Vivere le conseguenze dell’Olocausto agli angoli della Storia

La scrittrice israeliana Esty G. Haym sarà in Italia dal 19 al 23 ottobre per due appuntamenti a Roma e Venezia L’autrice è a disposizione per interviste Una scrivania in un appartamento sul monte di Haifa. Un bicchiere di arak, una tazza di the verde per lavarsi la coscienza e una sigaretta che si consuma ogni volta come fosse l’ultima. Al centro, un’Olivetti Lettera 32, oggetto carico di simbologia, che non è solo un reperto da scrittore vintage, ma funziona come una sorta di macchina del tempo della memoria. Infatti, è battendo sui suoi tasti che Dvori Stern, cinquantenne insegnante disillusa, ricostruisce la storia di Ester-néni, una sorella minore della nonna piombata una notte a casa loro dall’Ungheria, dopo una travagliata fuga dalla cortina di ferro, con un bagaglio di sregolatezza e solarità, ma anche con un’indicibile tragedia nascosta tra le pieghe del passato. Ester-néni scriveva racconti in ungherese: è lei a introdurre Dvori al mondo della letteratura e a consegnarle l’Olivetti Lettera 32. Con la macchina le consegna anche il dovere della memoria, che presto si trasforma in un’indagine sul passato: su quella fuga rocambolesca dall’Ungheria, su ciò che Ester fece e ciò che non fece, sul perché salvò degli estranei anziché la sua famiglia… Vite agli angoli ci traghetta avanti e indietro nel tempo, raccontandoci la vita di quegli uomini e quelle donne che hanno vissuto agli angoli della Storia e le cui vicende sono scritte in una “lingua minore” che non trova spazio nei libri ma che, nondimeno, ha diritto a essere ricordata. Grazie al sostegno dell’Ufficio culturale dell’Ambasciata d’Israele, la scrittrice Esty G. Hayim sarà in Italia dal 19 ottobre per presentare il suo romanzo Vite agli angoli, pubblicato da Stampa Alternativa. Due gli appuntamenti fissati: A ROMA il 19 ottobre dalle 18.30 alla libreria Notebook dell’Auditorium Parco della Musica, dialogherà con l’autrice lo storico della Shoah Paolo Coen PIÙ INFORMAZIONI A VENEZIA il 22 ottobre alle ore 16, Esty G. Hayim incontrerà il giornalista, autore e traduttore Alon Altaras, presso il Museo Ebraico della Memoria in Campo di Ghetto Nuovo, 2902/b. L’AUTRICE – Esty G. Hayim (Giaffa, 1963), scrittrice e attrice tra le più note in Israele, ha studiato teatro e recitazione all’Università di Tel Aviv. Attualmente insegna scrittura creativa e scrive recensioni letterarie per i quotidiani del Paese. È autrice di quattro romanzi e di una raccolta di racconti brevi, che le sono valsi diversi premi. Vite agli angoli (Corner People) è stato pubblicato con grande successo di critica e ha ricevuto il Brenner Prize nel 2014. L’OPINIONE DI «HA’ARETZ» – «Il romanzo è assolutamente convincente nel seguire Dvori che, nella sua infanzia, vive in un mondo di fantasia e storie e, nella vita adulta, continua ad abitare nella stessa casa, spaventata dal mondo esterno. La scrittura è uno dei temi centrali: Dvori adulta sta scrivendo la storia della sua famiglia per dare voce alle “vite agli angoli” ma, allo stesso tempo, per affrancarsi finalmente da loro e dalle loro storie dell’Olocausto. Il romanzo va letto quindi anche come una via di fuga dalla e al contempo verso la storia familiare. Questa doppia fuga viene condotta con talento e coraggio, e dona al romanzo complessità e ricchezza». Avrahahm Balaban, «Ha’aretz»   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

UIKI : Il popolo curdo è preoccupato per le condizioni del leader Abdullah ÖCALAN

Appello Urgente alle istituzioni EU, alla Stampa e all’Opinione Pubblica Ci sono novità preoccupanti rispetto alla salute del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan. Negli ultimi due giorni alcune aree stanno diffondendo nei social media notizie sul fatto che Öcalan sarebbe morto in carcere. Noi come popolo curdo siamo preoccupati per la vita di Öcalan. Voci recenti e discussioni nei media turchi sul fatto se sia vivo o meno hanno creato gravi preoccupazioni tra i curdi in Turchia, nel Medio Oriente e in Europa, compresa l’UE. Tutti sono consapevoli della sensibilità del nostro popolo e del suo partito rispetto alla salute e alla vita del leader del popolo curdo. Tenendo a mente questo, è indispensabile che le novità che vengono diffuse non siano falsificate. Le dichiarazioni del Pubblico Ministero di Bursa non sono in alcun modo sufficienti. È un diritto fondamentale della sua famiglia, dei suoi rappresentanti legali e dell’opinione pubblica essere informati sulla salute di Öcalan. Per questa ragione deve essere permessa con urgenza una vista Öcalan da parte dei suoi legali e della sua famiglia. Non è possibile per il nostro popolo credere a una dichiarazione ufficiosa da parte del Pubblico Ministero di Bursa. Continueremo ad essere preoccupati fino a quando non avremo notizie su Abdullah Öcalan da una fonte affidabile. Il governo dell’AKP di Erdogan è direttamente responsabile per la sicurezza e la salute di Öcalan e ogni male di cui abbia sofferto. I suoi legali e la sua famiglia hanno il diritto di ricevere informazioni sulla sua situazione. • Facciamo appello al Comitato per la Prevenzione delle Tortura (CPT) perché intervenga per garantire che siano ottenute le informazioni necessarie. • Facciamo appello ai gruppi curdi e alle aree democratiche perché agiscano e chiedano spiegazioni sulla salute di Öcalan e la situazione della sua sicurezza. • Facciamo appello alle forze internazionali che hanno consegnato Öcalan alla Turchia il 15 febbraio 1999 perché intervengano in nome dell’umanità e delle loro responsabilità collettive sulla sua detenzione e sul suo processo di cui poi si è accertato che è stato iniquo e sul fatto che è stato accertato che è stato oggetto di tortura psicologica ai sensi della Convenzione Europea sui Diritti Umani (ECHR). Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia – UIKI Onlus SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

“Norme e prassi contrarie alla fiducia sulla legge elettorale messa alla Camera”

«L’INTERVISTA» Felice Besostri L’avvocato costituzionalista contesta gli argomenti usati per “blindare ” il testo Secondo “le norme e le prassi regolamentari” la presidente della Camera non poteva impedire al governo di porre la fiducia sulla legge elettorale. Così Laura Boldrini, dalle colonne del nostro giornale, ha voluto fugare ogni dubbio “sulla terzietà con la quale, anche in questo passaggio, ho esercitato la mia funzione”. Un richiamo strettamente tecnico alla consuetudine parlamentare e alla Costituzione che tuttavia non convince l’avvocato costituzionalista Felice Besostri, noto per aver presentato i ricorsi alla Consulta che hanno condotto all’abrogazione parziale del Porcellum e dell’Italicum: “Premetto che non voglio nemmeno adombrare che la presidente della Camera non abbia agito in buona fede: sarebbe troppo inquietante pensare il contrario di una delle quattro cariche di garanzia costituzionale”. Del resto, anche se avesse voluto impedire il voto di fiducia, i pareri degli uffici della Camera non lasciano dubbi. Capisco che venuta meno la prassi di nominare alla presidenza di una Camera parlamentari di lungo corso, con pratica di presidenza come vice, Boldrini non può che prendere per oro colato i suggerimenti degli uffici per i quali la prassi è Vangelo, tuttavia ci sono momenti in cui la sensibilità politica, istituzionale e soprattutto costituzionale della materia impone di verificare fino in fondo la prassi. Una prassi che però è con-solidata. Dice? In effetti l’unico precedente che giustifica la presidente è quello da lei stessa creato ammettendo tre voti di fiducia sull’Italicum nel 2015. Dimentica un precedente illustre nella storia repubblicana: al Senato, nella domenica delle Palme dell’8 marzo 1953 e porta la firma di Alcide De Gasperi. È vero, e non a caso gli uffici della Boldrini non ne fanno menzione, per tre buone ragioni; si capisce l’imbarazzo nel richiamarsi a una norma passata alla storia come “legge truffa”, ma c’è di più: il presidente della seduta di allora, Giuseppe Paratore, fece mettere a verbale, fatto inusitato, “Questo non rappresenta un precedente”. Inoltre quel “non precedente” non andava evocato dalla presidente Boldrini soprattutto perché Paratore, non avendo gradito l’imposizione del presidente del Consiglio – che si chiamava De Gasperi non Paolo Gentiloni – si dimise il 24 marzo successivo, 16 giorni dopo. Ma era un uomo di 77 anni e non agli esordi di una carriera politica. Le argomentazioni della presidente di Montecitorio non si fermano alle consuetudini: per Boldrini anche la fiducia rientra nella “procedura normale” di approvazione imposta dall’articolo 72 della Costituzione per i disegni di legge in materia elettorale. Al contrario: che non rientri nella normalità lo ha già detto la presidente Nilde Iotti nel 1980. Il famoso “lodo Iotti” prescrive che se viene posta la fiducia su una legge si esce dalla procedura normale e si entra in una speciale: del resto se fosse normale, argomenta la Iotti, quella cosa lì doveva stare nella parte seconda del regolamento della Camera dedicata al “Procedimento legislativo”, quindi al come si approvano le leggi e non nella parte terza dal titolo “Procedure di indirizzo, di controllo e di informazione”. Lo stesso regolamento della Camera, osserva ancora Boldrini, definisce dettagliatamente le materie sulle quali la questione di fiducia non può essere posta e le leggi elettorali non sono menzionate. Nell’elenco non si menzionano neanche le leggi costituzionali: la presidente abbia il coraggio di sostenere che si può approvare una riforma costituzionale con un voto di fiducia. Luciano Cerasa Fonte: Il Fatto quotidiano SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’ECCIDIO DI SAN GIOVANNI ROTONDO

Un oscuro episodio che si intreccia con la vita del frate di Pietrelcina Nel massacro di S. G. Rotondo Padre Pio fu con gli arditi neri Il 14 ottobre del 1920, durante il biennio rosso, 13 socialisti caddero vittime della reazione seguita alla vittoria socialista nelle elezioni amministrative del piccolo comune del Gargano. Perse la vita anche un carabiniere. (Tratto dalla relazione dell’Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza Vincenzo Trani al Ministro degli Interni  Roma, 3 Novembre1920) “La mattina del 14 ottobre 1920, il Partito Socialista intese festeggiare la propria vittoria elettorale organizzando un corteo con le bandiere rosse e la banda musicale. Il corteo, finito il secondo giro per le vie del paese, sostò in Piazza dei Martiri deciso a inalberare la bandiera rossa, simbolo della vittoria, su uno dei balconi del Municipio. I manifestanti trovarono l‘opposizione di un ingente schieramento formato da 40 carabinieri, 82 soldati e un centinaio di sconsigliati fascisti che, sentendosi adeguatamente spalleggiati, misero in atto provocazioni e invettive. FU UN ATTIMO. La folla si urtò contro la forza pubblica, detonarono colpi di pistola e di fucili”.  “San Giovanni Rotondo, paesello del forte e dimenticato Gargano è noto in Italia per i voluti miracoli di Padre Pio, miracoli che hanno formato la fortuna di parecchi speculatori”. Le parole che abbiamo riferito non sono state scritte in questi giorni dai corrispondenti scesi a S. Giovanni Rotondo a descrivere la mesta e solitaria Pasqua del padre di Pietrelcina, estromesso, per intervento del Vaticano, dalle funzioni della Settimana Santa, dopo che la sua attività di mistico taumaturgo ha suscitato sospetti e diffidenze persino nelle gerarchie ecclesiastiche. Queste parole sono l’inizio di una corrispondenza apparsa sull’Avanti! quarantuno anni fa, esattamente il 20 ottobre 1920, per un’occasione che non ha nulla a che vedere con le inchieste di oggi sugli episodi di fanatismo religioso e sulle losche speculazioni che superstizione e ingenuità hanno alimentato. Il titolo della corrispondenza era infatti: “Il massacro di San Giovanni Rotondo”. Il massacro era avvenuto sei giorni prima, il 6 ottobre, e fu uno dei tanti che insanguinarono l’Italia nel periodo che va sotto il nome di biennio rosso, allorché più violenta si scatenò l’aggressione degli squadristi di ogni risma, fratelli della polizia e della guardia regia contro i lavoratori e le loro organizzazioni. Il legame tra Padre Pio e il sanguinoso episodio non si limita alla circostanza che il fatto avvenne nello stesso luogo dove già allora egli si era acquistato fama di artefice di miracoli più o meno “voluti”. A quell’epoca Padre Pio non era il mistico contemplativo, spargitore di grazie, che conosciamo oggi. Era anche questo, ma sebbene provato, riferiscono intempestivi agiografi – dalle notturne lotte col demonio “da cui riportava i segni visibili sul corpo”, il trentaquattrenne cappuccino conservava forza bastante per dedicarsi ad altro genere di lotte. E le lotte di quel tempo si combattevano nel modo che tutti sanno, ma Padre Pio non era uomo da tirarsi indietro. Egli aveva dato dimostrazione della sua energia fin dal primo momento che mise piede a San Giovanni Rotondo. Le cose nel paesello non andavano troppo bene. Le chiese erano poco frequentate, le osterie, invece, rigurgitavano, a quanto pare, di avvinazzati bestemmiatori. L’arrivo del frate bastò a modificare la situazione: le osterie si fecero deserte, le chiese si ripopolarono. Afferma una biografia che “sparì la bestemmia, risanarono le famiglie, si placarono gli odi e cessarono le contese”. L’effetto di tutto ciò, racconta sempre la biografia dello stigmatizzato di San Giovanni, fu che “gli avvocati non avevano più nulla da fare”. Ma la quiete non fu di lunga durata se di lì a qualche anno, cioè nel 1920, il frate di Pietrelcina si trovò a fronteggiare una situazione estremamente grave, dalla quale il 14 ottobre di quell’anno scaturì il massacro di cui parlava il nostro giornale, un eccidio in cui si ebbero 11 morti e ottanta feriti. Quale fu la parte di Padre Pio e dei suoi frati in quell’episodio e negli eventi che lo precedettero? I fatti si possono ricostruire dalla cronaca che ne dette l’Avanti! nel suo numero del 20 ottobre 1920, e dagli atti parlamentari relativi alla discussione che si svolse alla Camera il 5 dicembre dello stesso anno sul tragico episodio. Nel 1920 si stava procedendo in tutta Italia alle elezioni amministrative che segnavano un notevole successo dei socialisti. Si doveva votare anche a San Giovanni Rotondo che era retto da un commissario prefettizio, un certo Carmelo Romano, un individuo su cui pendeva anche un processo per violenza carnale. Per il timore di una vittoria socialista, si tentò di rinviare le elezioni, si verificarono diversi episodi di violenza e di intimidazione, ma infine la popolazione di San Giovanni Rotondo andò alle urne. Il blocco conservatore agrario che si esprimeva nei cosiddetti libero-popolari fu sconfitto: i socialisti ebbero la maggioranza col 1069 dei voti contro 850. Per il rinvio delle elezioni si era mosso quello che il deputato socialista Mucci nella discussione alla Camera, chiamò blocco o fascio d’ordine, che, precisò, “andava dai combattenti patriottici a Padre Pio e agli arditi neri”. In questo modo il nome del taumaturgo fu direttamente legato se non all’episodio del massacro ai suoi antefatti, alle cause che lo determinarono e ai gruppi che lo provocarono. Il clero del luogo si era dato un gran daffare per favorire nella campagna elettorale il blocco conservatore e nazionalista ma il suo intervento non era valso a mutare l’esito della consultazione. Essendosi mossi “preti e frati che in quel paese abbondano” – come si legge nel vecchio numero del nostro giornale – è difficile credere che Padre Pio non se ne era stato con le mani in mano. I socialisti, a suo giudizio, dovevano minacciare il prezioso lavoro di bonifica delle osterie che, a quanto affermano i suoi biografi, egli aveva felicemente compiuto. E’ certo comunque, perché l’affermazione di Mucci non viene contestata dal sottosegretario agli Interni Corradini, che Padre Pio era un personaggio di rilievo nel “fascio d’ordine” che tentò dapprima di opporsi alle elezioni e che …

Lina Merlin una madre della Repubblica

Lina Merlin, dopo il confino in Sardegna, perseguitata dal fascismo, si trasferisce a Milano che elegge a sua città di adozione. Vive e lavora nel quartiere Lambrate in Via Catalani 63, dove si riuniscono i promotori dell’insurrezione milanese del 1945. Insegna in casa e poi al Caterina da Siena, per l’impegno profuso dalla Preside Ines Saracchi, fonda i Gruppi di Difesa della Donna ed è tra le promotrici dell’Unione Donne Italiane a Milano. Il 27 aprile 1945 viene nominata Vicecommissario alla Pubblica Istruzione nel Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia e il 29 giugno è chiamata a far parte della direzione nazionale del partito socialista, in qualità di responsabile della commissione femminile. A Milano, con Carla Barberis Voltolina, raccoglie e pubblica le lettere a lei spedite dalle prostitute italiane. Eletta prima Senatrice della Repubblica Italiana nel 1948, nel 1958 è poi eletta alla Camera dei Deputati nella circoscrizione di Verona-Padova- Vicenza -Rovigo, ma tiene comunque una casa in periferia a Milano, in Via Martignoni, dove stabilisce rapporti con la Società Umanitaria per un progetto per il “suo” Polesine. Trasferitasi ormai bisognosa di assistenza a Padova, esprime la volontà di essere sepolta a Milano, e la città a cui era tanto legata decide che Lina Merlin trovi posto nel Famedio del Cimitero Monumentale. Una figura dunque importante nella storia d’Italia, e di Milano in particolare, che si vuole non solo ricordare ma far conoscere soprattutto alle nuove generazioni, per l’impegno politico e sociale da lei profuso e per affrontare questioni, come quella dello sfruttamento della prostituzione, da lei aperte ma mai fino in fondo risolte anche ai giorni nostri.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

Dopo il Che, come e più del Che: Thomas Sankara vive!

di Carlo Felici Non si è ancora spenta l’eco delle commemorazioni del cinquantenario della morte del Che, che dovrebbe iniziare la celebrazione di un altro straordinario Comandante-Presidente che fu, in tutto e per tutto, allievo del Che in Africa. Eppure, stentiamo a vedere manifesti o altro che lo riguardi. Perciò, per quanto ci è possibile, cerchiamo di colmare questo vuoto, forse dovuto al fatto che questo altro grandissimo personaggio del XX secolo è andato ancora più avanti, nel suo progetto di contestazione globale dell’imperialismo e del capitalismo, rispetto al Che, in una realtà più vicina a quella nostra contemporanea, e pertanto risulta ancora più “scomodo”. Thomas Sankara fu assassinato 30 anni fa, dopo avere cambiato radicalmente il volto e persino il nome del Paese di cui fu Presidente, dal 1983 al 1987. Fu inzialmente Primo Ministro di un governo che lo epurò e lo mise in prigione per le sue idee alquanto controcorrente, dopo soli quattro mesi dal suo insediamento. Ma, in seguito a tumultuose rivolte popolari, dopo essere stato liberato a furor di popolo, si prese la rivincita impadronendosi del potere con una rivoluzione armata. Si insediò in uno dei più poveri paesi africani, con un progetto ambiziosissimo che entrò nella nuova Costituzione: rendere felice il suo popolo. Innanzitutto cambiò nome a quello che allora si chiamava Alto Volta, una vecchia colonia francese sottomessa in tutto e per tutto a nuove forme di neocolonialismo che l’avevano resa completamente dipendente dalle importazioni, e con un debito crescente di proporzioni catastrofiche. Chiamò quel paese Burkina Faso, la “terra degli uomini liberi e integri”, con lo scopo di risollevare le sorti del suo popolo, sottraendolo non solo al colonialismo economico, ma anche a quello culturale. Diceva infatti Sankara: “Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”. Così, dopo un vasto programma per sottrarre terra alla desertificazione ed incrementare la produzione agricola, sviluppò la produzione per l’industria tessile locale, favorendo l’acquisto ed il consumo interno di manufatti prodotti nel suo paese. Come il Che, era convinto che solo l’esempio potesse trascinare il popolo e spingerlo ad una mobilitazione generale, di conseguenza ridusse il suo stipendio e tutto quello della classe dirigente del suo paese, azzerando l’uso delle auto blu ed utilizzando solo una utilitaria, con i risparmi promosse una campagna di vaccinazione di massa, contro il morbillo, la meningite e la febbre gialla, furono costruiti nuovi ospedali e dispensari di medicine nei vari villaggi. Venne varato un vasto programma di scolarizzazione con la costruzione di nuove scuole ed una lotta capillare all’analfabetismo, che tolse dalla strada quasi tutti i bambini del Burkina Faso. Sankara capì che i programmi del FMI, varati per sostenere il cosiddetto sviluppo del suo paese, non erano altro che forme subdole per incrementare il debito, privatizzare le risorse e rendere servi i suoi concittadini, rifiutò pertanto gli aiuti, mise in atto un piano di autosufficienza alimentare basato sullo sviluppo delle campagne e delle risorse locali per produrre e diffondere beni di prima necessità, a partire dal pane per il quale non fu più utilizzato il mais che doveva essere importato, ma la farina di miglio prodotta in loco. Tutto ciò potè garantire a tutti almeno due pasti al giorno e circa 5 litri d’acqua quotidiani pro capite, un vero e proprio miracolo di autopromozione mai realizzato prima in Africa, e dovuto in gran parte al grandissimo entusiasmo ed alla partecipazione di tutta la popolazione a tale sforzo di crescita, in particolare delle donne. Le donne, infatti, ricevettero da Sankara una grandissima attenzione nel loro processo di emancipazione, un evento straordinario per un continente in cui per millenni erano state condannate ad una condizione di sudditanza, e tuttora un esempio di grandissima rilevanza, considerando l’estendersi di un radicalismo islamico che continua a relegarle ad un ruolo subordinato alle esigenze maschili. Sankara fu un ecosocialista, un grandissimo innovatore: 1) sul piano ecologico, perché comprese che valorizzare le risorse ambientali avrebbe contribuito enormemente ad incrementare le risorse sociali, 2) sul piano umano, perché capì che una mobilitazione di massa non può prescindere dal coinvolgimento delle donne come protagoniste contemporaneamente della loro emancipazione e di quella del loro paese, 3) e sul piano economico perché fu pianamente consapevole che la servitù dei paesi poveri è incrementata dal loro debito e che tale catena non va allentata a poco a poco, ma spezzata definitivamente. Sankara fu ucciso perché ebbe l’ardire di contestare il suo partner principale: la Francia, paese che lo aveva colonizzato, rimproverando persino senza mezzi termini ad un presidente socialista come Mitterand di fare affari con un paese razzista come il Sudafrica, e perché ambiva a creare un esempio da diffondere in tutto il continente su come fosse possibile e necessario sfuggire alla schiavitù neocoloniale. La stessa che spinge gli abitanti del continente più ricco al mondo di materie prime ad essere i più poveri del globo, e a fuggire altrove, affollando le rotte migratorie verso l’Europa per nuove forme di schiavitù salariale. Se l’Africa fosse diventata come Sankara la voleva, non avremmo mai avuto masse così imponenti di migranti affacciarsi alle nostre coste, né miliardi affluire nelle tasche dei più loschi e crudeli trafficanti di ogni genere, in combutta con le peggiori mafie. Sankara pronunciò un discorso epocale contro il debito che tuttora è un capolavoro di denuncia e consapevolezza contro un mondo in cui la globalizzazione a senso unico neoliberista produce al contempo disastri sociali ed ambientali di proporzioni apocalittiche. Ne citiamo alcuni passaggi emblematici anche per la lotta contro certi inconcludenti integralismi religiosi alimentati ad arte proprio per contestare tali forme autentiche di socialismo quali quelle messe in atto dallo stesso Sankara a prezzo della sua vita: “La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino …

“Le prerogative parlamentari umiliate”

“… il raffronto tra la legge Acerbo e le condizioni in cui fu votata nel 1923 e la vostra legge e le condizioni in cui sta per essere votata è sulle labbra di tutti. Potremmo dirvi: ‘Buon appetito, signori, e arrivederci’. Non lo diciamo. Con il nostro atteggiamento nell’imminente voto di fiducia, intendiamo richiamarvi alla nozione esatta della situazione ed a una valutazione non esagerata dell’idea che vi fate dei vostri mezzi. Nelle condizioni create dagli arbitrii governativi e della maggioranza, di fronte all’incostituzionalità della procedura ed alle clamorose violazioni del regolamento e della prassi parlamentare, il modo più eloquente che ha la sinistra per separare le proprie responsabilità da quelle del Governo e della maggioranza, è di non partecipare alla votazione al fine di meglio sottolinearne la illegalità. Perciò l’opposizione ha deciso di non partecipare alle votazioni. Essa confida nel Senato della Repubblica perché le prerogative parlamentari umiliate in questo ramo del Parlamento siano ristabilite nella loro integrità; essa si riserva di informare il Presidente della Repubblica della situazione che si è creata alla Camera; essa fa appello al popolo perché dia di nuovo alla Repubblica e alla democrazia il suo vero volto, il volto della Resistenza”. Pietro Nenni – Camera dei Deputati, 18 gennaio 1953 SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

XLVII Congresso Psi 1994

XLVII Congresso – Roma 11-12 novembre 1994 Il XLVII congresso, svoltosi l’11 e il 12 novembre 1994, decise a maggioranza lo scioglimento definitivo del Psi. La maggioranza dell’Assemblea, preso atto della gravissima crisi politica e dell’insostenibile situazione finanziaria in cui versava il partito, decise la messa in liquidazione del PSI e, di fatto, il suo scioglimento.       SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

ANOMALIE A SINISTRA

(In questo numero de “Le ragioni del Socialismo” fu pubblicato un articolo di Gino Giugni , il quale intervenne nel dibattito aperto dalla rivista sulle prospettive della sinistra e sulla diaspora socialista). La natura non fa salti, e meno che mai accetta fughe in avanti. E in questa trappola rischia davvero di cadere l’alternativa tra partito democratico o dell’Ulivo e ipotetico partito socialdemocratico, punto di arrivo del grande travaglio del socialismo italiano: un travaglio che dura, a dir poco, dal lontanissimo giorno della scissione di Livorno. E’ risultato evidente che l’area dell’Ulivo, come ha dimostrato lo scarto positivo di quest’ultima rispetto all’esito proporzionale, gode di un vantaggio. Ma non è affatto detto che il modulo della coalizione, quello che ha presieduto alle positive sorti dell’Ulivo stesso, conduca ad una coincidenza necessaria tra quest’ultimo e l’area del partito che occupi, nell’ambito della coalizione stessa, la posizione di sinistra. Quest’ultima corrisponde oggi, la si chiami come si vuole, al modulo della socialdemocrazia. Ed essa poggia su consistenti basi. In primo luogo, vien da considerare l’organizzazione compatta e capillare che si è formata intorno al Pci, e che già dopo la Liberazione era divenuta patrimonio proprio, contestato debolmente, ed un po’ anche irresponsabilmente, dal Psi di allora. E’ una constatazione che va messa in primo piano: le solide e profonde radici di quello che fu all’origine un partito della Terza Internazionale hanno potuto attraversare un’autentica mutazione genetica (mai tale espressione fu impiegata così a proposito) grazie alla scelta di darsi un’organizzazione di massa, capace di resistere e, in larga misura, di manifestarsi poco sensibile al mutamento ideologico che veniva a svolgersi per lo meno dagli anni Sessanta in avanti. In secondo luogo, l’appello europeo dovrebbe operare come una spinta alla “normalizzazione” rispetto alla anomalia italiana, costituita dal venir meno di una rappresentanza socialista nelle istituzioni europee e determinata dal collasso del partito socialista, ormai scomparso anche dalla scena parlamentare. Le anomalie, da questo punto di vista, alla fine dei conti sono due, simmetriche tra loro: ossia, la scomparsa dell’entità socialista o socialdemocratica e il consolidamento egemonico, nell’ambito della sinistra, di quella anomala creatura che è il Pds, partito di fisionomia ben radicata nella realtà politica italiana, ma tuttora non assimilabile a nessuno dei modelli europei, o almeno a quelli dell’Europa occidentale, e forse unico nel suo genere: ed infatti l’accostamento a partiti postcomunisti, all’Est ma anche all’Ovest, sarebbe approssimativo e ingannevole. L’anomalia italiana occulta una realtà non decifrabile a prima vista. Quanti pensano ad una tabula rasa, o alla Storia che viene riscritta ex novo, si pongono fuori da ogni realistica interpretazione di vicende umane. Il Pds custodisce una sua memoria collettiva, di cui è anzi tutore molto geloso. Ma il passaggio che si tende a rimuovere è quella parte di quella storia che appartiene al “passato di un’illusione”, per usare qui la fortunata espressione di Furet. E questo passato è quello del Pci, che ad esso non può contrapporre l’artificio di un nuovismo ideologico, impiantato sul tronco di qualche pianta esotica, oppure sulla ricerca di una filosofia indigena che potrebbe nutrirsi anch’essa di una generosa e nuova illusione. Il tentativo più rigoroso compiuto negli anni Sessanta e Settanta fu quello che venne banalizzato nella definizione di cattocomunismo, e che in termini volgarizzati si espresse nell’idea di una “diversità” e di una separatezza in gran parte costruita sull’impervio impianto di una etica esclusiva di partito. A questa ipotesi “autoctona” o “indigena” è possibile invece opporne un’altra, quella che ci dovrebbe far entrare pienamente nell’area politica ma, prima ancora, in quella culturale della socialdemocrazia europea. Beninteso: la stessa terminologia “socialdemocrazia” allude ad una realtà tutt’altro che semplice e semplificabile. La socialdemocrazia in versione europea, oltre ad assumere identità diverse in ragione di percorsi storici propri, è in realtà un crogiolo, un crocevia in cui si ritrovano culture diverse; è, se vogliamo, una spugna la cui efficacia è stata dimostrata dalla capacità di assimilare esperienze diverse, dal pensiero sociale di varie appartenenze confessionali, fino alle grandi realizzazioni del liberalismo, da Roosevelt a Beveridge. La via orientabile a superare l’anomalia italiana è costituita, pertanto, invece dall’innesto della corposa realtà del postcomunismo italiano sulle antiche radici del socialismo e principalmente sulla memoria collettiva e storica segnata dalla appartenenza comune dei due partiti storici. Non è qui in gioco il tema, pur non trascurabile, del recupero di energie, quadri, appartenenze che si chiamarono un tempo socialiste senza ulteriori qualificazioni. Né è in questione in questa sede il tema delle varie diaspore da cui il socialismo italiano è uscito letteralmente distrutto. La diaspora socialista presenta vari aspetti, tra loro difficilmente ricomponibili, alcune delle quali che vanno dalle appartenenze nuove, visibilmente incompatibili con l’identità socialista, e interpretabili soltanto attraverso il modulo della mutazione genetica, fino al transito verso la destinazione finale in cui si comprendano le due sponde postcomuniste. E’ un aspetto che merita attenzione. Ma quello che interessa in questa sede, per rispondere alla domanda posta all’inizio, è se il percorso innovativo dovrà essere scelto nella ricerca della via tutta nuova di una identità diversa che riesca a procedere innanzi rispetto alla tradizione postcomunista e a quella non meno profondamente solcata nella nostra storia, del cattolicesimo democratico, o se riterrà di appoggiarsi al dato di una continuità interrotta, ma visibile nella nostra storia come nella nostra appartenenza geografica. Sono due strade legittime e rispettabili. Ma, forse, la prima di esse, l’Ulivo che tutto copre e comprende, potrebbe assomigliare un pò al sogno dei grandi navigatori, che partirono per buscar el poniente por el levante. E infatti, approdarono in terre nuove. Ci scoprirono l’America, ma la popolazione indigena ne pagò un caro prezzo. Gino Giugni Le Ragioni del Socialismo – Mensile di Politica e Cultura diretto da Emanuele Macaluso – Giugno 1996   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una …

MIGRANTI: MARRAMAO, NO RAZZE MA ESSERI UMANI UGUALI E DIFFERENTI

di Carlo Patrignani Umano e inumano: è su questi due aggettivi, tornati prepotentemente alla ribalta per l’inedito fenomeno dell’emigrazione con i suoi conflitti etnici e nazionali, con le lotte a dominanza religiosa connesse, che la sinistra si gioca il suo futuro, la sua esistenza, nel mondo gliobalizzato, come fosse una partita a scacchi. Cos’è, dunque, l’umano e il suo opposto, l’inumano? Qual’è la linea di demarcazione tra i due? Le grandi, inumane tragedie del ‘900: Auschwitz e i forni crematori per l’eliminazione, non solo fisica, di ebrei, omosessuali, malati di mente, di chi non si riteneva degno di far parte della razza ariana, è l’immediata, secca risposta del filosofo Giacomo Marramao, ordinario di Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo Università degli Studi Roma Tre, che accusa, alla luce dei vergognosi lager libici dove rinchiudere i migranti, le élites politiche italiane e europee di pochezza culturale, perchè senza una visione alta del fenomeno destinato a durare a lungo. Dopodichè, il filosofo di fama mondiale e già direttore scientifico della Fondazione Lelio Basso-Issoco, senza esitazione alcuna, declina cos’è che, per lui, fa l’umano, da non legare mai – scandisce – alla superiorità, parola cardine del nazismo. Cos’è che, per me, fa l’umano? E’ l’affermazione, indiscutibile, del principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani, a prescindere dalla cultura, dal colore della pelle, dalla religione professata, dalla lingua parlata. Attenzione, però. L’uguaglianza deve andar insieme, accompagnarsi sempre, a un’altra parola: la differenza, dell’altro naturalmente, per evitare la perniciosa deriva dell’assimilazione e dell’omologazione, come dell’integrazione e della stessa accoglienza, già fallite in Europa, che tolgono senso e valore alla differenza, che, oltre a essere un arricchimento culturale e una risorsa, è il solo criterio per costruire l’uguaglianza. Marramao, non le manda a dire: il coraggio e la competenza ne sono la formidabile leva e così, senza tanti giri di parole, ribadisce la sua adesione, entusiastica, alla teoria della nascita dello psichiatra dell’Analisi collettiva, Massimo Fagioli, per il quale: tutti gli esseri umani sono uguali per la nascita, non per un fatto culturale o politico, e poi diventano diversi per identità e per pensiero. Con Massimo ho avuto tante belle discussioni e molti interessanti incontri – come, due anni fa circa, l’affollatissima Aula Magna del 2015 per festeggiare i 40 anni dell’Analisi collettiva – di altissimo profilo culturale: il suo è stato, è un pensiero rivoluzionario, in cui mi ci sono ritrovato e mi ci ritrovo. Non ci sono le razze umane, ma gli esseri umani, uguali e differenti o diversi, come non ha valore alcuno la logica identitaria o d’appartenenza, causa dei mali – razzismo, xenofobia, discriminazione – che affliggono il mondo e soprattutto le società occidentali. Il punto di partenza, anche di una nuova antropologia umana, dev’essere la battaglia e l’affermazione dell’universalità della differenza o della diversità se si vuole costruire l’uguaglianza. Ci sta, nella appassionata conversazione, il richiamo che Marramao fa, di passaggio, al ’68, all’esplosione, 40 anni fa, di una ribellione, fallita, allo status quo: la libertà assoluta tanto declamata più che cambiare il mondo finì nella lotta armata, nella droga, nella conversione religiosa e nell’abbraccio con il capitalista da abbattere. Rispetto ad oggi, quella generazione, cui appartengo, aveva una visione cosmopolita del mondo: oggi l’incontro con l’altro, il migrante, non è vissuto con l’atteggiamento di una straordinaria occasione di apertura e arricchimento culturale, di curiosità e di socializzazione come allora. Non c’era il terrore dell’altro visto come un intruso da respingere. C’è stata, quarant’anni dopo il ’68, una mutazione antropologica negativa che ha soppiantato il cosmopolitismo sostituendolo con la logica identitaria e d’appartenza, che, per certi aspetti, non esito a definire patologica. La stella polare, di bobbiana memoria, dell’uguaglianza, per distinguere destra e sinistra, oggi si deve coniugare, accompagnare con l’altra parola: la differenza o la diversità, perchè in ballo non c’è soltanto il migrante, ma anche la donna. E’ questo dell’uguaglianza e della differenza o diversità, il test decisivo per il futuro della sinistra: un test che riguarda tanto il migrante quanto la donna, alla quale va riconosciuto, senza se e senza ma, non solo di essere un essere umano, ma di avere una sua specifica, originale differenza, per identità e per pensiero soprattutto, quindi non solo fisica, dall’uomo. E’ questa una sfida culturale enorme e difficile, ma non impossibile, conclude Marramao. Fonte: alganews.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it