Felice Carlo Besostri: PERCHE’ L’ITALIKUM E’ INCOSTITUZIONALE

«1) E’ una legge per un solo ramo del parlamento, non ha senso sacrificare la rappresentanza per la governabilità in un solo ramo del parlamento quando la fiducia deve essere votata dai due rami; 2) Premio di maggioranza abnorme e per di più indirettamente proporzionale al consenso sia al primo turno ma specialmente al ballottaggio; 3) Ballottaggio non prevede soglia minima di accesso al premio di maggioranza delle liste ammesse; 4) Per primo e secondo turno assenza di ogni parametro di partecipazione al voto rispetto agli aventi diritto; 5) Riserva di legge di 12 parlamentari a Val d’Aosta e Trentino Alto Adige con legge ordinaria: lo stesso numero di Italiani all’Estero, ma in questo caso con norma costituzionale. Sia italiani all’estero che valdostani e trentin-altoatesini sudtirolesi eleggono al primo turno la loro rappresentanza, ma se c’è ballottaggio i valdostani trentin altoatesini sudtirolesi partecipano al secondo turno, italiani all’estero no. Voto italiani all’estero non si conta per premio di maggioranza, quindi liste collegate possono superare i 340 seggi. 6) Sempre premio di maggioranza viola voto diretto e personale perché elezione non dipende da scelta di elettori della circoscrizione dove sei candidato. 7) Privilegio capilista, voto non diretto e personale, violazione art. 51 Cost. in violazione di art.3 Cost. ed in assenza di una legge sui partiti politici ex art. 49 Costituzione. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

FILIPPO TURATI

Filippo Turati nasce a Canzo (Como) il 26 novembre 1857. Frequenta il liceo classico Ugo Foscolo di Pavia e sin da giovanissimo collabora con varie riviste d’orientamento democratico e radicale. E’ ricordato per la sua linea politica marxista, influenzata fortemente dalle idee della compagna russa Anna Kuliscioff, nonchè dallo stretto rapporto con gli ambienti operai milanesi. Nel 1886 Turati sostiene apertamente il Partito Operaio Italiano, fondato a Milano nel 1882 dagli artigiani Giuseppe Croce e Costantino Lazzari, per poi fondare nel 1889 la Lega Socialista Milanese, ispirata a un marxismo non dogmatico (l’emancipazione del proletariato costituisce l’obiettivo, ma si deve mirare ad ottenerla attraverso le riforme), che rifiutava apertamente l’anarchia. er 35 anni, dal 1891 al 1926, dirige la rivista “Critica sociale”. Al congresso operaio italiano (Milano, 2 e 3 agosto 1892) si decide di fondare il periodico “Lotta di classe”. Il “Giornale dei lavoratori italiani” nasce poi il 30 luglio 1892: sarà diretto formalmente da Camillo Prampolini, ma di fatto dalla coppia Turati e Kuliscioff. Filippo Turati avrebbe voluto un organo in cui far confluire tutte le organizzazioni popolari, operaie e contadine: queste idee vengono accolte al congresso di Genova del 1892, occasione in cui nasce il Partito dei Lavoratori Italiani, divenuto poi Partito Socialista Italiano nel 1895; la formazione del partito ha un’impronta riformista e utilizzerà la lotta parlamentare per soddisfare le aspirazioni sindacali. Turati si candida al Parlamento e viene eletto deputato nel giugno del 1896. Nonostante il Presidente del Consiglio Francesco Crispi tentasse di bandire tutte le organizzazioni di sinistra, Turati si fa fautore di un’apertura all’area repubblicana mazziniana e a quella radicale, nel tentativo di dare una svolta democratica al governo: il giorno 1 marzo 1899 viene dichiarato decaduto dal mandato parlamentare e messo agli arresti con l’accusa d’aver guidato la cosiddetta “protesta dello stomaco” di Milano; Turati viene tuttavia liberato il successivo 26 marzo in quanto rieletto alle elezioni suppletive: farà ostruzionismo contro il governo reazionario di Luigi Pelloux. Nel 1901, in sintonia con le sue istanze “minimaliste” (il cosiddetto programma minimo, che si poneva come obiettivi parziali riforme, che i socialisti riformisti intendevano concordare con le forze politiche moderate oppure realizzare direttamente qualora al governo), Turati appoggia prima il governo liberale moderato presieduto da Giuseppe Zanardelli, e successivamente (nel 1903) quello di Giovanni Giolitti, che nel 1904 approva importanti provvedimenti di legislazione sociale (leggi sulla tutela del lavoro delle donne e dei bambini, infortuni, invalidità e vecchiaia; comitati consultivi per il lavoro). A causa della politica messa in atto da Giolitti, la quale favoriva solo gli operai meglio organizzati, la corrente di sinistra del PSI, capeggiata dal rivoluzionario Arturo Labriola e dall’intransigente Enrico Ferri, mette in minoranza la corrente di Turati nel congresso che si svolge a Bologna nel 1904. La corrente riformista torna a prevalere nel congresso del 1908 in alleanza agli integralisti di Oddino Morgari; negli anni seguenti Turati rappresenta la personalità principale del gruppo parlamentare del PSI, generalmente più riformista del partito stesso. In questa veste si ritrova come l’interlocutore privilegiato di Giolitti, che stava allora perseguendo una politica di attenzione alle emergenti forze di sinistra. La crisi della guerra di Libia del 1911 provoca una frattura irrimediabile tra il governo giolittiano e il PSI, in cui peraltro stavano di nuovo prevalendo le correnti massimaliste. Turati sarà favorevole all’interventismo dopo la disfatta di Caporetto del 1917, convinto che in quel momento la difesa della patria in pericolo fosse più importante della lotta di classe. Turati è un pensatore pacifista: la guerra per lui non può risolvere alcun problema. È avversario del fascismo ma anche della rivoluzione sovietica, che è un fenomeno geograficamente limitato e non esportabile e che non fa uso di intelligenza, libertà, e civiltà. Nel dopoguerra e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il PSI si sposta sempre più su posizioni rivoluzionarie, emarginando i riformisti; nell’ottobre 1922 Filippo Turati viene espulso dal partito. Dà vita al Partito Socialista Unitario assieme a Giuseppe Modigliani e Claudio Treves. Per Turati il fascismo non è solo mancanza di libertà ma minaccia per l?ordine mondiale: Turati individua elementi comuni tra fascismo e comunismo sovietico perché entrambi ripudiano i valori del parlamentarismo. Le sue tesi erano in collisione con la dottrina del socialfascismo adottata fino al 1935 dal Comintern e quindi dal partito comunista italiano. A seguito del delitto Matteotti partecipa alla secessione dell’Aventino, e nel 1926 a causa delle persecuzioni del regime fascista, è costretto a fuggire prima in Corsica e poi in Francia (con l’aiuto di Italo Oxilia, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e Carlo Rosselli); dalla Francia svolge un’intensa attività antifascista, collaborando tra l’altro al quindicinale “Rinascita socialista”. Nel 1930 collabora con Pietro Nenni per la riunificazione del PSI: morirà a Parigi due anni dopo, il 29 marzo 1932, all’età di 75 anni. Fonte: Biografia SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIACOMO MATTEOTTI

Giacomo Matteotti nacque il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, un piccolo paese non distante da Rovigo. Era una famiglia di modesta estrazione la sua e Giacomo era ancora uno studente del liceo Celio di Rovigo quando la politica entrò nella sua vita. Fu il primogenito della famiglia Matteotti, Matteo, a far incontrare all’allora tredicenne Giacomo il socialismo. Dopo le prime esperienze di militanza attiva nella sezione giovanile del partito prese la tessera nel 1904. Il Psi era nato da poco e la sua struttura doveva ancora formarsi. I partiti di massa erano un’assoluta novità del nuovo secolo. Fino a qualche decina di anni prima in Italia, attraverso sbarramenti di censo e di istruzione, gli ammessi al voto erano poche migliaia. Esisteva un rapporto pressoché personale tra gli eletti e gli elettori. Il neonato Partito Socialista, riuscì ad affermarsi perché già radicato sul territorio. Esisteva infatti una fitta rete di leghe, cooperative agricole, associazioni, che oltre ad occuparsi di istruzione e formazione, aiutavano i militanti nei momenti di difficoltà e li federavano. A questa parte di mutuo soccorso si aggiunse negli anni quella più strettamente politica. Il giovane Giacomo operò attivamente e a lungo nelle cooperative. La grande guerra Si laureò in legge a Bologna nel 1907, ma quando venne candidato alle elezioni per il Consiglio provinciale di Rovigo e venne poi eletto lascio la giurisprudenza per occuparsi a tempo pieno di politica. Tra massimalisti e riformisti, Giacomo scelse i secondi e come rappresentante di questa corrente divenne consigliere in una decina di comuni, Sindaco di Villamarzana del 1912 e di Boara Polesine dal 1914, guidò poi l’opposizione socialista nel Consiglio provinciale di Rovigo. I vertici del partito si accorsero di lui in occasione del congresso dei comuni socialisti tenutosi a Bologna nel 1916 e, nello stesso anno, Matteotti fu eletto segretario. Era intanto scoppiata la Prima Guerra Mondiale, destinata a cambiare per sempre gli equilibri tra le nazioni europee, ma anche la gestione interna del potere all’interno dei singoli Stati. L’Italia all’inizio si tenne fuori dal conflitto. Giolitti sperava di mercanteggiare la neutralità del nostro paese per ottenere, senza spargimento di sangue, i territori che le guerre di indipendenza non avevano ancora annesso all’Italia, ma nel 1915, spinto dalla piazza e dalla corona, il Parlamento dichiarò guerra all’Austria. Matteotti, dalle colonne del periodico polesano Lotta proletaria, di cui era redattore dal 1912, fu in prima linea nella lotta del Partito Socialista per tentare di impedire la carneficina. Anche tra le forze di sinistra c’era chi aveva spinto per la guerra, vedendo in essa l’opportunità di lottare contro i governi reazionari. Matteotti non cadde in questo equivoco e pagò in prima persona il suo strenuo impegno antibellicista, scontando una condanna a trenta giorni di reclusione. Chiamato alle armi nel luglio 1916 venne congedato nel marzo 1919. Immediatamente tornò alla polita a tempo pieno e riprese l’opera di amministratore ed organizzatore. Le difficili lotte dei bracciantili del Polesine lo videro ancora in prima linea. Quest’impegno fu ciò che lo traghettò alla Camera. Fu eletto deputato nella circoscrizione di Ferrara-Rovigo, carica confermata nel 1921 e 1924 per la circoscrizione di Padova-Rovigo. La lunga attività nelle cooperative, l’esperienza nelle leghe l’aveva reso particolarmente competente in materia finanziaria e amministrativa. Il fascismo Così entrò nella giunta del bilancio e della commissione finanza e tesoro della Camera. Comprese il fascismo fin da subito. Per molti il Partito dei Fasci da combattimento era uno dei tanti movimenti post bellici, che crescevano nel malcontento e nella frustrazione degli ex combattenti. Una piccola formazione destinata a scomparire, ad essere riassorbita, non appena la vita della nazione fosse tornata alla normalità. Così il vecchio partito liberare lasciava correre le violenze, evitava che l’esercito o la polizia intervenissero durante le spedizioni punitive che i fascisti compivano contro i giornali, contro le cooperative di mutuo soccorso, contro chi manifesta e scioperava. Gli industriali che si erano arricchiti con la guerra, gli agrari del nord, trovarono così in esso quella mano forte che poteva fermare i movimenti popolari. Ma Matteotti, fin dal suo nascere, fu un critico intransigente del fascismo, comprendendone il pericolo e la carica eversiva. Per questo fu duramente perseguitato e costretto a lasciare la sua regione già dal 1921. La crisi in cui l’Italia versava si rifletteva anche nei partiti di sinistra. Nell’ottobre 1922, dopo la scissione tra massimalisti e riformisti, Matteotti divenne segretario del nuovo Psu, impostandone la linea politica come lotta ad oltranza contro il fascismo. Pur privato del passaporto espatriò clandestinamente per assistere al congresso del Partito operaio belga, per incontrarsi con alcuni dirigenti del Labour party e delle Trade unions e per ridimensionare, attraverso tali colloqui, il mito mussoliniano, sottolineando la pericolosità potenziale del regime fascista anche per le altre potenze europee. Nel 1924 in Parlamento denunciò i brogli ed il clima di violenza nel quale si era espressa l’ultima consultazione elettorale. Il 10 giugno dello stesso anno venne rapito e ucciso da sicari fascisti. Il suo corpo venne ritrovato il 16 agosto successivo nei dintorni di Roma. Fonteweb Il delitto Matteotti La commemorazione di Turati Il 27 giugno del 1924 Filippo Turati pronunciò un commosso discorso in ricordo dell’amico assassinato durante la riunione delle opposizioni parlamentari. Queste le parole dell’anziano leader socialista: “Vorrei che a questa riunione non si desse il nome logoro, consunto – specialmente qui dentro – di “commemorazione”. Noi non “commemoriamo”. Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della Patria. Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare, perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là dell’Alpe e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore; Egli è un giudicatore; Egli è un vindice. Non il nostro vindice, o colleghi. Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra nativa; il …

ANGELICA BALABANOFF

Angelica Balabanoff, Anželika Isaakovna Balabanova). – Nacque a Černigov, nei pressi di Kiev, il 4 agosto 1877 da famiglia ebraica benestante (il padre, Isaak, era proprietario terriero e uomo d’affari), ultima di sedici figli. Spirito indipendente e ribelle, donna di grande vivacità intellettuale, studiò in una scuola di Charkov dove imparò varie lingue europee e con la famiglia ebbe modo di fare frequenti viaggi attraverso l’Europa. Attorno al 1895 abbandonò la famiglia e la Russia per iscriversi all’Université nouvelle di Bruxelles dove studiò filosofia e seguì corsi di sociologia, economia, criminologia, ecc., e partecipò, anche in contatto con esuli politici russi, dell’ambiente radicale e socialista belga particolarmente vivace sul piano politico e culturale in quel periodo. Votata fin da giovanissima ad ideali umanitari ed egualitari, a Bruxelles abbracciò il socialismo, aderì al marxismo sulla scorta delle opere di Georgij Plechanov e si laureò in filosofia e letteratura. In Germania alla fine del secolo, a Lipsia e poi a Berlino, studiò economia politica e strinse rapporti di amicizia con Rosa Luxemburg, August Bebel e Clara Zetkin. Finalmente a Roma (1900) poté seguire uno degli ultimi corsi universitari di Antonio Labriola, che rese più profonda ed articolata la sua formazione marxista, ed entrò in contatto, per tramite di Leonida Bissolati, con il movimento socialista italiano al quale, con delle interruzioni, sarebbe restata legata per tutta la vita. La B. non aveva vissuto questi anni di “apprendistato” socialista come un’emigrata, ma si era profondamente radicata nello spirito del socialismo europeo maturando un internazionalismo che si sarebbe dimostrato incancellabile. Persona di vasta cultura, di grande vitalità e di profonda umanità, la sua formazione politica appare coerente con le idee e la tradizione secondinternazionalista, delle quali sarebbe stata a lungo un’interprete “di sinistra” ed alle quali sarebbe restata fedele anche quando, dalla guerra in poi, quella tradizione e quelle idee avrebbero subito un inarrestabile declino. Militante dei Partito socialista italiano dal 1900, su posizioni “intransigenti” e particolarmente vicina a Giacinto Menotti Serrati, fu impegnata nell’attività organizzativa e di propaganda nella Svizzera italiana dai primi del secolo fino al 1910, a San Gallo e poi a Lugano, dove fu per vari anni membro dell’esecutivo del Partito socialista italiano in Svizzera, imprese l’edizione dei giornale Su, compagne (che sarebbe poi confluito in La Difesadellelavoratrici diretto da Anna Kuliscioff) ed acquisì larga fama come conferenziera. Fu attorno al 1904, in Svizzera, che conobbe Benito Mussolini, allora su posizioni anarco-socialiste, al quale sarebbe restata legata da un’amicizia durata un decennio. Su Mussolini la B. torna ripetutamente nelle autobiografie ed in alcuni scritti sul “traditore”. La sottolineatura dei tratti nevrotici del futuro capo del fascismo, tratti che trovano del resto significativi riscontri, e la funzione di guida che ella ebbe sia nel cercare di “spingerlo sulla strada del marxismo e, in generale, di un maggior approfondimento culturale del socialismo” (De Felice, p. 40), sia nella leadership politica che a lungo esercitò su di lui, tutto ciò lascia pensare che, oltre al ruolo di maestra, vada tenuto presente, per la comprensione del rapporto, un suo coinvolgimento di tipo “materno”. Durante la rivoluzione russa del 1905, fu protagonista di un’accesa campagna di solidarietà e tenne conferenze e comizi in molte città italiane ed anche in seguito, in Svizzera come in Italia, mantenne stretti contatti con vari dirigenti socialdemocratici russi in esilio quali Plechanov, Lenin, Zinov´ev, Trockij ed altri. Contribuì all’organizzazione del V congresso del Partito operaio socialdemocratico russo (Londra, aprile 1907) e vi partecipò come delegata evitando di prendere posizione per una delle due frazioni (bolscevichi e menscevichi) che, seppur riunificate nel partito, si fronteggiarono duramente. Ormai italiana per adozione, pur conservando la cittadinanza russa, per molti anni funse da tramite – anche per la vasta conoscenza delle persone e delle situazioni, oltre che delle lingue – tra il Partito socialista italiano e il socialismo europeo, prima che questo venisse lacerato dalla guerra. Sul piano del socialismo internazionale era particolarmente vicina alle posizioni di Bebel e della Luxemburg e fu per varie sessioni membro del Bureau socialiste international, l’esecutivo della II Internazionale. Delegata italiana al congresso di Basilea, l’ultimo dell’Internazionale socialista (novembre 1912), nel luglio dello stesso anno aveva partecipato al congresso straordinario del partito socialista che si svolse a Reggio Emilia, ed aveva avuto in quell’occasione una funzione di rilievo nel preparare la mozione, presentata da Mussolini e votata a larga maggioranza, che chiedeva l’espulsione dei dirigenti dell’ala riformista (Bissolati, Cabrini, Bonomi e Podrecca). Durante i lavori dello stesso congresso la B. venne eletta per la prima volta nel comitato esecutivo del partito e, allorché Costantino Lazzari propose Mussolini quale direttore dell’Avanti!, questi si riservò di accettare a condizione che la B. figurasse quale segretaria di redazione (lo scopo della richiesta di Mussolini – ipotizza il De Felice, p. 139 – era di coinvolgere tutta la sinistra del partito nella gestione del quotidiano ed allontanare alcuni redattori riformisti). Pur con qualche riluttanza, la B. si trasferì a Milano; la sua collaborazione con Mussolini all’Avanti! durò comunque solo pochi mesi. Fu presente alla riunione dell’Internazionale a Bruxelles (28-29 luglio 1914) – vi erano anche Victor Adler, la Luxemburg, Hugo Haase, Jean Jaurès, Jules Guesde ed altri -, ma risultò minoritaria la sua proposta di indire uno sciopero generale contro la guerra, che col suo profilarsi stava già erodendo le fondamenta del socialismo europeo (Jaurès sarebbe stato assassinato di lì a qualche giorno). Tornata a Milano. la B. (che al congresso socialista di Ancona dell’aprile 1914 era stata confermata nella segreteria del partito) continuò a sostenere quella che del resto era la linea del Partito socialista italiano, cioè la politica della neutralità e dell’opposizione all’intervento (scontrandosi anche con Plechanov, a Ginevra, che parteggiava apertamente per gli alleati). Allorché avvenne il repentino passaggio di Mussolini su posizioni interventiste (ottobre 1914), la B. condivise senza riserve l’unanime decisione dell’esecutivo di espellerlo dall’organismo stesso e dalla direzione dell’Avanti! sostituendolo con Serrati. Nel 1915 si trasferì nuovamente in Svizzera, a Berna, per organizzare il movimento di opposizione alla guerra, con lo scopo altresì di arginare il …

ANNA KULISCIOFF

Anna Kuliscioff, il cui vero nome è Anja Rosenstein, nasce in Crimea, il 9 gennaio tra il 1853 e il 1857, in una famiglia benestante di commercianti ebrei; amante dello studio, a circa 18 anni decide di seguire i corsi di Filosofia presso l’università di Zurigo, una città posta al centro dell’Europa con facoltà universitarie, anche tecniche, aperte alle donne e in cui si respirava una grande libertà di pensiero e dove Anna trova il suo ambiente ideale e dove la sua vita comincia a contrassegnarsi da una continua lotta per le libertà. Costretta a rimpatriare dalla Svizzera per ordine dello zar, aderisce alla cosiddetta “andata verso il popolo”: è il periodo dell’utopia rivoluzionaria, durante il quale la Kuliscioff, come reazione al dispotismo zarista, si convince della necessità dell’uso della violenza nella lotta politica. Ma nel tempo le sue posizioni saranno sempre meno estremiste e sempre più di matrice legalitaria. 1877 – Anna Kuliscioff abbandona definitivamente la Russia, si stabilisce in Svizzera: qui incontra Andrea Costa, stabilendo da subito con lui una totale coincidenza di idee e trasferendosi con lui in Francia. 1878 – Arrestata, viene espulsa dalla Francia, e si trasferisce in Italia, dove pochi mesi dopo è processata anche a Firenze con l’accusa di cospirare con gli anarchici. Nuovo trasferimento in Svizzera. 1880 – la Kuliscioff e Costa rientrano clandestinamente in Italia, dove vengono arrestati nell’aprile dello stesso anno a Milano. Nell’agosto dello stesso anno Anna viene scarcerata e accompagnata al confine svizzero : si stabilisce a Lugano fino all’anno dopo. Rientra in Italia, raggiunge Andrea Costa a Imola e diventa madre di Andreina. Gli anni ‘80 costituiscono per la Kuliscioff un periodo decisivo e nello stesso tempo di transizione, anche affettiva: in questo arco di tempo si tiene lontana dalla scena politica essendo fagocitata dal suo ruolo di madre e dalla sofferenze derivanti dallo stato di salute – aveva contratto la tubercolosi a seguito del periodo in carcere a Firenze – e dalla solitudine provocata dalla crisi del suo rapporto con Costa, rapporto che Anna chiude dolorosamente Sono questi gli anni della sua iscrizione alla Facoltà di Medicina, dei suoi studi, delle conseguenti specializzazioni in ginecologia prima a Torino e poi a Padova. Con la sua tesi scopre l’origine batterica delle febbri puerperali aprendo la strada alla scoperta scientifica delle cause delle morti post partum. Anna Kuliscioff a Milano comincia la sua attività di medico, di “dottora dei poveri” come la chiamano i milanesi, trovando così, non senza difficoltà, un collegamento tra attività professionale e fede politica, fede politica che divide quotidianamente con Filippo Turati, incontrato mentre raccoglie fondi per esuli russi e con il quale, dopo alcuni dubbi, si lega sentimentalmente. Nel 1889 fonda con Turati e Lazzari la Lega Socialista milanese. 27 aprile del 1890: in una sala gremita al Circolo Filosofico milanese, dove diviene la prima donna protagonista al Circolo, tiene una Conferenza sul tema del rapporto uomo-donna. Il tema dell’incontro è Il monopolio dell’uomo. Opinione della Kuliscioff è che solo il lavoro sociale e egualmente retribuito potrà portare la donna alla conquista della libertà, della dignità e del rispetto. 1891: Nasce il “Salotto di Anna Kuliscioff” Trasferitasi con Filippo Turati in un appartamento di Portici Galleria al numero 23, trasforma il salotto di casa in studio e redazione di “Critica sociale”: mucchi di giornali e plichi di libri circondano Anna e Filippo che lavorano insieme e nel salotto c’è un piccolo divano verde dove la Kuliscioff riceve i visitatori ad ogni ora del giorno: personaggi della cultura, della politica milanese, persone più umili e le “sartine” che trovano in Anna un’amica e una confidente. Ma il lavoro nel salotto più famoso di Milano viene bruscamente interrotto l’8 maggio 1898 quando un gruppo armato irrompe ed arresta Anna con l’accusa di reati di opinione e di sovversione. A dicembre viene scarcerata per indulto, mentre il suo compagno Filippo dovrà aspettare un anno. 1901 – il Partito Socialista, per tramite di Turati, presenta al Parlamento la legge Carcano, legge a tutela del lavoro minorile e femminile, elaborata dalla Kuliscioff, legge che sarà approvata . Anna Kuliscioff è convinta dell’importanza di trattare con il ministero di Giolitti e spinge Turati a rompere con gli intransigenti come Salvemini e Labriola, contrari a ogni forma di collaborazione col governo. 1908 – La questione fondamentale su cui ci si deve battere per Anna Kuliscioff: le donne devono avere il lavoro, rendersi indipendenti, ottenere di conseguenza la parità dei diritti, compreso quello del voto. I socialisti invece, nella lotta per il suffragio maschile, temono che allargare la richiesta a favore del voto alle donne, rischi di prolungare all’infinito la risoluzione della questione. La Kuliscioff, ancora più spronata dall’atteggiamento negativo dei socialisti e anche di Turati, e sostenuta dal fatto che altri partiti socialdemocratici europei hanno fatto della questione femminile la propria bandiera, mette tutto il suo impegno perché il partito socialista italiano accolga nel suo programma generale la causa della donna. 1911 – nasce il Comitato Socialista per il suffragio femminile con il contributo ed il sostegno di Anna Kuliscioff. 1912- La Kuliscioff fonda la rivista “La difesa delle lavoratrici” a cui collaborano tutte le migliori penne del socialismo femminile italiano, che, sempre in casa di Anna, direttrice del giornale, stabiliscono con successo un rapporto di comunicazione diretta con le lavoratrici -operaie e contadine – rendendole consapevoli della loro condizione, dei loro diritti, tra cui ovviamente il diritto al voto. 1912 – Il governo dice no alle donne con una legge di Giolitti. Inizia per Anna Kuliscioff un periodo di scoraggiamento ed è allo stesso tempo un periodo di disorientamento anche per gli stessi socialisti e in cui si cominciano a intravedere le prime avvisaglie di un movimento antisocialista e nazionalista a tratti violento, di cui Anna, con la sua sensibilità e lungimiranza, ne percepisce, tutta la portata. 1925 – I fatti e la storia danno ragione ad Anna Kuliscioff, che scompare il 27 dicembre. Il suo funerale – 29 dicembre 1925 – sarà accompagnato dalla violenza per le …

GAETANO SALVEMINI

Gaetano Salvemini, storico, professore universitario a Messina, Pisa, Firenze e Harvard, meridionalista ed antifascista, nacque a Molfetta (Bari), l’8 settembre 1873. Lo zio prete, che gli fece da precettore, tentò di inculcargli idee clericali ed antiunitarie, ma egli mostrò presto inclinazioni democratiche e libertarie. A diciassette anni ottenne l’ammissione all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Nell’ateneo fiorentino ebbe come maestro, fra gli altri, Pasquale Villari, docente di Storia Medioevale e Moderna, dal quale apprese un insegnamento fondamentale, che avrebbe serbato per tutta la vita: la concezione della Storia intesa come scrupolosa ricerca del vero, strettamente congiunta all’impegno civile. A Firenze, dove si laureò in Lettere nel 1896, si legò al gruppo dei giovani socialisti che si riunivano in Via Lungo il Mugnone. In quell’ambiente assorbì le teorie marxiste, che in seguito avrebbe rivisto criticamente, e maturò una precisa ed irreversibile scelta di campo: la difesa degli oppressi e dei diseredati, al di là di ogni ideologia. Nell’ultimo decennio dell’800, l’epoca che vide i tentativi autoritari di Crispi e Pelloux, i processi sommari a carico dei “sovversivi” socialisti, la brutale repressione delle agitazioni operaie e contadine, era una scelta davvero coraggiosa. Nel 1899, a soli ventisei anni, Salvemini pubblicò un’opera destinata a diventare un classico della storiografia sul Medioevo: Magnati e popolani nel Comune di Firenze dal 1280 al 1296. La sua attività scientifica gli valse la cattedra di Storia Medioevale e Moderna all’Università di Messina (1902). Ma il destino gli preparava una tremenda sciagura, che avrebbe annullato la serenità assicurata da una brillante carriera accademica e da un matrimonio felice. Nel terremoto del 1908, che rase al suolo Messina, perse la moglie, i cinque figli ed una sorella. Fu la grande tragedia della vita personale di Gaetano Salvemini. Il dolore provocato da quell’evento tragico non riuscì, tuttavia, a spezzare la sua tempra eccezionale. Continuò nel PSI la sua battaglia politica, incentrata sul tentativo di saldare le rivendicazioni degli operai del Nord con quelle dei braccianti del Sud. Si battè, inoltre, per l’introduzione e per l’esercizio effettivo del suffragio universale, votato dal Parlamento nel maggio 1912. La sua lotta per la moralizzazione della vita pubblica lo portò a criticare aspramente Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio quasi ininterrottamente dal 1903 al 1914, cui affibbiò l’epiteto di “ministro della malavita” per i suoi spregiudicati metodi elettorali. Dalle pagine innovatrici del periodico “La Voce”, si oppose fieramente alla dispendiosa campagna di Libia (1911-1912). Salvemini aveva compreso che all’origine di quell’impresa militare non stava la volontà di soddisfare le reali esigenze del Paese, bisognoso di profonde riforme economiche e sociali, ma una pericolosa collusione fra nazionalismo velleitario ed interessi imprenditoriali. La questione della Libia fu uno dei motivi che lo indussero a lasciare il PSI, giudicato troppo acquiescente nei confronti della politica coloniale giolittiana ed incapace di un serio impegno sulla questione meridionale. Sul settimanale “l’Unità”, da lui stesso fondato nel dicembre 1911, continuò la sua battaglia laica e progressista per il riscatto del Meridione e per una reale svolta democratica. Nel grande travaglio che precedette l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra (maggio 1915), Salvemini fu tra i fautori dell’intervento contro l’Austria e l’imperialismo tedesco. La sua coerenza morale gli impose di arruolarsi volontario sin dal primo anno di guerra. Per lui, come in generale per gli interventisti democratici, la partecipazione al conflitto era necessaria non certo per affermare ed espandere la potenza italiana, ma per scopi molto più nobili: completare l’opera di unificazione nazionale ed avviare un processo di effettiva democratizzazione della vita politica, in Italia ed in Europa. Purtroppo, gli eventi successivi all’armistizio (novembre 1918) delusero le speranze degli idealisti. Il Governo italiano, guidato da Vittorio Emanuele Orlando e dal Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, si comportò al Congresso di Versailles in modo non lineare e difese il “sacro egoismo” nazionale contro il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Alle elezioni politiche del 1919 Salvemini si candidò in una lista di ex combattenti e venne eletto. Da deputato, dissentì presto dalla linea politica del suo gruppo parlamentare e sostenne una vivace polemica contro l’ex compagno socialista Benito Mussolini (il quale lo sfidò anche a duello, mai avvenuto per complicazioni “procedurali”) ed il movimento fascista. Ma era una lotta estremamente difficile, sia per il progressivo sfaldamento della Sinistra (decisiva la scissione comunista nel Congresso di Livorno del gennaio 1921), sia per l’esplosione di un nazionalismo esasperato che si nutriva del mito della “vittoria mutilata”. Dopo l’avvento di Mussolini al potere (ottobre 1922), Salvemini, che da alcuni anni insegnava all’Università di Firenze, continuò ad opporsi al fascismo trionfante. Nel 1923 tenne a Londra una serie di conferenze sulla politica estera italiana, suscitando le ire del Governo e soprattutto dei fascisti fiorentini. I muri di Firenze furono tappezzati di manifesti recanti un eloquente messaggio: “La scimmia di Molfetta non rientrerà in Italia”. Invece Salvemini non soltanto ritornò in patria, ma riprese le sue lezioni all’Università, incurante delle minacce degli studenti fascisti. Negli anni successivi la sua opposizione al regime mussoliniano diventò sempre più dura. Dopo l’assassinio del deputato Giacomo Matteotti (giugno 1924), aderì al P.S.U., il gruppo politico del leader assassinato, ed organizzò una manifestazione di protesta. Animò il periodico clandestino “Non mollare”, fondato con Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, per tener vivi gli ideali della libertà e della democrazia; si adoperò per mantenere una fitta rete di contatti fra gli intellettuali antifascisti in tutta Italia. Mentre gran parte del mondo accademico italiano s’inchinò al regime (nel marzo del 1925 venne pubblicato quel singolare documento intitolato “Manifesto degli intellettuali fascisti”), Salvemini venne arrestato ed imprigionato. Poco dopo fu scarcerato, ma la situazione rimase drammatica. Conscio del grave pericolo che incombeva non solo sulla sua persona, ma anche su coloro che lo sostenevano, scelse la via dell’esilio e passò clandestinamente la frontiera italo-francese. Fu la grande svolta della sua vita. Mussolini nutriva una sorta di sacro timore nei confronti degli intellettuali e fece di tutto per smorzarne lo spirito d’indipendenza. Il Ministro della Pubblica Istruzione Fedele propose un compromesso che gli avrebbe consentito di mantenere la cattedra universitaria. Ma …

ANNA MATERA

Nella storia del movimento socialista e del movimento di emancipazione della donna merita un posto particolare Anna De Lauro Matera. Nata a Napoli il 9 luglio 1909 da Michele De Lauro e da Elvira Ciancia, consegue il diploma magistrale e a venti anni è vincitrice di concorso con assegnazione di cattedra. Nel 1932 si laurea presso l’istituto Orientale. L’anno successivo segue con tutta la famiglia il padre capostazione nel trasferimento a Foggia. Una città con la quale entra subito in simbiosi, alla quale si legherà molto e che tanto le darà. Nel 1936 è chiamata ad insegnare presso il Liceo classico “Lanza“. Nel luglio del 1938 convola a nozze con Vincenzo Matera, un funzionario della filiale foggiana del Banco di Napoli. «Sul lavoro conquista subito la stima e l’apprezzamento degli alunni e dei colleghi per la didattica innovativa, frutto anche della sua permanenza in Inghilterra, per l’impegno che profonde nell’insegnamento vissuto come missione educativa, per la non comune cultura che esprime, nonché per l’apertura a tematiche extrascolastiche. Caratteristiche che connoteranno il suo impegno educativo che ha formato tante generazioni», spiega Michele Galante, curatore di un saggio pubblicato sulla rivista Sud Est. Anna Matera si avvicina alla politica alla fine del 1943, leggendo i primi giornali liberi e prendendo contatti con esponenti di alcuni partiti. La sua iscrizione al Psi avviene soprattutto per l’impulso e le insistenze del professore Antonio Vivoli, una figura importante del panorama politico e culturale della Foggia di allora. Ma un ruolo non secondario nella sua scelta lo gioca l’incontro con Domenico Fioritto, il vecchio avvocato sannicandrese, già segretario nazionale del Partito socialista prima della dittatura fascista, simbolo del socialismo di Capitanata, tornato di nuovo sulla scena politica. Già nel 1945 viene chiamata nell’Amministrazione diretta da Luigi Sbano a curare i problemi della scuola, compito che assolve con grande determinazione e generosità per fronteggiare la situazione drammatica delle strutture scolastiche che sono allo sfascio o sono ancora occupate dalle truppe alleate. Farà parte, come assessore, anche dell’amministrazione Imperiale. Eletta deputata alle elezioni politiche del 1953, è la prima donna socialista della Puglia ad entrare in parlamento, era anche l’unica parlamentare donna socialista di tutto il Centro Sud. Matera, che era stata eletta nel Comitato centrale del Psi al congresso di Torino del 1955, era stata investita dell’incarico di responsabile nazionale delle donne socialiste. La Matera, che nel dibattito congressuale faceva riferimento all’area di sinistra guidata da Lelio Basso, si soffermò a lungo sui temi della condizione delle donne, ma affrontò anche le questioni legate all’attualità politica, esprimendo riserve sulla linea di Nenni, e in modo particolare sul rapporto con i comunisti, che per la stessa rimaneva un elemento da privilegiare. «Tuttavia la Matera non risparmiò critiche alle posizioni assunte dal Pci, sfoderando una inusitata verve polemica ed evidenziando la contraddizione tra l’affermazione della ‘via italiana al socialismo’ e la persistenza del legame con il regime sovietico», spiega Galante. L’assise congressuale di Venezia consacrò il ruolo di dirigente nazionale della parlamentare foggiana, che fu eletta nel Comitato centrale con un largo consenso, risultando settima con 437.708 voti congressuali dopo Vittorio Foa, Pietro Nenni, Fernando Santi, Silvano Armaroli, Francesco De Martino e Sandro Pertini, precedendo personalità della statura politica di Lelio Basso, Dario Valori, Tullio Vecchietti, Riccardo Lombardi e Giovanni Pieraccini. La stessa Matera fu l’unica donna ad entrare nella Direzione nazionale, composta all’epoca da appena 21 membri. Inoltre ottenne la riconferma dell’incarico di responsabile nazionale della Commissione femminile, coadiuvata da Marisa Passigli. Per effetto di questa funzione rivestita entrò a far parte anche della Presidenza nazionale dell’Unione Donne Italiane (Udi), insieme a Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Luciana Viviani, Nora Federici. Conclude il suo impegno parlamentare con le elezioni del 1963, ma prosegue con vigore l’attività politica. Nel 1965 viene nominata nel Consiglio di amministrazione della Cassa per il Mezzogiorno in virtù delle numerose competenze maturate in diversi campi della vita pubblica e l’anno successivo entra anche nel Consiglio di amministrazione del Formez, una diramazione della Casmez che si interessa di formazione e che offre supporto e assistenza alle amministrazioni pubbliche. Oltre che consigliere, viene nominata anche vicepresidente dello stesso istituto, confermata in questo incarico per diversi anni. In questo ambito dedica molta cura alla diffusione sul territorio dei Centri di servizi culturali, considerati strumenti di crescita civile dei lavoratori e di affrancamento da una condizione di subalternità. L’impegno politico elettivo continua nel Consiglio comunale di Foggia anche per il quinquennio 1966-1971, con l’amministrazione di centro-sinistra diretta da Vittorio Salvatori, mentre nel 1967 è nominata componente dell’Ente Fiera di Foggia, dove va ad affiancare il dinamico presidente Gustavo de Meo. Si spegne a Roma il 18 novembre 2003, all’età di 94 anni. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LEONIDA BISSOLATI

Nato a Cremona nel 1857 e morto a Roma nel 1920, uomo politico. Iniziò proprio nella sua città, dopo essersi nel 1877 laureato in legge a Bologna a dedicarsi all’attività politica nelle file della democrazia radicale. nel 1880 divenne consigliere comunale, nel 1882 assessore all’istruzione. Inizia a collaborare alla rivista “Il Preludio” di Turati e Ghisleri; con entrambi stretta un’amicizia, con loro entra in contatto con le tristi condizioni dei contadini e dei braccianti della sua terra; ed è una partecipazione che lo spinge verso le idee socialiste. Stringe così rapporti con la lega socialista milanese partecipando poi nel 1892 a Genova al congresso di fondazione del Partito Socialista Italiano. Collabora alla rivista turatiana “Critica Sociale”, poi nel 1896 partecipa alla fondazione dell’”Avanti!” e ne diventa il direttore, fino al 1903. Contemporaneamente nel 1897 era diventato deputato. Con ottime doti politiche, contribuisce a indirizzare il partito socialista verso l’alleanza con i gruppi dell’estrema sinistra (radicali e repubblicani) per la difesa delle libertà costituzionali. Nei sanguinosi tumulti del maggio ’98 (eccidio di Bava Beccaris, seguito dallo stato d’assedio) benchè i dirigenti del partito e dell’Avanti fossero estranei all’organizzazione dei tumulti e operassero anzi per contenerli, il governo e gran parte della stampa sia filogovernativa e liberale sia cattolica moderata sostennero la tesi opposta, indicando all’opinione pubblica che i tumulti erano stati organizzati da associazioni sovversive di sinistra. Con questi appoggi politici, dei media e della stessa timorata popolazione il governo diede l’avvio a una netta svolta autoritaria, e ad una “legale” durissima repressione che portarono all’arresto migliaia di persone subito condannate a dure pene. La polizia invase anche la sede dell’”Avanti” arrestando i vari collaboratori e lo stesso Bissolati, che finì in carcere per due mesi. Ma la Camera poi non autorizzò a procedere (tanto più che in quei giorni maledetti, Bissolati non era presente a Milano). Nel clima repressivo, molti leader socialisti dovettero riparare all’estero. Anche Bissolati preferì o fu costretto a un breve esilio, mentre il giornale in qualche modo continuò le sue pubblicazioni sotto la direzione temporanea di Enrico Ferri. Il 1900 segna un importante mutamento della politica interna italiana. Dopo l’uccisione del re Umberto I, con l’attentato dell’anarchico Gaetano Bresci, sale sul trono il giovane Vittorio Emanuele III, decisamente meno conservatore e soprattutto meno autoritario di suo padre, condizione questa che porta il nuovo governo ad avere un’impronta più liberale, quando a prendere le redini di governo è Giolitti. Favorevole all’appoggio ai governi liberali, troviamo Bissolati uno dei leader della corrente riformista, mentre all’interno del partito socialista si verificano i primi contrasti e le prime scissioni. Nel 1903 lascia la direzione dell’”Avanti”, Enrico Ferri è confermato direttore. La guerra coloniale in Libia, e il XII congresso nazionale del PSI nell’ ottobre 1911 a Modena, mettono in evidenza la frattura irreversibile fra i riformisti di sinistra e la destra riformista di Bissolati e Ivanoe Bonomi, che continua a sostenere Giolitti in contrasto con le direttive di partito. Quindi sostenitrice dell’impresa libica e favorevoli a una partecipazione al governo. Ormai approdato a posizioni di democrazia riformatrice e di collaborazione con la borghesia incompatibili con gli orientamenti rivoluzionari prevalenti nel socialismo italiano di quegli anni, Bissolati nel 1912 viene espulso dal partito socialista. L’incompatibilità viene rimarcata anche da un gesto che assume un chiaro valore politico; il Re uscito illeso da un attentato il 14 marzo 1912, Bissolati con alcuni suoi deputati si erano recati al Quirinale per congratularsi con il re per lo scampato pericolo. Un gesto che suscita polemiche da parte dell’ala rivoluzionaria del PSI, che coglie l’occasione per chiedere – il 7 luglio al XIII congresso di Reggio Emilia, l’espulsione dal partito di Bissolati e altri suoi colleghi (Bonomi, Cabrini ecc.) Per dovere di cronaca, la mozione di espulsione a nome della corrente rivoluzionaria, poi approvata con una maggioranza limitata, fu presentata da Benito Mussolini, che oltre per il gesto del 14 marzo, li accusa di voler favorire la politica del governo; e riafferma l’importanza del partito come guida del movimento rivoluzionario dei lavoratori. Il 1° dicembre, proprio perchè gradito all’ala rivoluzionaria, Mussolini assumerà la direzione dell’Avanti, fino allora di tenedenza riformista. Come maggiore esponente dell’ala riformista Bissolati diede allora vita al Partito socialista riformista, che pur ottenendo un buon successo alle elezioni del ‘1913 non fece molta strada. Allo scoppio del prima guerra mondiale (1914) fu uno dei capi dell’interventismo democratico. Arruolatosi come volontario in un reggimento di alpini, nel giugno del 1916 lo troviano ministro nel governo Boselli e in quello di Orlando nel 1917. Ovvio dire che fu, dopo Caporetto, un sostenitore della necessità di continuare la lotta a oltranza, finchè non fosse stato raggiunto l’obiettivo principale, la dissoluzione dell’impero austro-ungarico. Tuttavia pochi giorni dopo la fine del conflitto, il 27 dicembre del 1918, per avere il governo – in vista della conferenza di pace convocata a Parigi- accettato la rinuncia a Fiume e Zara, in segno di protesta Bissolati si dimette. Nella sua linea politica, Bissolati era pronto a rinunciare ai compensi territoriali in Alto Adige, in Dalmazia e nel Dodecanneso previste dal Patto di Londra, per chiedere invece Fiume e Zara. Uscito di scena, da questo momento Bissolati nel suo ultimo anno di vita avrà un ruolo marginale nella vita pubblica. Anche perchè, grazie alle divisioni esistenti fra i dirigenti del PSI, la scena la sta occupando tutta Benito Mussolini, che tre mesi dopo, il 23 marzo 1919, in un circolo di piazza San Sepolcro a Milano, costituisce il movimento dei Fasci Italiani. Che cosa singolare, inizialmente è incentrato a parte un generico operaismo, e alla non rinuncia del Tirolo e della Dalmazia proprio – come Bissolati- sulla rivendicazione di Fiume. L’anno dopo, nel 1920, Leonida Bissolati moriva a Roma. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare …

BRUNO BUOZZI

Bruno Buozzi nacque a Pontelagoscuro (Ferrara) il 31 gennaio 1881 da Orlando e Maddalena Gusti. Nel primi anni del 1900 si trasferì a Milano, dove divenne operaio meccanico, si iscrisse al partito socialista e al sindacato degli operai meccanici e metallurgici, del cui consiglio direttivo entrò preso a far parte. Nel 1911 fu eletto segretario generale della Federazione italiana operai metallurgici (F.I.O.M.), carica che conservò ininterrottamente sino al 1926. Nell’aprile del 1912 fu eletto membro del consiglio direttivo della Confederazione generale del lavoro (C.G.d.L.), ed anche questo ufficio gli fu riconfermato ad ogni successivo rinnovamento. Quando Buozzi assunse il segretariato generale della F.I.O.M., l’organizzazione era in crisi, in seguito alle lotte di corrente. Il conflitto fra sindacalisti e socialisti attraversò un momento decisivo nella primavera del 1912, quando a Torino gli operai dell’industria automobilistica, rifiutando un accordo stipulato tra la F.I.O.M. e il consorzio degli industriali dell’automobile, scioperarono per sessantaquattro giorni sotto la guida di organizzatori di parte sindacalista. L’anno seguente, tuttavia, la F.I.O.M. diretta da Buozzi dimostrò di aver riconquistato e aumentato il proprio prestigio riuscendo, dopo un nuovo sciopero di tre mesi, a stipulare un accordo con valore di contratto collettivo, che prevedeva, fra l’altro, la riduzione di tre ore dell’orario settimanale di lavoro. Scoppiata la guerra in Europa, Buozzi prese posizione a favore della neutralità “assoluta”, pur dichiarando la sua simpatia per le potenze dell’intesa; partecipò alle manifestazioni contro l’intervento a Torino nel maggio 1915 e diede l’adesione della F.I.O.M. alle conferenze di Zimmerwald e di Kiental. Durante i moti di Torino del 22-26 agosto 1917 si adoperò affinché la rivolta popolare non degenerasse in un’insurrezione senza alcun possibile sbocco politico. Egli aderiva alla formula del Partito socialista italiano (P.S.I.) “né aderire né sabotare“, accettandone tuttavia l’interpretazione comune alla maggior parte dei dirigenti sindacali e alla corrente moderata del partito capeggiata da Filippo Turati, che ammetteva e ricercava la collaborazione col governo ai fini della difesa civile. Buozzi entrò, quindi, a far parte dei comitati di mobilitazione industriale del Piemonte e della Lombardia in rappresentanza della F.I.O.M. Questa sua attività gli attirò aspre critiche da parte della sinistra socialista, critiche dalle quali egli si difese sostenendo che, nelle condizioni di limitata libertà sindacale e di sospensione del diritto di sciopero create dalla militarizzazione delle industrie belliche, l’unica sede nella quale si potessero difendere efficacemente gli interessi degli operai erano i comitati di mobilitazione industriale, che fungevano da tribunali arbitrali nelle vertenze del lavoro. Opposte critiche gli furono rivolte da parte degli ufficiali dell’esercito presidenti dei comitati, che giudicavano incompatibile la sua qualità di membro dei comitati con l’attività di organizzatore del movimento operaio che egli seguitava a svolgere. Il contrasto intorno alla partecipazione ai comitati culminò negli ultimi mesi di guerra in un conflitto aperto tra la direzione del P.S.I., nella quale prevalevano i massimalisti, e la C.G.d.L. diretta da riformisti. Il consiglio nazionale della C.G.d.L. deliberò il 9 maggio 1918 di richiedere al governo l’inclusione di rappresentanti della confederazione nella Commissione per lo studio dei problemi del dopoguerra. La richiesta fu accolta; ma la direzione del P.S.I., dopo che il governo aveva già accettato i nomi proposti dalla C.G.d.L., tra i quali figurava quello di Buozzi, richiamò gli iscritti al partito all’osservanza delle deliberazioni congressuali che vietavano di collaborare col governo. Nel consiglio nazionale della C.G.d.L., chiamato a deliberare sulla vertenza il 25 luglio 1918, prevalse un ordine del giorno contrario alla partecipazione. In conseguenza di questo voto si aprì nella C.G.d.L. una crisi che si concluse con le dimissioni del segretario generale Rinaldo Rigola, il quale fu sostituito da Ludovico D’Aragona, mentre Buozzi fu chiamato a far parte del comitato esecutivo. Il conflitto fu risolto in una riunione comune tra gli organi dirigenti del partito e della confederazione tenuta a Roma il 29 settembre 1918, nella quale si riconfermò l’autonomia di entrambi gli organismi nel proprio ambito e si convenne che gli scioperi e le agitazioni nazionali di carattere politico sarebbero stati proclamati e diretti dalla direzione del partito, mentre sarebbe spettato alla confederazione proclamare e dirigere quelli di carattere economico. Il nome di Buozzi è legato specialmente alle grandi lotte sindacali del dopoguerra. Negli ultimi giorni della guerra (31 ottobre-4 novembre 1918) si svolse a Roma il VII Congresso nazionale della F.I.O.M. Tra le rivendicazioni proposte di Buozzi al congresso, e da questo approvate, la più importante era la giornata di lavoro di otto ore: questa conquista, raggiunta con l’accordo del 20 febbraio 1919 tra la F.I.O.M. e l’associazione degli industriali meccanici e siderurgici, fu successivamente estesa alle altre categorie di lavoratori. Più dura fu la lotta per il conseguimento dell’accordo sui minimi salariali che fu concluso solo nel settembre 1919. La crescita della grande industria, accelerata dalla guerra, con la conseguente formazione di una classe operaia più omogenea e l’esperienza delle lotte del biennio postbellico portarono al prevalere di una concezione più moderna della struttura del sindacato: Buozzi era favorevole all’organizzazione del sindacato “per industria“, che superava la vecchia organizzazione “per mestiere” retaggio di mentalità corporativa e di operaismo, e sostenne questa tesi nel primo congresso post-bellico della C.G.d.L. (V della serie, Livorno 26 febbraio-3 marzo 1921), che la accolse adottando il principio del sindacato unitario di tutti i dipendenti da ogni singola industria, operai, tecnici ed impiegati. Al di là del terreno strettamente sindacale andava la rivendicazione del controllo operaio. Il “programma di immediate riforme per il dopoguerra” approvato dal consiglio direttivo della C.G.d.L. il 25-28 novembre 1918 rivendicava, fra l’altro, il “diritto di controllo da parte della rappresentanza degli operai nella gestione della fabbrica”. Buozzi, che nel ricordato congresso della F.I.O.M. si era espresso in termini ancora incerti su questa questione, si trovò poi al centro di essa, quando la conquista del controllo operaio divenne l’obiettivo immediato del movimento che culminò nell’occupazione delle fabbriche. Gli inizi della lotta erano stati strettamente salariali e rivendicativi. Con un memoriale presentato agli industriali il 18 giugno 1920 la F.I.O.M. richiese, infatti, un aumento salariale del 40%, le ferie pagate, l’aumento dell’indennità di licenziamento …

PIETRO NENNI

Pietro Nenni nasce a Faenza il 9 febbraio 1891 da Giuseppe e Angela Castellani. I genitori sono al servizio dei conti Ginnasi. Nel 1896 muore il padre. Nel 1898 a Faenza Nenni assiste ad una carica della cavalleria contro lavoratori e soprattutto donne che hanno assaltato i forn i. Sono i giorni dei moti della fame. Nel 1900, per interessamento della contessa Ginnasi, che vorrebbe farlo diventare prete, è accolto nell’orfanotrofio laico “Maschi Opera Pia Cattani”. E’ uno scolaro ribelle dopo il regicidio scrive nei corridoi della scuola “Viva Bresci”, inneggiando all’uccisione di Umberto I. Nel 1908 è assunto come scrivano in una fabbrica faentina di ceramiche, ma viene subito licenziato per aver preso parte ad uno sciopero. Contemporaneamente è espulso dall’orfanotrofio. Il 5 aprile sul “Popolo di Faenza” appare il suo primo articolo. Altri ne appaiono sul settimanale repubblicano “Il Lamone”. Si iscrive al Partito Repubblicano, partecipa a numerose manifestazioni e conosce i primi giorni di prigione. Nel 1909 promuove scioperi politici in Lunigiana fra i cavatori di marmo. E’ fra i promotori dello sciopero generale di protesta per la fucilazione in Spagna del rivoluzionario Francisco Ferrer Guandia. Dirige il settimanale “Il pensiero romagnolo” e collabora a “La lotta di classe”, diretto dal socialista Benito Mussolini. Nel 1911, sposa Carmen Emiliani. Giolitti annuncia la decisione di occupare la Libia e come conseguenza viene proclamato lo sciopero generale. Nenni, che durante le manifestazioni a Forlì è stato ferito da tre sciabolate, è arrestato e condannato a un anno e quindici giorni. In carcere ha come compagno Mussolini, anch’egli condannato per i moti contro la guerra in Libia. Il 26 dicembre nasce la prima figlia Giuliana. Il 9 aprile del 1913 a Jesi nasce la seconda figlia Eva, chiamata Vany. Nenni tra il 1912-13 si trova nelle Marche tra Jesi, Ancona e Pesaro e svolge una intensa attività di giornalista, nel dicembre del ’13 è nominato direttore del “Lucifero”. Diventa segretario della Federazione giovanile repubblicana. Nel 1914 Nenni, con l’anarchico Malatesta, è uno dei promotori delle manifestazioni a carattere insurrezionale che riguardano la Romagna e le Marche e note come la “Settimana Rossa”. Arrestato e condannato sarà liberato alla fine dell’anno per l’amnistia concessa per la nascita di Maria di Savoia. Nel marzo del 1915 l’Italia entra in guerra. Nenni è per l’intervento e parte volontario. La sua decisione matura in carcere ed è espressa nell’articolo del 6 settembre 1914 dal titolo “Vogliamo la guerra perchè odiamo la guerra” apparso sul Lucifero grazie alla complicità di un secondino. Per il rifiuto di prestare giuramento al Re, viene spedito in carcere, richiede l’intervento del ministro repubblicano Barzilai per essere inviato al fronte. Viene ammesso al corso ufficiali e supera l’esame finale con una ottima votazione, ma “le informazioni sfavorevolissime intorno ai prcedenti politici del sergente Pietro Nenni hanno vietato al Ministero di far luogo alla nomina ad Ufficiale”. Il 31 ottobre del 1915, ad Ancona, nel corso dell’offensiva delle truppe italiane per conquistare Gorizia, nasce la terzogenita alla quale Nenni darà il nome augurale di Vittoria. Nell’autunno del 1916 un barile di polvere da sparo esplode vicino all’osservatorio di Nenni. All’ospedale di Udine è curato per un forte trauma e poi inviato a casa in convalescenza. Nel 1917, durante la convalescenza, assume la direzione del “Giornale del Mattino” di Bologna, che riprenderà dopo la guerra, fina al giugno 1919. Dopo la rotta di Caporetto chiede di tornare in prima linea. Il 1919 è un anno di crisi ideale e politica nel corso della quale matura la sua adesione al movimento socialista. Nel 1920 Nenni inizia per “Il Secolo”, l’attività di inviato speciale all’estero. Molto importante è il viaggio a seguito della missione in Caucasia guidata dal Senatore Ettore Conti, con finalità commerciali e politiche, che permette a Nenni di entrare in contatto con il mondo sovietico. In questo anno lascerà definitivamente il partito repubblicano. Il 23 marzo del 1921, una squadra fascista devasta la sede dell’Avanti!, Nenni accorre alla sede del giornale per dare manforte alla sua difesa. Conosce Serrati che dopo pochi giorni gli chiede di andare a Parigi come corrispondente dell’Avanti in prova per sei mesi a 1800 franchi mensili “comprese per ora le piccole spese di tram, posta, ecc.”. Il 19 aprile appare per la prima volta la sua firma sul quotidiano socialista sotto l’articolo “La bancarotta dell’interventismo di sinistra”. A Parigi si iscrive al PSI. Il 1 dicembre del 1921 nasce la quarta figlia Luciana. Nel 1922 incontra a Cannes Mussolini e avverrà l’ultimo colloquio tra i due amici ormai su posizioni opposte. A maggio è nominato redattore capo dell’ Avanti! che difende ai primi d’agosto da una nuova aggressione fascista. Nell’ottobre, mentre Mussolini si prepara alla marcia su Roma, i socialisti si dividono: i riformisti di Turati, Treves e Matteotti escono dal PSI e danno vita al PSU. Il 26 ottobre una delegazione socialista composta da Serrati, direttore dell’Avanti!, Maffi, Romita e Garuccio, si reca a Mosca dove concorda un progetto di fusione tra il PSI e il Pcd’I. Il nuovo partito dovrebbe chiamarsi Partito comunista unificato d’Italia. Negli organi dirigenti la maggioranza sarebbe comunista e l’Avanti! diretto da Gramsci. Per Nenni questa è la liquidazione del partito. Costituisce con Arturo Vella un Comitato di difesa socialista per “l’autonomia socialista”. Nasce da ciò un violento contrasto con Serrati che da Mosca ordina di sbarazzarsi di Nenni. Ma nè la Direzione, nè l’Avanti! obbediscono: in realtà il partito è contro la fusione. Nel 1923 al rientro da Mosca Serrati, che viene arrestato destituisce Nenni che il 2 marzo viene convocato dal Questore di Milano, che a nome di Mussolini, gli intima di cessare la campagna denigratoria contro il Prefetto di Milano, Lusignoli; Nenni rifiuta e viene arrestato. In aprile si tiene il congresso del PSI a Milano e le tesi autonomistiche di Nenni prevalgono su quelle fusioniste di Serrati. Nenni assume la direzione dell’Avanti!. Il 6 aprile del 1924 in un clima di violenza e illegalità si tengono le elezioni con la nuova legge maggioritaria, la “legge …