo aveva in testa? Nell’ultima sua opera “La libertà viene  prima”, pubblicato nel 2005, si trova la risposta. Ad un certo punto egli si chiede: “Che cosa resta del socialismo” Non che cosa è il socialismo, ma che cosa resta, quasi a rimarcare i ruderi, le macerie lasciate dall’esperienza comunista e del socialismo reale che ha attraversato il Novecento. E così risponde:” Certo il socialismo non è più un modello di società compiuto e riconosciuto, al quale tendere con l’azione politica quotidiana. Esso può essere concepito soltanto come una ricerca ininterrotta sulla liberazione della persona e sulla sua capacità di autorealizzazione, introducendo nella società concreta degli elementi di socialismo – le pari opportunità, il welfare della comunità, il controllo sulla organizzazione del lavoro, la diffusione della conoscenza come strumento di libertà – superando di volta in volta le contraddizioni e i fallimenti del capitalismo e dell’economia del mercato, facendo della persona e non solo delle classi il perno di una convivenza civile”. Sicuramente è una concezione originale del socialismo. Colpisce innanzitutto  la visione graduale, processuale, riformista se si vuole,  della via al socialismo, Non parla di superamento del capitalismo tout court, ma di superamento dei “fallimenti “ e delle “contraddizioni” del capitalismo e dell’economia di mercato quasi a rimarcare da un lato la sua contrarietà alle teorie sui crolli e sulla crisi catastrofica del capitalismo, dall’altro lato il processo riformatore che caratterizza la costruzione di una nuova società. Il socialismo non è un sistema predeterminato, codificato, ma un processo, un divenire, addirittura una “ricerca”. Nello stesso tempo però il socialismo non è il sole dell’avvenire, è attuale e va edificato immediatamente – dal basso, dalle fondamenta – attraverso gli elementi di socialismo, intesi soprattutto come elementi di coscienza civile e sociale di massa. Emerge anche così il suo antideterminismo economico e sociale, in controtendenza a molta cultura comunista. Il socialismo è scelta di libertà e di democrazia, prima che una necessità. Del resto fin dagli anni Cinquanta, specialmente dopo l’invasione sovietica in Ungheria  del  1956,  che condannò, insieme a Di Vittorio e alla segreteria della CGIL , egli si considerava- curioso ossimoro – riformista- rivoluzionario. Così come Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti, di entrambi amico e molto vicino politicamente. La loro ricerca aveva un obiettivo centrale: non spostare a dopo la conquista del potere la edificazione del nuovo modello di società, ma avviarla subito. Di qui la critica , anche aspra, che sarà continua in Bruno anche dopo, di ogni strategia di transizione al vertice del potere statale che diviene un alibi persino per il trasformismo. Di qui anche la ricerca di quelle riforme , le famose riforme di struttura. nel quadro di una programmazione democratica, che fossero in grado non soltanto di sradicare le basi del fascismo sempre pericoloso, ma di intaccare il potere capitalistico e di introdurre nuove forme di democrazia diretta, in particolare operaia, in collegamento con la democrazia rappresentativa e parlamentare, A questo proposito è illuminante l’opuscolo di Antonio Giolitti significativamente intitolato “Riforme e rivoluzione” pubblicato nell’aprile 1957. Giolitti prima di uscire dal PCI preannunciò a Trentin la sua decisione con una lettera che purtroppo non abbiamo ritrovato. Bruno gli rispose in modo accorato e quasi disperato – questa lettera è stata rinvenuta nell’archivio giolittiano- in cui chiede di ripensarci, venendo a mancare il punto di riferimento principale all’interno del PCI di coloro che intendevano rinnovare il partito. Io credo che l’Ungheria del 1956 sia uno spartiacque della sua concezione socialista. E non soltanto sul piano della libertà e della democrazia. Ma su quello del potere politico. Prima la conquista dello Stato era, anche per lui, comunque, un “acceleratore” per la liberazione delle classi popolari e umana, dopo non più. Nella definizione citata gli elementi di socialismo, per lui fondamentali, vengono elencati sia pure tra parentesi. Le pari opportunità, che per Bruno è il sistema dei diritti umani fondamentali e il modo concreto con cui si manifesta la solidarietà. I diritti umani sono i veicoli per l’esercizio concreto ed effettivo della libertà. Infatti Amartia Sen li chiama libertà al plurale. Ricordo bene la sua furente irritazione, quando all’interno del PDS, si cercò di contrapporre li diritti alla modernizzazione, ritenendo alcuni di essi superati e ostacoli alla modernità e al cambiamento. Per Bruno i diritti umani erano il “retaggio duraturo del progresso”, “le sole grandi e durature conquiste del movimento operaio nella sua lotta per l’uguaglianza”. E considerava i diritti sociali – il lavoro, la sicurezza, la salute, l’istruzione ecc-non inferiori, ma diritti di cittadinanza alla pari dei diritti civili e politici, perché, ripeto, base delle pari opportunità e dell’eguaglianza. In secondo luogo il welfare della comunità, che è diverso dal welfare statale tradizionale in quanto determinante è la partecipazione democratica e solidale. …

LA PRIMA CONCEZIONE MORANDIANA DELL’ORGANIZZAZIONE DEL PARTITO

La concezione del partito di Morandi, al XXIV congresso, espressa nella sua relazione organizzativa, era una concezione che rifletteva la condizione di espansione del partito, pur nell’ambito della visione politica “unitaria” alla quale egli aderiva fin da allora. Inoltre, essa era il frutto di una organica visione dei problemi di struttura del movimento operaio nel suo insieme, che, per Morandi, trovava la sua più proficua maturazione proprio nel periodo che va dalla Liberazione alle vicende della scissione e del Fronte. In questa visione la stessa politica di unità tra PCI e PSI propugnata da Morandi acquistava un significato del tutto originale rispetto alla concezione che di questa politica avevano gli altri esponenti della “sinistra” socialista. Morandi considerava, nel 1946, “la distinzione dei due partiti come conseguenza di una situazione che non può essere ignorata ma che tende ad essere superata dalla esperienza obiettiva del movimento operaio”. Egli aggiungeva che “la non sempre esatta comprensione del suo carattere obiettivo, che oggi interessa alle radici ogni organizzazione rivoluzionaria della classe operaia, ha dato luogo ad una concezione astratta ed illusoria del problema della riunificazione organica, che e stata intesa come operazione da effettuare con la buona volontà dei partiti e mediante interventi dall’alto tendenti a ridurre il processo a problemi organizzativi”. Morandi, cioè, non vedeva il problema della unificazione organica come il prodotto di un accordo ai vertici dei partiti, ma come il risultato del processo di rinnovamento dal basso delle strutture del movimento di classe, e, quindi, come il risultato della esperienza obiettiva del movimento operaio nella lotta per la costruzione dello Stato democratico. Il compito che ne doveva derivare per il PSI era in conseguenza quello di escludere “l’equivoco riformistico di un Partito socialista che si lasci docilmente imprigionare nelle maglie del metodo parlamentare“, per cui l’azione politica del partito ancorché presente ed operosa alla costituente ed al governo deve esercitarsi in una sfera assai più ampia evitando che “il partito cada in una sterile politica di mediazione parlamentare fra gli altri due grandi partiti di massa”. A tal fine “occorre mobilitare la parte cosciente della base affinché gli interessi obiettivi della classe lavoratrice abbiano piena ed energica espressione… solo in tal modo si riuscirà a conquistare l’adesione di strati sempre vasti di lavoratori aprendo nuove possibilità all’azione democratica ed aumentando l’efficienza rivoluzionaria del partito“. Nella impostazione data da Morandi alla relazione al congresso del PSIUP del 1946, affiorano due fondamentali questioni: la prima è quella che nasce dalla intuizione che l’evoluzione della realtà dei partiti rispetto al prefascismo non è circoscrivibile in termini quantitativi, ma che essa muta la natura stessa della organizzazione partitica fino a maturarne il ruolo e le funzioni; la seconda questione è che in conseguenza della trasformazione del partito in organizzazione democratica di massa esso assume compiti che vanno ben oltre i limiti dell’azione parlamentare. E tuttavia il Partito socialista, rispetto agli altri partiti, ha un antecedente storico nella vita della democrazia prefascista perché già in quella fase esso s’era organizzato come partito di massa in funzione di una lotta popolare all’interno dello Stato borghese. Dove sorgeva il problema destinato ad aprire una contraddizione nella vita organizzativa e politica del Partito socialista? Affermava Morandi: “E se il nostro partito si giova al riguardo di una esperienza di lotta che gli altri non hanno”, con ciò richiamandosi dunque alla esperienza prefascista,“non per questo trova nella attuale situazione meno sostanziali mutamenti costituiti innanzi tutto dal fatto che le organizzazioni sindacali sono venute sottraendosi, in ragione del loro sviluppo, ad una diretta e precisa influenza di partito“. Il Partito socialista dunque nel momento in cui si ricostituiva dopo la Liberazione come organizzazione politica di massa veniva a trovarsi in una situazione del tutto nuova, rispetto alla sua precedente esperienza storica, perché con la ricostruzione della organizzazione sindacale unitaria (Patto di Roma) veniva a essere privato della direzione degli strumenti di azione sindacale che della politica di massa costituisce il settore più importante. Questa contraddizione non poteva non essere avvertita proprio da Morandi che, avendo auspicato e teorizzato l’azione di massa come punto centrale dell’iniziativa socialista, si trovava ad affrontare naturalmente il problema degli strumenti con cui svolgere quest’azione. L’azione di massa, l’esistenza di strutture che permettessero una iniziativa socialista nel mondo del lavoro sono, del resto, la condizione ineliminabile per il consolidamento e lo sviluppo della stessa organizzazione del partito. Lo intuiva Morandi quando affermava la necessità di una organizzazione capillare, complessa e articolata. Traspare già la tendenza di Morandi a risolvere la questione di fondo su un piano esclusivamente di formule organizzative, eludendo il problema politico e di struttura che esso implicava. Questa posizione morandiana, che prelude alla evoluzione successiva del suo pensiero politico ci viene confermata dal ricorso ad una impostazione empirica ed esclusiva delle scelte di fondo che è chiaramente espressa nella successiva affermazione che la soluzione dei problemi organizzativi non si cava però che dalla esperienza. In questa convinzione la direzione ha permesso e favorito l’esperimentazione che si è fatta in questo campo, senza voler anticipare formule rigide, né forzare un processo naturale di sviluppo, sul quale, se dobbiamo vigilare, è con la sola preoccupazione di evitare fenomeni di congestione e di involuzione antidemocratica. Due sono dunque gli obbiettivi dell’impostazione organizzativa morandiana del ’46: la salvaguardia ed il consolidamento della democrazia interna di partito e la ricerca di forme organizzative spontanee che rappresentino un adeguamento della struttura del partito alla realtà della lotta per l’edificazione di uno Stato democratico, di una “democrazia” che sappia “profondamente rinnovare il paese dandogli nuovi istituti e nuove forme rappresentative che spezzino la fase trasformista e conformistica del parlamento”. Allo sviluppo spontaneo di queste nuove forme organizzative, Morandi affidava empiricamente la soluzione del problema e della contraddizione che nasceva dalla ricostituzione di un partito di massa e dalla sua impossibilità di esercitare una reale iniziativa autonoma di classe qualora esso non fosse stato in grado di organizzare strumenti di azione a livello della lotta economica e sociale del movimento proletario. L’organizzazione dei NAS Come abbiamo visto al congresso …

Concorsi: la rassegna settimanale dei bandi pubblicati dagli Enti Locali

Come di consueto la rassegna settimanale dei concorsi pubblici selezionati dalla Gazzetta Ufficiale. Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale – Concorsi ed Esami n. 88 del 17.11.2017: COMUNE DI ARZIGNANO CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di collaboratore amministrativo categoria B3 a tempo indeterminato e parziale a venticinque ore settimanali riservato ai soggetti disabili ex articolo 1 della legge n. 68/1999. (17E08694).   COMUNE DI AVEZZANO CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura a tempo pieno e indeterminato di due posti di specialista area contabile categoria D/D1, con riserva del 50% a favore degli interni. (17E08640).   COMUNE DI CINIGIANO CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico per la copertura di due posti di collaboratore tecnico e conduttore di macchine operatrici complesse – categoria B3, percorso B3/B7 – con contratti a tempo indeterminato e part time per ventisette ore la settimana. (17E08691).   COMUNE DI FELETTO CONCORSO (scad. 17 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, ad un posto di conducente macchine operatrici complesse, a tempo indeterminato e parziale – diciotto ore – categoria giur./econ. B3. (17E08701).   COMUNE DI MARINO CONCORSO (scad. 12 dicembre 2017) Selezione pubblica, per esami, per la copertura a tempo pieno ed indeterminato di un posto di istruttore direttivo amministrativo/contabile – categoria D1. (17E08641).   COMUNE DI NARNI CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Selezione pubblica per l’assunzione a tempo determinato di un dirigente presso l’A.D. lavori pubblici per anni tre, con opzione di proroga fino alla scadenza del mandato del Sindaco, ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del T.U.E.L., mediante comparazione dei curricula ed eventuale colloquio. (17E08705).   COMUNE DI POZZUOLI CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli, per la formazione della graduatoria finalizzata all’assegnazione di venti autorizzazioni per servizio di noleggio con conducente, con autovettura fino a nove posti. (17E08672).   COMUNE DI SAN GIUSTINO CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione a tempo indeterminato di un operaio altamente specializzato impiantistica idraulica – caldaista categoria B3 contratto collettivo nazionale di lavoro 31 marzo 1999 previo esperimento articolo 30, comma 2-bis del decreto legislativo 165/2001 – riserva militari congedati articoli 1014 e 678 del decreto legislativo 66/2010 (C.O.M.) e successive modifiche ed integrazioni. (17E08689).   COMUNE DI SAN PANCRAZIO SALENTINO CONCORSO Concorsi pubblici, per titoli ed esami, per la copertura di complessivi tre posti part-time, varie qualifiche, categoria giuridica C, due con riserva a favore dei militari volontari delle Forze armate. (17E08720).   COMUNE DI SANTA FIORA CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico, per la copertura a tempo pieno ed indeterminato, di un posto di istruttore direttivo amministrativo – categoria giuridica D1, per il settore dei servizi tecnici. (17E08713).   COMUNE DI SESTO SAN GIOVANNI CONCORSO (scad. 23 novembre 2017) Selezione pubblica per la copertura a tempo determinato ai sensi dell’articolo 110, comma 1 del decreto legislativo n. 267/2000 del posto di alta specializzazione con funzioni di ragioniere capo – responsabile del servizio contabilita’ e bilancio – entrate e assicurazioni – presso il settore economico finanziario e tributario – categoria D, posizione giuridica D3. (17E08840).   COMUNE DI SONDRIO CONCORSO (scad. 3 gennaio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per l’assunzione di un assistente sociale a tempo indeterminato e pieno – categoria contrattuale D, posizione economica D1. (17E08695).   COMUNE DI STRESA CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per assunzione di un istruttore tecnico – profilo professionale geometra categoria C1 a tempo indeterminato e pieno, addetto all’area tecnica – servizio lavori pubblici (18/36 ore settimanali) – e gestione risorse patrimoniali (18/36 ore settimanali). (17E08690).   COMUNE DI TURATE CONCORSO Bando, per soli esami, per la costituzione di una graduatoria finalizzata all’eventuale copertura di un posto di istruttore amministrativo categoria C a tempo indeterminato – ai sensi del decreto legislativo n. 165/2001 e del regolamento di organizzazione. (17E08685).   COMUNE DI VICENZA CONCORSO (scad. 20 novembre 2017) Selezione pubblica, per soli titoli, per la formazione di una graduatoria per l’assunzione a tempo determinato, pieno o part-time, di personale insegnante nelle scuole dell’infanzia comunali – categoria giuridica C dell’ordinamento professionale, valevole per gli anni scolastici 2017/2018 – 2018/2019. (17E08703).   COMUNE DI ZUMPANO CONCORSO (scad. 18 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, finalizzato alla copertura di un posto di istruttore direttivo tecnico a tempo indeterminato e part-time al 30% – categoria D1. (17E08642). Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale – Concorsi ed Esami n. 87 del 14.11.2017: AMBITO TERRITORIALE DI MANFREDONIA MONTE SANT’ANGELO MATTINATA ZAPPONETA ASL FG – DISTRETTO DI MANFREDONIA CONCORSO (scad. 4 dicembre 2017) Selezione pubblica, per titoli e colloquio, per l’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato ed a tempo pieno di due unita’ lavorative – categoria D/Trat.Tab. D1 rivestenti la figura professionale di istruttore direttivo da destinare all’Ufficio di Piano. (17E08549).   COMUNE DI ALTO RENO TERME CONCORSO (scad. 14 dicembre 2017) Selezione pubblica, per esami, per l’assunzione a tempo pieno e indeterminato di due posti di istruttore amministrativo contabile, categoria C. (17E08586).   COMUNE DI ARCORE CONCORSO (scad. 14 dicembre 2017) Selezione pubblica, per esami, per la copertura a tempo indeterminato e pieno di un agente di polizia locale categoria C1. (17E08498).   COMUNE DI ARONA CONCORSO (scad. 14 dicembre 2017) Selezione pubblica, per soli esami, per l’assunzione a tempo pieno ed indeterminato di un istruttore amministrativo contabile – categoria C. (17E08497).   COMUNE DI CASTELLUCCIO VALMAGGIORE CONCORSO (scad. 14 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura, con contratto a tempo indeterminato ed a tempo parziale al 50% di un posto di agente di polizia municipale, categoria C1. (17E08542).   COMUNE DI CERRO VERONESE CONCORSO (scad. 14 dicembre 2017) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di istruttore tecnico, categoria C1 (17E08551).   COMUNE DI DIAMANTE CONCORSO (scad. 14 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di tre unita’ di agente di polizia locale (categoria C1, posizione economica C1) a tempo indeterminato part-time 50%. (17E08536).   COMUNE DI DIAMANTE CONCORSO (scad. 14 dicembre 2017) Concorso pubblico, per titoli ed esami, …

LA POLEMICA SULLA STRUTTURA DEL PARTITO

Il Partito socialista era stato ricostruito sulla base di uno statuto provvisorio che ne sanciva il carattere di partito ideologico, modellato sul tipo di organizzazione politica del movimento socialista negli anni precedenti al fascismo. Il partito si presentava come un’organizzazione a carattere esclusivamente territoriale, con una struttura elementare: la sezione comunale; la federazione provinciale; la direzione del partito, alla quale si affiancava, come organo straordinario di deliberazione, il consiglio nazionale. Il carattere territoriale dell’organizzazione risultava ancor più accentuato dal fatto che lo statuto provvisorio poneva un esplicito divieto alla costituzione di più sezioni in un solo comune. Per i comuni superiori ai 100.000 abitanti, era prevista l’organizzazione di circoli di zona, controllati dalla sezione comunale, che restava sempre l’unica struttura organizzativa locale del partito. La sezione era diretta da un comitato esecutivo, nominato dall’assemblea, con un numero di membri che l’assemblea era libera di stabilire. La federazione provinciale veniva costituita nelle province nelle quali esistevano almeno tre sezioni comunali. Essa era retta da un comitato eletto dal congresso provinciale. La direzione del partito risultava composta da 15 membri, 14 dei quali eletti dal congresso nazionale, ed il quindicesimo membro di diritto, nella persona del rappresentante giovanile. La direzione nominava il direttore dell’”Avanti!”, che insieme con il segretario del partito faceva parte di diritto dell’esecutivo di 5 membri, designato dalla direzione. La Federazione giovanile socialista era strutturata sul modello del partito: sezioni giovanili costituite presso le sezioni comunali; federazioni giovanili provinciali costituite presso le federazioni provinciali del partito; federazione giovanile nazionale, rappresentata nella direzione da un suo membro. Dal punto di vista del potere decisionale, la struttura del PSIUP è caratterizzata da un forte grado di centralizzazione. Tutto il potere di decisione politica e organizzativa, a livello nazionale, è affidato alla direzione, un organismo ristretto che si è praticamente autoeletto ed è stato riconfermato dall’unica sessione del Consiglio nazionale, quella del luglio 1945. A livello locale le decisioni sono assunte dai comitati di federazione e di sezione. A differenza del Partito socialista organizzato nel periodo prefascista, il PSIUP presentava fin dalla sua ricostituzione un forte grado di centralizzazione del potere politico dagli organi esecutivi federali a livello provinciale; e dalla direzione sul piano nazionale. Questa struttura era in un certo senso obbligata, perché il partito usciva dalla lotta clandestina che imponeva l’accentramento delle decisioni nelle mani di pochi uomini responsabili, e perché all’indomani della Liberazione il partito accoglieva nelle sue fila un numero di militanti molto più ampio del suo gruppo dirigente, al quale incombeva pertanto la responsabilità di portare l’organizzazione socialista dalla fase clandestina alla fase di aperta vita politica, senza profondi turbamenti, e repentini cambiamenti di indirizzo politico. Il partito venne, pertanto, riorganizzato “dall’alto” né poteva essere altrimenti. Anzi si può dire che il gruppo dirigente mostrò addirittura un’eccessiva indulgenza nell’aprire le fila della organizzazione anche a persone il cui passato politico lasciava molto a desiderare, e che recava nella nuova milizia quelle caratteristiche negative di opportunismo, di cinismo morale, di conformismo che negli anni successivi finiranno per avere un peso, allora imprevedibile, sulla vita dell’organizzazione socialista. A noi sembra che la relazione degli amici di “Critica Sociale” rappresentasse abbastanza bene questo stato di cose, quando affermava: “Primo errore fu quello di accogliere nelle fila del partito molta gente priva non solo di preparazione dottrinale, ma di quel minimo di patrimonio di sentimenti e di idee, senza cui non è possibile una coscienza socialista. A parecchi di costoro, non tutti immuni da pecche, si affidarono anche posti di responsabilità. Si mantenne poi, e anzi si aggravò, il sistema che era stato necessario nella fase clandestina: che un piccolo gruppo di dirigenti tenesse in mano tutte le fila d’azione, e deliberasse gli atti che gli altri dovevano compiere. Tutta la vita del partito fu accentrata nelle mani di piccoli gruppi, che distribuirono, tutti o quasi, i posti di lavoro alle persone fedeli alle loro direttive, tenendo lontano i dissenzienti non solo dalle cariche del partito, ma anche dall’azione di propaganda”. Il panorama che ci presenta il PSIUP alla fine del 1945 è, pertanto, quello di un partito riorganizzato su base territoriale, la cui prima entità associativa è costituita dalla sezione comunale, ma già fortemente centralizzato nelle strutture nazionali e nelle strutture federali intermedie; con una base eterogenea, di scarsa preparazione politica, tra la quale i militanti più esperti della vita di partito sono coloro che hanno partecipato attivamente alla vita delle organizzazioni fasciste, accanto ai vecchi militanti di provata fede e onestà. Il gruppo dirigente che detiene il potere decisionale, politico e organizzativo, è un gruppo dirigente ristretto, che essendo di formazione ideologica marxista, avendo aderito al marxismo in epoca più recente, come i giovani provenienti dal GUF, imprime a tutto il partito un suggello ideologico rigoroso, senza che in realtà la maggior parte dei militanti e dei quadri abbiano nessuna formazione e preparazione ideologica, né marxista né di altro tipo. In un partito di questo genere le tesi di Basso acquistano una forza di suggestione e una facilità di attuazione che non avrebbero assunto in un partito diverso, o in una situazione storica e politica diversa da quella di quegli anni. Ciò che Basso propone è in realtà un tipo di partito, che sul modello dell’organizzazione comunista tende ad accentuare, invece che a eliminare, le tendenze negative già in atto nell’organizzazione del PSIUP. Egli prefigura un partito ancor più marcatamente ideologico, marxista, guidato da un apparato omogeneo composto di politici di professione, la cui stessa costituzione comporta un sempre maggiore accentramento del potere politico a livello nazionale e locale; un partito che mantiene la organizzazione territoriale tradizionale, ma smembrandola in forme di organizzazione capillare, che permettono un totale controllo ed orientamento della base da parte dell’apparato, e conferiscono all’azione del partito un maggior mordente di lotta rivoluzionaria. Un partito, insomma, che Basso ritiene lo strumento più efficace per mettere in grado la classe dirigente socialista di affrontare la prospettiva rivoluzionaria della conquista del potere, sia pure per via democratica, e in essa, nell’ambito dell’unità della classe e dei …

L’INCIDENZA DELLA POLITICA DEL “FRONTE”

Quello che è forse possibile presumere è che la secessione non provocò una crisi di grave portata nel partito. Al XXVI congresso, al teatro Astoria (Roma, dicembre ’47), i voti congressuali validi erano complessivamente 786.768. Perché il congresso precedente aveva stabilito il divieto delle frazioni permanenti del partito, i congressi provinciali non si svolsero su mozioni separate. In sede di congresso nazionale si ebbero due votazioni: una su una mozione che approvava l’iniziativa presa dal comitato centrale per la formazione del Fronte democratico popolare, che raccolse la quasi unanimità dei voti, mentre soltanto 4387 voti andavano a una mozione di “destra“, presentata da Lombardo e Russo. Una seconda votazione si ebbe, invece, sul problema della tattica elettorale che vide divisi i delegati fra un ordine del giorno favorevole alla presentazione di liste uniche di Fronte e un ordine del giorno propugnante la presentazione di liste socialiste autonome. Prevalse la posizione favorevole alle liste uniche, con 525.332 voti, contro 257.088 voti. Una ulteriore piccola secessione si ebbe ai primi del febbraio ’48, quando Lombardo abbandonò le fila del partito; tale secessione non poteva avere che un’incidenza marginale. Tra il XXVI e il XXVII congresso (Genova, luglio 1948) si collocò la sconfitta del Fronte popolare, le cui conseguenze negative ricaddero sui socialisti, i quali videro ridursi la loro rappresentanza a soli 42 deputati. Nel congresso di Genova, che si svolse di nuovo su votazioni per mozioni, il numero degli iscritti risultava sensibilmente diminuito, rispetto al numero degli iscritti al congresso precedente, essendo scesi da 786.768 voti a 531.031 voti. Le ipotesi che si possono formulare per spiegare le ragioni di un così sensibile calo della forza rappresentata sono due: la prima e che la presentazione di liste di Fronte con i comunisti abbia determinato una crisi organizzativa del partito in coincidenza con la sua crisi elettorale; la seconda ipotesi è che il numero degli iscritti presenti nel congresso dell’Astoria, prima delle elezioni, fosse un dato fittizio, non verificabile in quanto il congresso non si era svolto su mozioni di corrente, per il quale quindi non era stato possibile un confronto reale degli iscritti con il congresso in cui era avvenuta la scissione. Secondo questa ipotesi bisognerebbe giungere al, la conclusione che la secessione del ’47 avesse determinato una forte crisi organizzativa del partito, non manifesta nei dati forniti prima dal segretario del partito e poi in sede di votazione nel XXVI congresso. È difficile accettare un’ipotesi piuttosto che un’altra: in quanto la secessione, come abbiamo visto, non aveva trascinato con sé tutti gli aderenti alla corrente autonomista, parte dei quali sarebbero rimasti fedeli al partito anche negli anni a venire, e parte invece era destinata ad abbandonare il partito negli anni ’48-’49. Per questa ragione ci sembra più probabile che la crisi organizzativa si fosse verificata dopo l’approvazione della tattica del Fronte unito con i comunisti, senza palesarsi in forme clamorose di secessione, ma con l’esodo silenzioso dei militanti. Tale esodo, infatti, sembra possibile che sia continuato anche dopo il congresso del 1948; in quanto al congresso successivo di Firenze, maggio 1949, prima ancora che si verificasse l’ultima scissione del partito, capeggiata da Romita, i voti validi congressuali erano scesi ancora, raggiungendo il numero di 430.258. DOPO LA SCONFITTA DEL FRONTE Al congresso di Genova del ’48 prevalse la corrente autonomista di Riscossa Socialista guidata da Jacometti e Lombardi, che raccolse la maggioranza relativa con 227.609 voti (pari al 42%), sulla mozione di sinistra, che ebbe 161.556 voti (pari al 31,5%), e sulla mozione di destra Autonomia Socialista che raccolse 141.866 voti (pari al 26,5%). Nel congresso di Firenze del 1949 la sinistra otteneva la maggioranza con 220.600 voti (51% dei suffragi espressi), mentre 168.525 voti andavano alla mozione Partito di Classe, presentata da Jacometti e Lombardi; 41.133 voti andavano alla mozione Per il Socialismo. Nel confronto dei voti congressuali delle mozioni fra i due congressi, sembra chiaro che i 100.000 aderenti in meno al partito fossero gli aderenti che dopo le elezioni del 18 aprile erano rimasti nel partito ed avevano votato per la mozione di destra, che a Genova otteneva 141.000 voti e a Firenze ne otteneva invece solo 41.000. Questi militanti avevano abbandonato il partito, con ogni probabilità subito dopo il congresso di Genova. Dal confronto fra i due congressi risulta anche che la mozione autonomistica di centro perde circa 60.000 voti, che vanno a favore della mozione della sinistra, permettendole di riprendere il controllo delle leve del partito. Sia esatta la prima ipotesi formulata (la secessione ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del PSI) oppure sia esatta la seconda ipotesi (la secessione ha inciso solo in parte sulla struttura organizzativa, mentre l’esodo degli aderenti è dovuto alla tattica del fronte), certo è che il Partito socialista vede in poco più di due anni, dal gennaio del 1947 al maggio del 1949, pressoché dimezzati i suoi effettivi. Infatti dagli 860.000 iscritti del congresso di Firenze del 1946 si è scesi ai 430.000 del congresso di Firenze del 1949. Dei 430.000 iscritti in meno, 250.000 sono quelli mancanti al congresso della scissione di Palazzo Barberini; gli altri sono quelli allontanatisi dal partito a seguito della scelta del Fronte popolare, e negli anni successivi. Nell’impossibilità di verificare le cause effettive della crisi organizzativa del partito, ciò che ci sembra più probabile è un’ipotesi intermedia fra quelle due formulate, un’ipotesi che individui nel corso delle due cause, la scissione del ’47 e la scelta della tattica elettorale e politica del Fronte, l’origine della crisi politica e organizzativa che riduceva il Partito socialista dalla posizione di più forte partito di massa italiano del dopoguerra alle dimensioni di un movimento di scarso peso politico e di pressoché nulla efficienza organizzativa. In questa situazione tutto il discorso di Morandi, al congresso del 1946, aveva dovuto essere dimenticato, né i problemi dell’organizzazione che si presentavano alla fine del ciclo della scissione e della sconfitta elettorale potevano ormai essere posti negli stessi termini di allora. Si trattava, nel ’46, di dare una definizione organizzativa dell’esperienza …

ORIDINARIA STORIA DI “AIUTO” AI GIOVANI IN ITALIA

Scrivo queste righe che parla di una mia questione personale, lavorativa, di quelle che danno fastidio alla sinistra al caviale ma che parla anche del trattamento che si riserva ai giovani in questo paese. Ho deciso, assieme ad altri due ragazzi che come me sono in condizione di doversi inventare un lavoro, di mettere insieme le nostre competenze (formazione, organizzazione di eventi, social managment e consulenza per imprese) per formare una cooperativa di tipo C, di quelle tanto reclamizzate dal governo come accessibili ai giovani per creare lavoro buono. Ci rivolgiamo dunque a Leegacoop, la quale ci informa che servono tre soci e questo lo sapevamo, che servono almeno 25 Euro a socio, e questi per fortuna li abbiamo, ma dettaglio, piccolo dettaglio… servono duemila, ripeto Duemila Euro per il notaio. In questi Duemila Euro, da notare, non è inclusa la parcella che è a carico di Legacoop ma solo le tasse, i cosiddetti “bolli“. Ma che paese è quel paese che chiede Duemila Euro a giovani che vogliono crearsi e creare lavoro? Questo è il paese dei figli di, oppure dei giovani che se ne devono andare. Occupatevi di questo politici della “sinistra”, non solo di come spartirvi i seggi. Noi, nella vita reale, abbiamo a che fare con queste cose, magari se vi resta tempo, tra una spartizione e l’altra, fatevi un bagno nel mondo reale. Antonino Martino SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it