Il Partito Socialista Italiano dal 1948 al Rapporto Chruščëv

di Angelica Migliorisi  La storia del Partito Socialista Italiano è quasi come quella di un paziente terminale che, non ancora disposto ad abbandonare la vita, rantola nel suo letto d’ospedale in preda a convulsioni e deliri di onnipotenza, deciso più che mai a non lasciarsi sfuggire quell’ultimo soffio di vita che gli viene concesso. La situazione sembra ripetersi all’infinito e nonostante la diagnosi continui a essere quella di “malattia terminale”, egli riesce sempre a beffarsi dei medici, a sopravvivere, tra lo stupore di molti e lo sgomento di altri. Quello che apparentemente può sembrare un paragone azzardato è in realtà un modo come un altro per connotare l’affanno e il turbamento con cui il socialismo italiano, specialmente all’indomani del secondo dopoguerra, si è barcamenato tra i marosi della politica italiana e internazionale. I socialisti avevano dato il loro addio al Fascismo sorridenti ma completamente prostrati sulle ginocchia. Il durissimo colpo inferto loro dal regime aveva reso presto impellente la necessità di una nuova istituzionalizzazione. Tra scissioni, cambiamenti strutturali e battute d’arresto il PSI era riuscito, con somma fatica, a dotarsi di un nuovo assetto organizzativo che, seppur non del tutto stabile, appariva senza dubbio dignitoso. La Fenice d’Italia era arrivata dunque alla vigilia delle elezioni del 1948 piena di speranze e voglia di riscatto, per poi arrestarsi a quel tragico 9% che ne avrebbe compromesso, ancora una volta, la sopravvivenza. Si era imposta quindi l’urgenza di una rinascita, la seconda nel giro di una manciata di anni. La sfida era ambiziosa, la posta in gioco forse ancor più elevata dell’ultima volta. I tempi d’altronde erano cambiati, la società appariva destinata a trasformazioni progressivamente più drastiche ed evidenti (di cui il boom economico sarebbe stata solo la punta dell’iceberg). Le spinte centrifughe interne alla Direzione si sommavano agli attacchi esogeni provenienti dagli altri partiti e dal clima internazionale, al punto che per il PSI, questa volta, restare a galla fu un’impresa titanica. «La lunga notte del socialismo italiano» La sconfitta elettorale aveva finito per generare un profondo solco all’interno del Partito Socialista, sia a livello di base sia a livello di Direzione. Le discussioni circa le cause dell’insuccesso si ripetevano lunghe e violente tanto in seno alla dirigenza quanto tra gli iscritti finché presto non fu avvertita la necessità di un nuovo Congresso. Le linee proposte erano tre: una di “centro” facente capo a Riccardo Lombardi e Alberto Jacometti, una di “sinistra” con Nenni e Morandi e una di “destra” guidata da Giuseppe Romita. Il “centro” perseguiva la rottura del Fronte popolare con i comunisti, pur mantenendo con essi un’alleanza strategica, al fine di ridare al PSI una veste di autonomia; inevitabile, dunque, lo scontro con la “sinistra”, feroce sostenitrice dell’unità d’azione con il PCI. Nell’inquietudine generale che ormai da anni faceva da sfondo ai Congressi socialisti, si aprì a Genova il nuovo assise, tra lo sconcerto, questa volta, di molti: Sandro Pertini, punta di diamante della linea centrista, assesta un “tiro franco” a Lombardi e compagni tirandosi fuori dalla mozione di “centro” e spiegando come l’asse PSI-PCI fosse (troppo) importante per la sopravvivenza del Partito. Tra bocche aperte, occhi sbarrati e un via vai di sali pronti a rianimare deputati svenuti, il Congresso si chiuse con la vittoria del “centro”, che sancì l’avvento alla Segreteria di Jacometti e la nomina a direttore dell’Avanti! di Lombardi. Il Partito, tuttavia, era ormai sull’orlo del precipizio e alle casse vuote si andò sommando lo scarso carisma ed eco “mediatica” della nuova Direzione. A buttare benzina sul fuoco contribuì poi un fatto del tutto eccezionale, quasi impossibile da prevedere: nel giorno in cui i francesi festeggiavano gioiosi la ricorrenza della presa della Bastiglia, tre colpi di pistola raggiungono il corpo di Palmiro Togliatti all’uscita di Montecitorio. L’onda d’urto fu tale da far salire la tensione alle stelle, con sommovimenti che sfociarono in scioperi e, addirittura, nella fuoriuscita della componente cattolica dalla CGIL. In merito all’alleanza con i comunisti, si decise allora di “dare un colpo al cerchio e uno alla botte”: il Fronte veniva mantenuto a livello tattico ma il PSI diventava autonomo a livello organizzativo. Intanto la Direzione doveva far fronte alle veementi e continue tensioni provenienti dall’esterno, soprattutto da quei funzionari che, non riconoscendo il nuovo centro, avevano ripreso a tessere i rapporti con Nenni e Basso. Quando la Direzione si decise a sciogliere il Fronte, iniziò un’opera di infiltrazione comunista all’interno della base socialista (avallata da Togliatti) con l’obiettivo di evitare la rottura definitiva dell’idillio, un’eventualità tragica per i comunisti soprattutto all’indomani dell’attentato. Gli attacchi alla Direzione erano dunque molteplici, scanditi dagli incontri tra Nenni e Malenkov (secondo di Stalin) che rendevano evidenti le mire della “sinistra” di riprendersi il vertice. Circondato da piranha di ogni specie e dimensione, il “centro” aveva come unica chance quella di un’intesa con Romita. Il rifiuto del politico di Tortona fu però così categorico da lasciare completamente isolata la Direzione, ormai sotto scacco. La strada da percorrere rimaneva una e una soltanto: la convocazione di un nuovo Congresso, tra l’incredulità di quanti, avendo fatto un rapido conto, si erano accorti che quello sarebbe stato il quinto in soli tre anni. Le mozioni presentate erano sempre le stesse e, come da pronostico, la “sinistra” uscì dall’assise fiorentino completamente vittoriosa (51%). Nenni, trionfante, riprese il suo posto al tavolo dei “grandi” e, con lui, Morandi e Basso. Il cambiamento nella Direzione avrebbe sancito una svolta strutturale dell’intero assetto partitico in senso autoritario e l’impronta morandiana si sarebbe fatta sentire severa e implacabile. Per dirla con Paolo Mattera, la «lunga notte del socialismo italiano» era appena iniziata. Di fronte alla crisi persistente in cui gravava il partito, la nuova Direzione (composta da un gruppo esiguo di uomini fidati) decise di applicare una linea rigida e inflessibile, che aveva il suo uomo di ferro in Rodolfo Morandi. La strategia utilizzata comprendeva un irrigidimento dei processi amministrativi e di controllo, un approccio paternalistico, una politica d’indirizzo e uno “svecchiamento” dei funzionari di partito, il tutto condito con un pizzico …

“C’è bisogno di socialismo. Intervista a Roger Waters «Pink Floyd»

di Andy Green Intervistare Roger Waters può essere una corsa sfrenata. Se una domanda gli piace, è felice di pontificare a lungo, ma se lo annoi con domande trite e ritrite, svicola e (lui che è capace di risposte del tipo: “se non mangi la carne, non avrai il budino”) ti liquida in pochi, terribili secondi. L’occasione per un’altra chiacchierata con il co-fondatore dei Pink Floyd è l’imminente pubblicazione – il 20 novembre – di ‘Roger Waters The Wall’, documento in CD/BluRay del recente tour di ‘The Wall’, ma inevitabilmente la politica è entrata nella discussione. La telefonata con Waters è avvenuta pochi secondi dopo che Joe Biden ha annunciato il ritiro dalla corsa per le presidenziali; sapendo dell’interesse di Roger per la scena politica, siamo partiti da questo argomento. Roger, hai sentito la notizia di Joe Biden? Ha detto che non si candiderà per la presidenza. “Non capisco che cosa stai dicendo. Non ha senso.” Stavo solo dicendo che Joe Biden non concorrerà per le elezioni presidenziali. “E quindi?” Sono sorpreso. Pensavo che si sarebbe candidato. (tre secondi di pausa) “Grazie di avermi espresso il tuo pensiero.” Va bene, allora. Parliamo di ‘The Wall’. Perché, secondo te, dopo 35 anni ancora riesce ad entrare nel cuore di così tanta gente? “Dopo la morte del movimento di protesta, che era molto vivo tra i giovani nel corso degli anni Sessanta e Settanta, benché in qualche modo disperso nella rivoluzione della Silicon Valley, credo che adesso la gente sia pronta a confrontarsi su questioni filosofiche e politiche di ampio respiro e ‘The Wall’ ne è molto ricco. E molte di tali questioni hanno a che fare con la qualità della vita, con la vita e con la morte. Pertanto, credo che ‘The Wall’ ci consenta di focalizzare l’attenzione su una questione fondamentale, ovvero se vogliamo o non vogliamo vivere in società molto molto simili alla Germania Est prima della perestroika. Non ritorno agli anni Trenta perché dovrei entrare in problemi enormi, ma credo che la gente, pur percorrendo con i paraocchi le strade del capitalismo imperiale, cominci a capire che la legge viene erosa e che le forze armate stanno prendendo il sopravvento nel commercio e le corporazioni sui governi e che la gente non ha più voce in capitolo. In un certo senso, ‘The Wall’ pone la domanda: ‘Ti serve una voce? Se sì, devi assolutamente andare a cercarla perché nessuno te la porterà su un piatto d’argento’.” Com’è cambiato per te il significato dell’album da quando lo hai scritto? “Ho risposto un sacco di volte a questa domanda. All’inizio, aveva una narrazione molto più personale a proposito di un uomo tra i venti e i trent’anni che non riusciva a dare un senso a quanto gli accadeva e a spiegarsi perché si sentisse isolato rispetto agli altri ed incapace di aprirsi. Tale narrazione venne fuori dalla mia esperienza di giovanissimo musicista di successo che, sul palco di fronte al pubblico, avvertivo un’estrema lontananza e fu per quello che pensai alla trovata teatrale della costruzione fisica di un muro davanti al palco che esprimesse il mio senso di alienazione. Adesso ‘The Wall’ parla di me che, però, non avverto più quel senso di alienazione rispetto al pubblico. Il rapporto con il mio pubblico durante gli anni in cui ‘The Wall’ ha girato il mondo è stato molto intimo, vicino e gratificante per me, per cui ‘The Wall’ è diventato una riflessione comune delle condizioni politiche in cui viviamo.” Hai fatto circa 220 repliche dello spettacolo. Hai mai pensato che il tour potesse durare così tanto? “Non avevamo idea di quanti spettacoli avremmo fatto. Era anzitutto una grossa scommessa mettere insieme uno show di talI dimensionI, ma la gente ha risposto, ha funzionato il passaparola e di conseguenza abbiamo continuato per tre anni.” Sei tentato dal fare altre repliche di ‘The Wall’ in futuro o è finita per sempre? “Se Israele lavora per l’uguaglianza e per la vera, concreta, genuina democrazia, senza apartheid e senza l’infezione del razzismo nella società, andrò lì a rifare ‘The Wall’. È tutto conservato e ciò che dovesse mancare lo ricostruiremmo. Ho parlato con gli israeliani e con i palestinesi, ma soprattutto con gli israeliani, dal momento che hanno tutto il potere. Inoltre, se il muro illegale che circonda senza pietà i… sì, possiamo definirli tali… territori occupati, la Palestina… se quel muro dovesse cadere, andrò a fare ‘The Wall’. È una promessa che ho fatto un po’ di anni fa e che vale ancora.” Speri che quel giorno possa venire nel futuro prossimo? “È interessante che tu dica questo. L’altra sera ero a letto e cambiavo canale come si fa quando cerchi una partita di Champions League; all’improvviso mi fermai e pensai: ‘Bè, questo sembra interessante. Devo guardarlo.’ Era JLTV, che sta per Jewish Life Television. Quel che suscitò la mia attenzione e mi fece sorridere fu lo slogan dell’emittente: “JLTV, la rete prescelta”. O Dio, mi è venuto da ridere ad alta voce. Ma quanto è incredibilmente inappropriato?. C’era una bella e giovane donna di un’organizzazione di cui avevo sentito parlare chiamata Stand With Us, a sostegno di Israele. Di Israele, non degli israeliani. Di Israele, per sostenere il governo di Israele e il paese chiamato Israele. Aveva due ospiti: una giovane donna bionda e un tizio che sembrava essere francese. Cominciarono a parlare di BDS (il movimento Boycott, Divestments and Sanctions) ed erano tutti e tre d’accordo sulla pericolosità delle iniziative di BDS, prive di radici nel paese ed organizzate all’estero. Dicevano che il denaro viene raccolto all’estero e che i sostenitori del movimento BDS nelle università americane sono soltanto dei fantocci al soldo di ricchi palestinesi che ne muovono i fili. Hanno continuato mostrando grandi muri che sono stati costruiti nei campus del sud della California e altrove. Sono belle strutture, copie dei muri di separazione, ricoperte di slogan politici, con persone coinvolte che ne raccontano la storia. I tre moderatori cercavano disperatamente di confutare la protesta di BDS contro l’occupazione …

Risolviamo la crisi dell’Italia: adesso!

Per una  moneta fiscale gratuita Come uscire dall’austerità  senza spaccare l’euro Manifesto / Appello a cura di: Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Luciano Gallino, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini I primi firmatari sono: Maria Luisa Bianco, Massimo Costa, Stefano Lucarelli, Guido Ortona, Tonino Perna.   Per uscire dalla crisi e dalla trappola del debito, proponiamo di rilanciare la domanda grazie all’emissione gratuita da parte dello Stato italiano di Certificati di Credito Fiscale (CCF) convertibili in euro e all’utilizzo di titoli di Stato con valenza fiscale. In questo modo lo Stato creerebbe nuova moneta potenziale e capacità  di spesa addizionale senza però generare debito. Questa proposta risulta così compatibile con le regole e i (rigidi) vincoli posti dal sistema dell’euro e delle istituzioni europee. La crisi dell’eurosistema Molti autorevoli economisti avevano avvertito che difficilmente una moneta unica che unisce paesi molto diversi per livelli di competitività, produttività  e inflazione avrebbe potuto essere un motore di sviluppo, soprattutto in mancanza di una forte politica cooperativa e solidale a livello europeo. Le loro previsioni si sono purtroppo avverate. Il sistema della moneta unica divide più che unire i paesi europei e, soprattutto dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale, è diventato un freno per la crescita dell’Eurozona e di ogni singolo paese. La moneta unica impedisce i riallineamenti competitivi (cioè le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti). Inoltre, in assenza di una politica fiscale comunitaria redistributiva, risulta inadatta alle esigenze di crescita di ciascun singolo paese. Ne seguono squilibri commerciali e finanziari, in particolare all’interno dell’Eurozona. A causa della rigidità  intrinseca della moneta unica, i paesi creditori, in primis la Germania, sostengono l’adozione di politiche depressive per i paesi debitori come l’Italia, la Francia, la Spagna e altri paesi del Sud Europa. Per garantirsi il recupero dei crediti, i primi hanno imposto austerità, riduzioni drastiche del costo del lavoro, tagli del welfare e aumenti delle tasse. I debiti pubblici denominati in una moneta che i singoli stati non controllano – e che di fatto appare quindi loro come una moneta straniera – forzano i governi ad adottare politiche procicliche. Le economie meno competitive entrano quindi nella spirale della crisi e finiscono per trascinarvi quelle dei paesi cosiddetti “virtuosi”. L’euro, invece di spingere verso la convergenza tra i 18 membri dell’Eurozona, ne aumenta le divaricazioni e i conflitti. L’Eurozona, e in particolare i paesi mediterranei, si trovano in una situazione economica pesantissima: stagnano o calano i consumi e diminuiscono gli investimenti privati e pubblici. La BCE cerca di dare ossigeno monetario al sistema ma le banche dei diversi paesi trattengono la liquidità  e non offrono sufficiente credito all’economia reale, in particolare alle piccole e medie imprese. Crescono massicciamente la disoccupazione e la precarietà  del lavoro. Aumentano le divaricazioni territoriali e sociali. Sembra che l’Europa abbia dimenticato i suoi obiettivi originari di piena occupazione, sviluppo sostenibile e benessere per tutti i cittadini: la priorità  dichiarata dagli organi della UE è piuttosto mirata esclusivamente ad aumentare la competitività  con politiche di austerità  e di “riforme strutturali”. Tuttavia risolvere i problemi di competitività  dei paesi deboli attuando riforme strutturali richiede molto tempo e nuove risorse; e l’austerità  si mostra ormai chiaramente controproducente. Non a caso i debiti pubblici dei paesi più deboli continuano ad aumentare. Il tentativo di applicare il Fiscal Compact non farebbe che aggravare pesantemente la situazione. La crisi mette a rischio la sopravvivenza stessa di qualsiasi disegno di integrazione. L’economia europea è malata e rischia di infettare l’economia mondiale. Le proposte di mutualizzazione dei debiti (gli eurobond) e creazione di un fondo federale consistente, tale da riequilibrare le crescenti asimmetrie territoriali e sociali, appaiono politicamente impraticabili a causa della ferma opposizione dei paesi del nord Europa. In questo quadro di incertezza e di grave sofferenza sono possibili diversi scenari tra di loro non necessariamente incompatibili: la continuazione di una fase prolungata di stagnazione, o peggio di recessione e depressione; la (improbabile) ristrutturazione dei debiti dei paesi dell’Europa mediterranea; la rottura caotica dell’eurozona con l’uscita forzata di uno o più paesi dall’euro e il crollo rovinoso del sistema europeo. In tale contesto, è del tutto improbabile che l’iniziativa del governo italiano di negoziare maggiore flessibilità  con Bruxelles e con Berlino sia sufficiente a rilanciare l’economia del nostro paese, perché non affronta la sostanza dei problemi strutturali che affliggono l’eurozona. Oltretutto ne accrescerebbe ulteriormente l’indebitamento. Altri propongono invece l’uscita dalla moneta unica per non subire ulteriormente un sistema monetario fortemente penalizzante; ma passare dall’euro alla lira è assai più problematico che uscire da un sistema di cambi semi-fissi, come era per esempio il Sistema Monetario Europeo. L’uscita unilaterale dall’euro, cioè dalla seconda valuta mondiale di riserva, rischia di produrre traumi economici e geopolitici dalle conseguenze imprevedibili; e, comunque, molti cittadini italiani sono contrari perché temono di vedere svalutati risparmi, stipendi e pensioni. Come uscire allora da questa gravissima crisi che l’Europa si è paradossalmente autoinflitta? E’ ormai evidente che occorre rivedere radicalmente i trattati costitutivi dell’euro, ma questo richiede volontà  politica e tempo. Per affrontare la crisi diventa allora indispensabile che, pur nel contesto dell’euro, ogni stato nazionale assuma urgentemente iniziative autonome e sovrane per rilanciare l’economia e l’occupazione. I governi dei paesi europei, dal momento che sono stati eletti democraticamente (a differenza degli organi esecutivi della UE) per offrire un futuro migliore ai loro cittadini, hanno non solo il diritto ma anche il dovere di difendere gli interessi dei loro elettori e di attuare riforme coraggiose per la prosperità  della comunità  nazionale. I cittadini si aspettano giustamente che gli organi politici da loro eletti tornino ad operare per lo sviluppo dell’economia nazionale, senza attendere permessi o concessioni da parte di altri paesi e senza subire eccessivi e ingiustificati condizionamenti. La proposta dei Certificati di Credito Fiscale La drammatica crisi economica, occupazionale e sociale ci pone di fronte a una situazione di grave emergenza. Non è possibile procrastinare le soluzioni. Occorrono misure urgenti ed efficaci. A tal fine, la nostra proposta offre un’alternativa concreta e immediatamente fattibile rispetto alle altre soluzioni …

La Fenice d’Italia: storia socialista dalla Resistenza al 1948

di Angelica Migliorisi A molti italiani, se venisse chiesto loro di indicare una foto simbolo del secondo dopoguerra, tornerebbe alla memoria il volto radioso di una giovane donna, che fa capolino dalla prima pagina del Corriere della Sera, con un titolo quanto mai evocativo a incorniciarle i capelli: «È nata la Repubblica italiana». Che l’atmosfera fosse festosa, quel 2 giugno 1946, è testimoniato da quella che diventerà una delle foto più celebri della storia italiana, e come sarebbe potuto essere altrimenti, d’altronde, considerando il giogo cui erano stati costretti gli italiani per così tanti anni? Era tempo di spegnere i fornelli, indossare l’abito da festa abbandonato nell’armadio e quasi dimenticato, scendere in strada, ballare e, perché no, farsi immortalare con la testa infilata in un buco ricavato “alla buona” in una copia dello storico giornale milanese. Non è mai bello fare il “guastafeste”, soprattutto di fronte a un quadro così allegro e gioviale, ma ogni medaglia, come recita una popolare espressione, ha sempre un suo rovescio: nel caso di specie, il Belpaese si era trasformato già da tempo nel set di un film di Sergio Leone, in un terreno riarso, cioè, da irrorare, ricostruire e rieducare ai sacri valori della democrazia, umiliata e seviziata da un ventennio di dittatura fascista. Ad assumersi l’onere (e senz’altro l’onore) di posizionarsi dietro alla cattedra, con tanto di bacchetta in mano, furono i partiti, altrettanto in ginocchio ma forti, pur sempre, del potere aggregante delle idee. Anche il Partito socialista italiano tentò di assolvere questo compito, ma lentamente e faticosamente perché, appena risorto dalle sue ceneri, si trovò investito da nuove sfide che ne avrebbero minato, ancora una volta, la sopravvivenza. A (new) born Quando ormai la seconda guerra mondiale stava quasi per volgere al termine, il PSIUP (nato nell’agosto 1943 dall’unione di PSI e MUP, il “Movimento di unità proletaria” di Lelio Basso) risuscitò come un’araba fenice in maniera del tutto “spontanea e decentrata”, prendendo in prestito due felici aggettivi usati dal Professor Paolo Mattera nella monografia Il partito inquieto. Organizzazione, passioni e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico: “spontanea” perché venne rimesso in piedi dai vecchi uomini di partito, costretti all’esilio durante il ventennio fascista e tornati in patria dopo il 25 luglio 1943, “decentrata” perché la ramificazione del partito presso la società civile presentava profonde divergenze tra Nord e Sud del Paese. D’altronde la “questione agraria”, che vedeva protagoniste le rivendicazioni terriere da parte dei contadini, era stata trattata in maniera piuttosto ambigua dai socialisti, i quali avevano fatto ideologicamente propria la causa delle masse rurali senza tuttavia schierarsi de facto al loro fianco. Il timone era stato lasciato così nelle mani del PCI che, a causa della vicinanza ideologica a Mosca e del fascino che questa esercitava in quegli anni, era potuto sopravvivere durante il fascismo, seppure in clandestinità, ritagliandosi spazi sempre più ampi di adesione popolare. Ad accreditare la presenza comunista sul territorio italiano durante la Resistenza aveva contribuito, inoltre, la decisione dei vertici del PSIUP di non incoraggiare la creazione di brigate socialiste che combattessero i fascisti, vagheggiando, di contro, la creazione di un «esercito popolare […] che avrebbe permesso una guida dall’alto della Resistenza», per usare ancora le parole di Paolo Mattera. Sarà Sandro Pertini, liberato nel 1943 dopo una lunga reclusione per attività antifascista, a foraggiare le brigate Matteotti, quando ormai, però, la mobilitazione messa in atto dalle rosse brigate Garibaldi era diventata così capillare da fagocitare ex esponenti, militanti e simpatizzanti socialisti. Molto diversa era la situazione del PSIUP al Nord, dove la rinascita del PSIUPAI (PSIUP Alta Italia) a opera, ancora una volta, di Pertini, nonché il vigore di personaggi come Lelio Basso e Rodolfo Morandi, aveva permesso il raggiungimento di una maggiore capillarità organizzativa: da un lato, attraverso la divisione delle città in un numero di zone pari ai quartieri urbani e la diffusione martellante dell’ideologia socialista tra i contadini e gli operai, dall’altro, mediante una profonda verticalizzazione del potere decisionale. Le divisioni geografiche esistenti tra Nord e Sud, nonché quelle tra veterani e nuove leve del socialismo, risultarono ancora più evidenti quando si trattò di scegliere l’impostazione organizzativa da dare al partito. Nello specifico, erano quattro le possibili strutture vagheggiate: una che riecheggiava la costruzione del PNF, una che agognava l’emulazione della costruzione partitica comunista e una che si rifaceva alla struttura localistica del PSI antecedente al fascismo. L’ideale di Giuseppe Faravelli rientrava in questa terza categoria e si esplicava nel rifiuto dell’allineamento con Mosca e, quindi, con il PCI, creando un terreno fertile per il matrimonio politico con Giuseppe Saragat, anch’egli strenuo sostenitore della necessità di svincolarsi dal mito sovietico. Lelio Basso, d’altro canto, riteneva che il PNF rappresentasse un esempio calzante di partito magistralmente strutturato e organizzato sul territorio e che dovesse essere quindi il prototipo da seguire al fine di rendere il PSIUP l’elemento “moralizzatore” delle masse. Se entrambi i dirigenti sostenevano la necessità di creare delle strutture intermedie tra i vertici di partito e la base popolare, di diverso avviso era Pietro Nenni, allora segretario del PSIUP. Egli, forte dell’eco mediatica e del fascino esercitato dai propri discorsi sulle masse, riteneva fondamentale (ma soprattutto sufficiente) un rapporto di esclusiva bidirezionalità tra la dirigenza e la base elettorale. Ancor più discorde era poi l’opinione di Rodolfo Morandi, il quale, studiando approfonditamente comunismo e socialismo, si era convinto che anche la priorità del PSIUP dovesse essere la tutela degli operai, motivo per il quale fu in prima linea nella creazione del Comitato industriale Alta Italia: un piano, per dirla con Paolo Mattera, «che mirava a servirsi della macchina pubblica e ad avvalersi dell’esperienza dei tecnici dello Stato per svolgere un lavoro di coordinamento dell’industria, al fine […] di favorire una rappresentanza nuova e democratica delle imprese industriali». È evidente come le divergenze tra i vertici del PSIUP fossero tali da rendere sofferta ogni decisione non solo politica ma anche organizzativa. La priorità assoluta nell’agenda del partito era l’omogeneità, ma questa non poteva esser certo perseguita senza la …

Oltre l’emergenza democratica

ll Rosatellum bis e stato votato a colpi di fiducia mentre la nostra Canta stabilisce che una legge elettorale sia approvata con procedura normale. E non è l’unico elemento di incostituzionalità.  Contro chi l’ha approvata non ci resta che l’arma del segreto dell’urna. di Felice Besostri Tre leggi elettorali incostituzionali rappresentano un Guinness dei primati per l’Italia: bisogna pur eccellere in qualcosa, ma dovremmo essere più cauti nella scelta. Per Transparency international siamo già ai primi posti per la corruzione, dovrebbe bastare. Quando il detto popolare afferma che non c’è il due senza il tre, non va preso come una coazione a ripetere, ma semmai come un invito ad agire con maggiore ponderazione e sapienza. Le nuove norme sono incomprensibili anche per esperti, come ho potuto personalmente constatare in un seminario presso una Facoltà di Scienze politiche, ma… non basta. Sono anche contraddittorie e contengono vere e proprie perle, confermando l’altro detto popolare, inglese, questa volta, che il diavolo si annida dei dettagli. Nel Molise si eleggono due deputati in collegi uninominali maggioritari e uno con metodo proporzionale! Non si tratta di bagatelle, ma sono l’indizio della superficialità dettata dalla fretta di arrivare ad approvare la legge e di indire le elezioni prima che la Corte costituzionale possa esaminare la legge in anticipo sul voto. I nemici della libertà di voto e di scelta personale e diretta dei parlamentari da parte dei cittadini vogliono conseguire un risultato utile: essere eletti e rimanere in carica per 5 anni malgrado un’eventuale dichiarazione d’incostituzionalità: un film già visto con questa XVII legislatura per cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza e di fiducia, grazie ai “precedenti Boldrini” di interpretazione dell’articolo 116 del Regolamento Camera. La Presidente, per caso e fortuna sua, della Camera, che è la terza carica dello Stato, ha statuito che si può porre la fiducia su ogni legge o deliberazione che non sia vietata dal quarto comma dell’art. 116 del Regolamento Camera. Vista la delicatezza dell’argomento è bene trascriverlo: «Art.4. La questione di fiducia non può essere posta su proposte di inchieste parlamentari, modificazioni del Regolamento e relative interpretazioni o richiami, autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali, sanzioni disciplinari e in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno della Camera e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto». Ebbene le modifiche costituzionali non sono nominate e per coerenza interpretativa la Boldrini o un suo successore, fondandosi sul “precedente Boldrini”, potrà ammettere un voto di fiducia su norme di un disegno di legge “in materia costituzionale”, benché l’art. 72 comma 4 della Costituzione reciti: «La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi». La presidente della Camera, Nilde lotti, quando i presidenti delle Camere erano scelti tra parlamentari con più legislature alle spalle e con esperienza di conduzione d’aula, aveva invece stabilito nel 1980 con un lodo che se veniva chiesta la fiducia il procedimento diventava speciale, quindi non più normale, anche per la ragione che l’art. 116 era nella parte terza del Regolamento e non nella seconda intitolata «Procedimento Legislativo”. Il Rosatellum 2.0 è una legge con norme incostituzionali, come vedremo, ma in ogni caso è stato reso incostituzionale dalla sua procedura di approvazione. Un rischio a costo zero, a meno che non diventi indignazione di massa contro tutti i partiti, che hanno approvato la legge, con effetto sulle intenzioni di voto, ma qui si tocca con mano la miopia politica della maggioranza. Infatti, l’accordo elettorale comprende anche Forza Italia e la Lega Nord, ma il governo, le Presidenze di Camera e Senato e i parlamentari, che hanno votato le 8 fiducie, 3 alla Camera e 5 al Senato sono tutte espressioni del centro-ex sinistra: pagheranno di più, pagheranno tutto il tradimento della Costituzione e il disprezzo per il risultato del referendum del 4 dicembre. Gli elettori delusi potrebbero prendere la strada della non partecipazione al voto, aumentando le chances dei partiti rosatelliani. In questa situazione di emergenza democratica, quando le Presidenze delle Camere non hanno svolto un ruolo di garanzia e il Presidente del Consiglio si è rimangiato le promesse sull’estraneità del Governo rispetto la legge elettorale, da triste e tardivo epigono di Clemenceau – «In politica le promesse impegnano soltanto chi le ascolta» – ci si rende conto che la tutela della. Corte costituzionale ha tempi incompatibili per porre tempestivo rimedio. A differenza della Germania e della Spagna, i cittadini non hanno accesso diretto alla Consulta, neppure nel caso di violazione di un diritto fondamentale essenziale, come il diritto di voto per il rinnovo del Parlamento. L’opposizione deve essere determinata, non c’è una strada tecnico-giuridica contrapposta o, comunque, separata da quella politica. La, stessa legge elettorale è sempre politica: chi è a favore delle coalizioni con qualche forma di premio, se collocato a sinistra significa che vuole un accordo con il Pd, chi è a favore di un sistema sostanzialmente proporzionale vuole ripartire dalla ricostruzione di una sinistra autonoma e alternativa, che ponga al centro il lavoro, la solidarietà e il superamento delle diseguaglianze. Questa legge non lo consente perché nemmeno rispetta la Costituzione. Il voto non è libero perché non posso scegliere in modo differenziato per il candidato nel maggioritario e per la lista proporzionale bloccata. Il voto non è nemmeno personale, eguale e diretto perché non posso scegliere all’interno delle liste proporzionali e, grazie alle liste corte e alle pluricandidature, i parlamentari non saranno scelti dagli elettori della loro circoscrizione, ma da un algoritmo: non è democratico, non è giusto e non è serio. Una sola possibilità rimane: quella di fare un buon uso della segretezza del voto e quindi della sua imprevedibilità con scorno di chi si precostituisce vittoria a tavolino con leggi incostituzionali. Fonte: Left SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce …

Concorso Nazionale “MATTEOTTI PER LE SCUOLE”

La Fondazione di Studi Storici Filippo Turati Onlus e la Fondazione Giacomo Matteotti Onlus d’intesa con la Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, indicono, per l’anno scolastico 2017/2018, la terza edizione del Concorso nazionale “MATTEOTTI PER LE SCUOLE” rivolto agli alunni della scuola secondaria di secondo grado. Per il bando e la scheda di adesione Fonte: fondazionestudistoriciturati SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

Di Vittorio e il ’56 ungherese, la resa dei conti

La posizione della segreteria Cgil e del suo leader sui fatti di Budapest è in contrasto con quella assunta dal Pci. Alla direzione del partito, riunita apposta per discutere di quegli avvenimenti, per il sindacalista di Cerignola è di fatto un processo Il 23 ottobre 1956 a Budapest un largo corteo popolare di solidarietà con la rivolta di Poznań, in Polonia, degenera in scontri tra polizia e dimostranti. La notte stessa il governo, presieduto dagli stalinisti Gerö e Hegedüs, viene sciolto. La formazione del governo Nagy non impedisce il divampare della rivolta nella capitale e nel resto del Paese. Il 27 ottobre, di fronte alla decisione dei sovietici di intervenire militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil assume una posizione di radicale condanna dell’invasione, destinata a stroncare nel sangue la domanda di democrazia e di partecipazione reclamata dalla rivolta operaia e popolare ungherese e sostenuta dal governo legittimo di Imre Nagy. La condanna non è soltanto dell’intervento militare: il giudizio è netto e investe tanto i metodi antidemocratici utilizzati dai governi dei Paesi dell’Est Europa, quanto l’insufficienza grave delle stesse organizzazioni del movimento sindacale. Nella stessa giornata del 27, Di Vittorio rilascia a un’agenzia di stampa una dichiarazione del tutto personale nella quale non solo vengono ribadite le cose dette nel comunicato della segreteria, ma vi si aggiungono parole di piena e convinta solidarietà con i ribelli di Budapest: “In ordine al comunicato emesso oggi dalla segreteria della Cgil sui fatti di Ungheria che tanto hanno commosso i lavoratori e la pubblica opinione – commenta il leader della confederazione –, credo di poter aggiungere che gli avvenimenti hanno assunto un carattere di così tragica gravità che essi segnano una svolta di portata storica. A mio giudizio sbagliano coloro i quali sperano che dalla rivolta tuttora in corso, purtroppo, possa risultare il ripristino del regime capitalistico e semifeudale che ha dominato l’Ungheria per molti decenni”. È un fatto, prosegue Di Vittorio, che tutti i proclami e le rivendicazioni dei ribelli conosciuti attraverso le comunicazioni ufficiali di radio Budapest, “sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza. Da ciò si può desumere chiaramente che – ad eccezione di elementi provocatori e reazionari legati all’antico regime – non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horthy. Condivido quindi pienamente l’augurio espresso dalla segreteria della Cgil che anche in Ungheria il popolo possa trovare in una rinnovata concordia nazionale, la forza per andare avanti sulla strada del socialismo”. La posizione del segretario della Cgil è nettamente in contrasto con le posizioni assunte dal Pci. Sulla “situazione del partito in relazione ai fatti di Ungheria”, il 30 ottobre si riunisce la direzione. Per Di Vittorio è di fatto un processo. Presenti Togliatti, Longo, Amendola, Li Causi, Scoccimarro, Sereni, Roveda, Pajetta, Dozza, Di Vittorio, Colombi, Berlinguer, Secchia, Roasio, M. Montagnana, R. Montagnana, Pellegrini, Terracini, Boldrini, D’Onofrio e Ingrao. Assenti Novella, Spano e Negarville. Partecipano alla discussione Pajetta, Di Vittorio, Roveda, Roasio, Secchia, Pellegrini, Amendola, Ingrao, Boldrini, Li Causi, M. Montagnana, Colombi, Sereni, Dozza, Terracini, Berlinguer, Pajetta, Longo, Di Vittorio. Così, sulla presa di posizione di Di Vittorio, Emilio Sereni: “L’unità nella nostra direzione è di importanza fondamentale e questa unità non può avvenire che attorno al compagno Togliatti. Con la sua dichiarazione il compagno Di Vittorio si è contrapposto alla direzione”. Rincara la dose Dozza: “È noto in tutto il quadro confederale che Di Vittorio dà poca importanza al parere della direzione. Esigenza della disciplina. Sono per la lotta sui due fronti, ma deve essere lotta e ogni membro della direzione deve assumersi le sue responsabilità”. Duro anche Scoccimarro: “Gravissimo errore di Di Vittorio nell’aver ignorato l’esperienza storica”. Più morbido nei confronti di Di Vittorio, ma comunque deciso, Roveda: “Sono d’accordo anche con l’articolo di Togliatti di stamattina (apparso su Rinascita, n. 10/1956, ndr) che pone il problema sul terreno di classe di fronte alla canea avversaria. Gli operai non avrebbero capito che l’esercito sovietico non fosse intervenuto per difendere il socialismo. Gli intellettuali dopo il XX Congresso vanno tutti alla ricerca del partito. Capisco la situazione molto difficile nella Cgil, ma si poteva evitare quella presa di posizione. I socialisti vogliono indebolire il nostro partito e dobbiamo evitare atti che li aiutino in questo. Non è vero che la posizione della classe operaia sia quella della Cgil”. Assente Novella, conclude Palmiro Togliatti: “Dopo aver risposto alle argomentazioni sviluppate dai compagni – si legge sempre nel verbale – egli sottolinea che la posizione del comunicato della Cgil non è giusta. Ritiene che i comunisti della segreteria confederale avrebbero potuto e dovuto insistere per ottenere una posizione più giusta e che non disorientasse l’opinione dei lavoratori. In particolare osserva e deplora che il compagno Di Vittorio abbia aggiunto al comunicato un suo commento, non concordato con la segreteria del partito e divergente dalla linea del partito”. “La dichiarazione [di Di Vittorio] – aggiunge il segretario del Pci – non è stata concordata con noi e ha aumentato il disorientamento nel partito […] In questo momento come si può solidarizzare con chi spara contro di noi mentre si cerca di creare una grande ondata reazionaria? […] Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”. Molti anni più tardi, nel volume “Di Vittorio e l’ombra di Stalin” (Ediesse 1997), Adriano Guerra e Bruno Trentin scrivono: “Alle critiche di Togliatti a Di Vittorio si associarono, con argomentazioni e toni non sempre collimanti, tutti i membri della direzione. Alcuni intervennero anche sul merito, come Roasio, Secchia (secondo il quale occorreva pero ‘abituarsi in certi momenti difficili ad avere anche posizioni diverse tra partito e Cgil soprattutto se si allargherà l’unita sindacale’), Colombi (‘La posizione di Di Vittorio non può essere approvata dalla Federazione sindacale mondiale di cui è presidente. Cattivo il suo metodo di fare tutto da sé. I socialisti cercano di dirigere la Cgil’)”. Altri posero soprattutto “un problema di disciplina, come Ingrao (‘Il compagno Di Vittorio sapeva di dire cose diverse da quelle della direzione …

PIETRO NENNI SU GIUSEPPE DI VITTORIO

Il 3 novembre 1957 muore a Lecco Giuseppe Di Vittorio (L’annuncio della Cgil; L’appello ai lavoratori). Nel trigesimo della morte, Rassegna Sindacale dedica un intero numero alla commemorazione del segretario, pubblicando scritti e discorsi di Giovanni Leone, Giuseppe Rapelli, Louis Saillant, Pietro Nenni, Luigi Russo, Fausto Gullo, Luigi Allegato, Ferruccio Parri e Riccardo Lombardi (Rassegna Sindacale, n. 21-22, 15-30 novembre 1957). Riportiamo nella sua interezza l’intervento di Pietro Nenni (discorso pronunciato il 6 novembre ai funerali di Di Vittorio): “II cuore dei socialisti italiani di tutta Italia è qui stasera attorno al feretro di Giuseppe Di Vittorio, è qui con la pena dei figli, della vedova, dei familiari, dei braccianti di Cerignola, è qui con la vostra pena, compagni della CGIL, con la vostra stessa pena, compagni del Partito Comunista. Per me, coetaneo e vecchio amico e compagno di Di Vittorio, si conclude stasera un colloquio con lui durato per oltre tre decenni e che fu il colloquio dei socialisti con il militante sindacalista e comunista. Cominciò il nostro colloquio qui a Roma 33 o 34 anni or sono, quando Di Vittorio dette la sua adesione al Partito Comunista nel convincimento che l’unità operaia non potesse ricomporsi se non nel solco della Rivoluzione d’Ottobre. Continuò nel lungo esilio, l’esilio con le sue pene, le sue dispute, le sue speranze. Si trasferì in Spagna quando a Madrid si affrontarono il fascismo che s’era fatto europeo e l’antifascismo pur esso europeizzatosi, nel quadro indimenticabile della Calle Velasquez, delle trincee della Ciudad Universitaria, dei campi di battaglia del Manzanares e dell’Ebro. Riprendemmo il colloquio mentre si abbatteva sulla umanità la seconda guerra mondiale. Fu in uno dei momenti più tragici di quella guerra che per un attimo Di Vittorio mi apparve smarrito e disperato. Era la sera che precedette l’occupazione tedesco-nazista di Parigi. Ci eravamo dati appuntamento, per decidere cosa si poteva ancora fare, nei giardini del Palais Royal ai piedi della statua che mostra Camille Desmoulins nell’atto di salire su una sedia per lanciare l’appello supremo alle armi. Di Vittorio si chiedeva disperato se quel marmo, se quel gesto, se quel grido non fossero una menzogna, mentre la Parigi della grande Rivoluzione e della Comune pareva curvare la testa davanti all’invasore. Ma non c’è rassegnazione per uomini come Di Vittorio, non c’è disperazione che non dia luogo ad un rinnovato furore di azione. Di Vittorio riprese la lotta, fu arrestato, ricondotto in Italia, internato a Ventotene dove lo colse e lo liberò nel 1943 la prima frattura tra regime e paese, in cui il fascismo andò distrutto. Il resto è la storia che tutti conoscono, la storia dell’ascensione di Di Vittorio alle più alte responsabilità sindacali e politiche. In quella ascensione egli rimase sempre il bracciante e il contadino di Cerignola. Altri parlavano meglio di Lui. Altri scrivevano meglio di Lui. Altri erano più dotti nel citare pagine di Marx o di Lenin. Nessuno ha eguagliato il patos umano della sua eloquenza e della sua azione. Se stasera tutta la Roma del popolo è attorno al suo feretro, è perché nessuno meglio di Lui ha saputo interpretarne l’animo. Se il miracolo che ha tentato la fantasia di tanti poeti di una parola che, gridata su un feretro, risvegli nel disfacimento fisico del corpo umano lo spirito che quell’uomo animava, se quel miracolo potesse compiersi qui stasera, la parola che rianimerebbe le spoglie di Di Vittorio sarebbe la parola unità. Egli vedeva sinceramente e profondamente il valore della unità. Scompare con Lui l’ultimo dei tre sindacalisti che tredici anni or sono gettarono le basi dell’unità sindacale. Il primo a cadere fu Bruno Buozzi, trucidato in un vile eccidio tedesco. Il secondo Achille Grandi. Questa sera noi prendiamo per sempre congedo da Peppino Di Vittorio. Lasciatemi esprimere a nome dei socialisti la speranza che l’unità che è stasera nel cuore di milioni di uomini, si traduca e si risolva nell’unità sindacale di tutti i lavoratori del nostro Paese. Sarà il più bel monumento eretto alla Tua memoria, caro ed indimenticabile compagno Di Vittorio!”. Ilaria Romeo, responsabile Archivio storico CGIL nazionale SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL SOCIALISMO CHE CRESCE NEI COLLEGE AMERICANI

Traduzione dell’articolo di Alex Thompson e Diamond Naga Siu pubblicato su Vice News con il titolo “Socialism is surging on college campuses” A lungo relegato ai margini della politica americana, il socialismo sta crescendo nei campus universitari in seguito alla campagna di Bernie Sanders – che si definisce un socialista democratico – e alla vittoria di Donald Trump. Gli Young Democratic Socialists of America sono passati da 12 sezioni locali alla fine del 2016 a 47 nel giugno di quest’anno – e si passerà almeno a 100 entro la fine del semestre (329 college risultano registrati per aprirne una). «Perdendo contro Donald Trump, i Democratici hanno dimostrato che non sono loro la risposta ai problemi» spiega Michelle Fisher (20), co-presidente degli Young Democratic Socialists of America e al secondo anno alla Wesleyan University (Middletown, Connecticut). Ma non è solo per la sconfitta contro Trump: la disaffezione di Fisher per il Partito Democratico è da un po’ di tempo che monta. «Quando Obama era presidente, pensavo che andasse bene perché non conoscevo nessuna alternativa. […] Ma ha portato avanti la politica imperialista degli Stati Uniti e ha rimpatriato molte più persone di qualsiasi altro presidente» Mentre le 1.200 sezioni dei College Democrats of America del Partito Democratico battono di gran lunga quelle degli Young Democratic Socialists of America (YDSA), l’improvvisa crescita di un movimento progressista alternativo fra i ragazzi minaccia di spaccare ancora di più il Partito Democratico proprio mentre questo sta provando a riprendersi dalle disastrose elezioni del 2016 e attirare gli elettori giovani per quelle delle del 2018 e del 2020. […] «L’idea è di creare un qualcosa, in questo paese, che sia puro e non contaminato dalle pratiche capitaliste e imperialiste tipiche di molte altre associazioni» dice Sanjeev Rao (20) dell’Indiana University Bloomington, dove la scorsa primavera ha fondato una sezione degli YDSA. Gli Young Democratic Socialists of America non sono l’unica associazione progressista a crescere nell’era Trump, ovviamente. E rimane una questione aperta se continuerà a espandersi con questo ritmo o meno. Il Partito Democratico, dal canto suo, sta cercando di coltivare l’unità all’interno delle opposizioni. «Questa è una cosa positiva per il Partito Democratico» commenta Sabrina Singh, la vice-responsabile comunicazione del Democratic National Committee, in merito all’ascesa degli YDSA. «C’è un enorme entusiasmo nei campus universitari di tutto il paese e abbiamo assistito a un gran numero di gruppi che si sono mobilitati per portare avanti un cambiamento progressista e prendere parte alla politica dei Democratici». Ma otto organizzatori degli YDSA nei college di tutto il paese affermano che aiutare i Democratici non è il loro obiettivo. Anzi, vogliono mantenere le distanze e offrire un’alternativa più di sinistra rispetto al Partito Democratico. «I Democratici sono più moderati, ma portano avanti la stessa politica classista dei Repubblicani» dice Chance Walker, il co-presidente della nuova sezione degli YDSA all’University of Texas San Antonio. All’UT San Antonio – dove la metà degli studenti è ispanica, un elettorato chiave per i Democratici – adesso c’è solo un club socialista e nessuno club democratico. Il club dei College Dems è andato kaputt nel 2016 […] e Walker ha contribuito all’apertura della sezione degli YDSA lo scorso autunno. «Ho conosciuto gli YDSA grazie alla campagna di Bernie Sanders. Prima di allora ero un nichilista politico: ai politici non frega nulla di te, non avremo mai le possibilità economiche che hanno avuto i nostri genitori e i nostri nonni, non importa quello che facciamo» spiega Walker. I Democratic Socialists of America – che non è ancora un partito politico ma fa campagna per i candidati della sinistra radicale nei Verdi e candida i propri membri alle primarie Democratiche – nascono negli anni ’80 dalla fusione di due associazioni di socialisti democratici. Da allora i DSA hanno lavorato relativamente nell’oscurità con pochi iscritti e pochissime vittorie elettorali. La potente campagna di Sanders nel 2016, tuttavia, ha dimostrato che un messaggio socialista può essere molto attraente, specialmente in tempi di disuguaglianze senza precedenti e salari stagnanti. I Democratici avevano da tempo rinunciato alla parola che inizia per S per paura di essere dipinti come marxisti in incognito. Durante le primarie presidenziali del 2016 fra Sanders e Hillary Clinton, la senatrice democratica Claire McCaskill del Missouri ha affermato che i Repubblicani non vedevano l’ora di battersi contro Sanders nelle elezioni generali, «per fare uno spot in cui utilizzano una falce e martello». E a febbraio, durante un incontro, Nancy Pelosi ha risposto a una domanda sui giovani che stanno perdendo la fede nel capitalismo e in merito a ciò che farà il Partito Democratico per conquistarli, se si sposterà a sinistra, magari, dicendo: «Siamo capitalisti punto e pasta». […] Trevor Hill (20), lo studente della New York University che ha fatto la domanda a Pelosi, spiega che i Democratici non possono conquistare gli studenti universitari come lui se continuano a combattere le disuguaglianze «utilizzando gli stessi metodi che fregano sempre le stesse persone». Durante l’incontro, Hill ha citato il sondaggio del 2016 della Harvard Kennedy School che mostra come il 51% dei giovani fra i 18 e i 29 affermano di non essere a favore del capitalismo. Ma lo stesso sondaggio registrava come il 33% era a favore del socialismo, suggerendo quindi che il socialismo democratico potrebbe avere difficoltà a diventare un’alternativa fattibile, a meno che i suoi sostenitori non riescano a convertire grandi fette della popolazione americana. Fisher dice che lei e altri organizzatori si rendono conto che hanno davanti una battaglia lunga, che forse durerà anche decenni. «Non sono sicura che nel 2020 avremo abbastanza potere da influenzare le proposte di legge nazionali». Ma aggiunge anche che lei e altri giovani socialisti non sentono lo stesso stigma sul socialismo percepito da Pelosi o McCaskill. «Penso che per le persone della mia generazione – che sono cresciute dopo la Guerra Fredda – la S di socialismo non rappresenti una lettera scarlatta come per i più anziani». Fisher è cresciuta in una famiglia Democratica di centro-sinistra nell’Atlanta suburbana prima di unirsi agli YDSA al college. …

Legge elettorale, Mattarella firma il «Rosatellum»

A vuoto gli appelli dei 5 Stelle perché il Capo dello Stato rinviasse l’entrata in vigore di Cesare Zapperi Il presidente della Repubblica ha firmato la legge di riforma elettorale, il Rosatellum bis. Lo si legge sul sito del Quirinale che alla pagina degli atti firmati indica la promulgazione della legge di modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e la delega al governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali. Dopo la firma del capo dello Stato la legge e’ in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Il Rosatellum bis è una sorta di Mattarellum `rovesciato´, un mix tra maggioritario e proporzionale ma dove la quota di proporzionale la fa da padrona: 64% di listini plurinominali a fronte del 36% di collegi uninominali. Sono 20 le circoscrizioni per il Senato, una per ogni regione, mentre sono 28 quelle della Camera. La soglia si sbarramento sia per la Camera che per il Senato è al 3% a livello nazionale per le liste, mentre è del 10%, sempre a livello nazionale, per le coalizioni. Ci sarà un’unica scheda e non viene concesso il voto disgiunto. C’è la quota di genere (60-40) e la possibilità di un massimo di cinque pluricandidature nei listini proporzionali, ma anche la possibilità per un candidato di presentarsi sia nei collegi uninominali che in quelli plurinominali. Infine, non c’è l’indicazione del `capo´ della coalizione – ovvero del candidato premier – ma è prevista l’indicazione del `capo´ della singola forza politica, non c’è l’obbligo per la coalizione di presentare un programma comune. L’approvazione in Parlamento Il Rosatellum bis è stato approvato in via definitiva dal Senato ( con il voto di Pd, Forza Italia, Lega e Alternativa Popolare) il 26 ottobre scorso. Come si ricorderà, per accelerare sui tempi del via libera e non incontrare ostacoli di alcun tipo, il governo aveva deciso di mettere la fiducia sia alla Camera che a Palazzo Madama, scatenando la protesta di piazza del Movimento 5 Stelle e delle forze di sinistra (Mdp e SI). Di Maio-Casaleggio: «Una pessima legge» «È una pessima legge, c’è un po’ di rammarico». Risponde così Davide Casaleggio a chi gli chiede della firma sul Rosatellum apposta dal Capo dello Stato. «Non siamo d’accordo la partita si sposta alla Consulta con un nostro dettagliato ricorso, ma se gli italiani vogliono mandare a casa quelli che si sono votati il Rosatellum, votino per noi domenica e vedrete come la legge che favorisce le ammucchiate sarà uccisa nella culla» aggiunge Luigi Di Maio. Il ricorso di Besostri «Col Rosatellum 2.0 stanno partorendo l’ennesima legge elettorale anticostituzionale». Felice Besostri, classe ‘44, è avvocato amministrativista, docente di diritto pubblico comparato ed ex Senatore dei Ds. In passato ha proposto ricorsi contro le leggi elettorali adottate per il Parlamento europeo e le regioni Lombardia, Campania, Umbria, Sardegna e Puglia. Ma, soprattutto, è stato protagonista dei ricorsi, parzialmente vinti, contro il Porcellum e l’Italicum. Siamo alla terza legge elettorale consecutiva che verrà giudicata incostituzionale? «Siamo – risponde Besostri in una intervista al blog della Fondazione Nenni – alla violazione dell’art 54 della Carta, il quale prevede che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Qui, invece, non c’è limite alla decenza. In nessun altro Paese d’Europa sarebbe consentita una cosa del genere». Per Besostri «l’aspetto fondamentale è la violazione dell’art.48 della Costituzione che stabilisce che il voto debba essere segreto, libero, uguale e personale. Se tali caratteristiche del voto erano già negate con l’Italicum, ora lo sono negate in maniera persino maggiore. La prima e più importante ragione di incostituzionalità del Rosatellum 2.0 riguarda la impossibilità di esprimere la preferenza. I cittadini, in base alla nostra Carta, hanno il diritto di scegliere i loro rappresentanti. Ma non sarà così: due terzi dei parlamentari, deputati e senatori, saranno nominati da capi-partito con liste bloccate. Inoltre, un’altra cosa grave: nel sistema misto, stabilito dal governo, non scorporano gli eletti con i voti presi all’uninominale. In poche parole, i consensi all’uninominale vanno ad incrementare, alterandola, la quota proporzionale». Fonte: Corriere della Sera SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it