SILVESTRO FIORE

Silvestro Fiore nasce a Foggia il 7 settembre 1864 da una famiglia molto povera, il padre è un terrazzano ed è anch’egli un terrazzano. Per meglio comprendere le sue origini, il contesto in cui vive e dal quale cerca di riscattare la sua condizione e quella degli altri sarebbe opportuno leggere cosa raccontano della vita del terrazzano gli scritti di Geramo Sanchelli (1861) e Antonio Lo Re (“Capitanata triste” – 1902) riportati anche su questo sito (Tradizioni e curiosità – Il terrazzano). Fra l’altro, questi scritti aprono e chiudono, quasi completamente, il periodo vissuto dallo stesso Fiore, e rispolverano “la memoria della condizione sub-umana di tanti uomini e di tante donne con la schiera numerosa dei loro figli. Qui è da ricercare – scrive il Sen. Michele Pistillo – l’asprezza delle lotte dei lavoratori per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro. Di qui nasce lo scontro di classe, che in varie forme e a vario grado si sviluppa ai primi del secolo da poco trascorso e che farà della nostra la regione degli eccidi proletari. Condizione sub-umana che non è sola del terrazzano, ma è molto diffusa, perchè investe altre categorie più o meno similari come i braccianti veri e propri, i piccoli versurieri, e no, come gli addetti a piccole e misere arti, mestieri e commerci. Foggia ne porta ancora il ricordo negli scomparsi Borgo Caprari e Borgo Scopari (attualmente piazzetta intestata alle spalle del Banco di Napoli) , e nelle attauli Via Bracciale (sta per bracciante), Via dei Carpentieri e Via dei Conciatori. E’ ancora da “Silvestro Fiore da terrazzano a capolega dei contadini di Foggia” del Sen. Pistillo, che riprendo alcuni elementi per delineare la cornice in cui si incastona l’evento tragico del delitto. “Al censimento del 1901 la popolazione di Foggia è di 53.134 unità, con una popolazione sparsa di appena lo 0,25%. E’ in senso assoluto la più bassa dell’intiera provincia. La popolazione è concentrata nel centro abitato, assediata da una superficie agraria immensa, di oltre 40 mila ettari. Il 69% di questa superficie è coltivata a cereali, il 2% da vigneti, l’1% da oliveti, il 28% a pascolo. Il 60% del territorio è costituito dalle grandi proprietà con una media di 1200 ettari. Il 5% da proprietà con una media di circa 120 ettari; il 25% con proprietà di circa 50 ettari. E’ da questa struttura proprietaria, nella quale domina la grande proprietà terriera, con una rendita che viene utilizzata spesso lontano da Foggia (a Napoli, a Roma), che nasce la figura del terrazzano, nè bracciante, nè contadino, ma legato, con lunghi periodi di disoccupazione, alla terra, seguendo i cicli e i ritmi delle stagioni, giorno per giorno, senza alcuna certezza per il domani”. “Sotto l’influenza delle idealità socialiste, mentre in provincia di Foggia e in tutta la Puglia sono già attivi e presenti con la loro propaganda e l’organizzazione di leghe, Camere del lavoro, cooperative, Domenico Fioritto, Leone Mucci, Canio Musacchio, Giuseppe De Falco, Raffaele Pastore, Euclide Trematore, Matteo Ferrara, Antonio Misceo e numerosi altri, Silvestro Fiore tra la fine dell’800 (che si era chiuso con le cannonate contro i lavoratori di Milano di Bava Beccaris) e gli inizi del ‘900 avvia la sua opera di organizzazione sindacale e di dirigente socialista”. “Nell’agosto del 1901 egli organizza uno “sciopero di campagnuoli”, che dura due settimane, durante il quale Silvestro Fiore viene arrestato assieme ad altri dirigenti della lega. A lui si deve, in primo luogo, l’organizzazione del primo congresso dei contadini pugliesi, che si svolse a Foggia nell’aprile del 1902. Da questo congresso nasce la Camera del Lavoro di Foggia che ha in Silvestro Fiore uno dei maggiori e più combattivi rappresentanti. Nel volgere di poco tempo l’organizzazione contadina di Foggia diventa una delle più numerose e combattive. Nel 1902 la Camera del Lavoro di Foggia è costituita da diverse leghe ben organizzate e dirette: contadini, muratori, mugnai e panettieri, calzolai, metallurgici, falegnami. La più forte è quella dei contadini con 2.400 aderenti. Quella delle contadine ha 1.500 socie. I contadini hanno il forno cooperativo ove si lavorano da 8 a 10 quintali di pane al giorno. Tutto il movimento è diretto da socialisti”. Nella terra degli “eccidi cronici” il nuovo secolo si apre con una sequela spaventosa: – Candela, 8 settembre 1902, otto morti, numerosi feriti, più di cento arresti. Il brigadiere dei carabinieri Centami, che diresse la carneficina, o che comunque non seppe evitarla, sarà premiato dal Governo Giolitti con una medaglia d’onore e trasferito ad Ancona: – Cerignola 16 maggio 1904, tre morti; – San Marco in Lamis, 8 marzo 1905, quattro morti. Anche a Foggia il 18 aprile 1905 avverrà un eccidio durante uno sciopero dei ferrovieri (sul sito: 18 aprile 1905 – L’eccidio di Foggia): cinque morti, decine di feriti ed arresti. Silvestro Fiore è fra gli arrestati e viene perseguitato fin quando non si decide di eliminarlo dalla scena L’ASSASSINIO Vi erano dissapori fra Silvestro Fiore e un gruppo di cosiddetti anarchici, fra cui alcuni fuorusciti dalla Lega dei contadini capeggiati da tale Carretta, peraltro non più rieletto negli ultimi organismi della Lega. L’ultimo attacco il Fiore lo aveva ricevuto su il “Libertario”, organo del partito anarchico, domenica 20 settembre 1909, e appena ne ebbe notizia, la sera del successivo sabato, andò a trovare il Carretta, a casa sua, per dare e avere spiegazioni circa le accuse fattegli. L’incontro, senza esito, fu rinviato al giorno successivo. Il Carretta, che sembra aver detto alla famiglia uscendo di casa “Pranzate pure, non mi aspettate”, unitamente ad alcuni compagni, e il Fiore con due aderenti alla Lega contadini si incontrarono lungo il corso principale e si appartarono per ragionare. All’improvviso il Carretta, che risultò essere prevenuto, estrasse un coltello, la cui lama era lunga ben 22 centimetri, e vibrò un terribile colpo al petto del Fiore. Il Fiore ricevuto il forte impatto del colpo, pur difendendosi con il bastone, perse l’equilibrio e cadde, al che il Carretta gli fu addosso e lo crivellò di pugnalate. Anche …

ODDINO MORGARI

Oddino Morgari nacque a Torino il 16 novembre 1865 da Paolo Emilio e da Clementina Lomazzi: una famiglia di artisti, di estrazione piccolo borghese. Da giovane si avvicinò alle idee mazziniane, un’adesione che nel clima politico dell’Italia liberale gli valse nel 1885 l’espulsione dall’Istituto geografico militare, dove stava svolgendo il servizio militare. Si recò dunque a Parigi e in seguito a Marsiglia, dove nel 1890 diresse un circolo mazziniano. La sua formazione politica conobbe una svolta nel 1891, quando incontrò a Torino il futuro dirigente socialista (e amico di Filippo Turati) Claudio Treves, col quale si avvicinò al socialismo, tanto che, quando nel novembre 1892 venne creata nel capoluogo piemontese la sezione locale dell’appena fondato Partito socialista dei lavoratori italiani, ne divenne il segretario. Iniziava così una milizia che sarebbe durata tutta la vita e cominciavano anche le collaborazioni giornalistiche con gli interventi su La Parola del Popolo, supplemento de Il Grido del Popolo. Sul movimento proletario organizzato si stavano però per abbattere i fulmini della repressione di Francesco Crispi e Morgari non ne fu immune. Già nell’agosto 1893 fu arrestato nel corso di una manifestazione e condannato a dieci giorni di detenzione, mentre nel 1894, sottoposto a processo insieme a Treves per un suo articolo (considerato «sovversivo») sul Grido, fu condannato a tre mesi di confino ad Aosta. Caduto Crispi e ripristinate – almeno momentaneamente – le principali libertà civili e politiche, Morgari poté tornare alla sua attività di dirigente politico e pubblicista. In questo periodo mise a punto la propria visione del socialismo di natura positivista, fondata sulla fiducia in un moto lineare di sviluppo verso un nuovo ordine sociale: il socialismo sarebbe giunto grazie a una spontanea spinta evolutiva, mediante i progressivi successi delle forze proletarie e l’espansione delle loro organizzazioni. Intanto rivelava le sue doti di propagandista, impegnandosi nella duplice attività di pubblicista e di conferenziere, con periodici giri a tutte le latitudini della penisola, dove sapeva rivolgersi alle masse popolari con parole semplici e persuasive. Grazie alla raggiunta notorietà, nel 1897 fu eletto deputato del Partito socialista italiano (PSI) a Torino, avviando così una lunga carriera parlamentare, che si protrasse ininterrottamente dalla XX (1897- 1900) alla XXVI legislatura (1921-24). Con la crisi di fine secolo sul partito si abbatté una nuova tempesta. Giunto a Milano nel maggio 1898, nei giorni della rivolta popolare e della brutale repressione, Morgari fu arrestato con l’accusa di aver incitato all’odio di classe. Sottoposto a processo presso la corte marziale, fu però assolto per insufficienza di prove e tornò alla sua attività di parlamentare e di propagandista, che svolse anche sulle pagine del Sempre avanti!, periodico per gli umili e i pratici, il settimanale da lui fondato nel febbraio 1900. Scosso dalle drammatiche vicende milanesi del 1898 e sulla scorta delle già acquisite convinzioni gradualiste, appoggiò l’alleanza elettorale del PSI con le forze radicali-democratiche per le elezioni politiche del 1900 e accolse con favore la svolta liberale guidata da Giovanni Giolitti nel 1901. Ciò nondimeno non aderì mai a posizioni che all’epoca venivano definite ‘ministerialiste’. Pur condividendo l’occasionale voto favorevole del gruppo parlamentare socialista verso singoli provvedimenti del governo, denunciò infatti instancabilmente il trasformismo di Giolitti e i metodi spregiudicati dei deputati giolittiani, soprattutto al Sud. Tanto che nel 1902 svolse un giro di conferenze proprio nel Meridione e pubblicò poi un pamphlet dal titolo Un lupo in mitria. Requisitoria contro sua eccellenza rev.ma monsignore dottor don Gaetano D’Alessandro vescovo e parroco di Cefalù in Sicilia (Corigliano Calabro 1905), un vero e proprio libro- inchiesta nel quale, anticipando i toni di lì a poco usati da Gaetano Salvemini su Critica sociale, lanciava un’accorata nonché documentata denuncia contro la mafia e invocava il suffragio universale maschile come l’unico strumento che – a suo giudizio – avrebbe posto dei limiti alla corruttela dei notabili e consentito l’ascesa delle masse popolari. Intanto nel 1906 fu eletto segretario della Camera del lavoro di Torino, dove accrebbe ulteriormente la sua popolarità, anche perché con grande pragmatismo condusse la lotta per le dieci ore di lavoro. Fu proprio questa peculiare combinazione di duttilità politica e rigore morale a porre le basi per una nuova, e forse più importante, svolta nella sua vita di militante. Nel PSI ferveva infatti lo scontro tra i riformisti di Turati e le correnti intransigenti di Arturo Labriola e Costantino Lazzari, i quali, grazie all’appoggio del carismatico direttore dell’Avanti! Enrico Ferri, nel 1904 avevano conquistato la guida del partito, con una maggioranza però ristretta e fragile, perché Ferri, resosi ben presto conto di non poter manovrare come sperava i suoi temporanei alleati, se ne stava distaccando. Morgari, da tempo angustiato per le fratture politicoideologiche che laceravano il partito, nonché interprete delle analoghe preoccupazioni della base, cui apparivano spesso incomprensibili le divisioni del vertice, si mise all’opera per sanare tali spaccature. Nacque così una nuova corrente, definita ‘integralista’, che vide in Morgari il promotore e il protagonista, con lo scopo di favorire la convergenza tra Ferri e i riformisti di Turati e Leonida Bissolati. L’operazione riuscì e al congresso del PSI del 1906 la vittoria arrise proprio alla corrente integralista, sulla quale confluirono i voti dei riformisti, intenzionati con tale atto ad emarginare la sinistra rivoluzionaria e a porre le basi per la piena riconquista del partito. Benché la piattaforma integralista fosse in realtà molto vaga e generica, tale successo valse a Morgari l’ascesa ai vertici della politica nazionale. Si trasferì quindi a Roma e venne poco tempo dopo nominato capo del gruppo parlamentare socialista alla Camera. Dal febbraio al settembre 1908, in seguito alle dimissioni di Ferri, assunse anche la direzione dell’Avanti!, che avrebbe lasciato a Bissolati dopo il congresso di Firenze del 1908, quando i riformisti riconquistarono la maggioranza del partito. Morgari si dedicò all’incarico parlamentare e a quello giornalistico con un impegno notevolissimo, associato però – come testimoniano le lettere del suo archivio personale – a una crescente insofferenza verso lo spirito di compromesso, che riteneva eccessivo, di molti deputati socialisti. La sua intransigenza emerse in modo particolare nel …

CARLO E NELLO ROSSELLI

Carlo e Nello (vero nome Sabatino) Rosselli nascono a Roma, rispettivamente il 16 novembre 1899 e il 29 novembre 1900. Il terzo fratello, Aldo, il primogenito, nato nel 1898, morirà durante la Prima guerra mondiale. La madre, Amelia Pincherle, apparteneva a una facoltosa famiglia della borghesia ebraica veneziana ed era scrittrice di teatro e di letteratura. Il padre, Giuseppe Emanuele, proveniva anch’egli da una nota famiglia ebraica fortemente legata alle vicende del Risorgimento nazionale, amica e sostenitrice di Giuseppe Mazzini nel lungo esilio londinese. Proprio in casa del prozio, Pellegrino Rosselli, a Pisa, era morto Mazzini nel 1872. Amelia, dopo la separazione dal marito, si trasferisce a Firenze nel 1903 con i tre figli, della cui educazione si assumerà tutta la responsabilità, trasmettendo loro il forte senso di una moralità austera, ma non per questo arida di affetto; un affetto che rimarrà saldissimo tra la madre e i figli per tutta la vita. Il profondo legame che, per parte sia di madre sia di padre, unisce la famiglia Rosselli al Risorgimento fa sì che profondo sia il sentimento di italianità che anima i tre fratelli; un sentimento che non si confonde né, da un lato, con il nazionalismo, né, dall’altro, con il sionismo, e che, in occasione del primo conflitto mondiale, viene rafforzandosi, essendo Amelia una fervida interventista. Aldo parte volontario nel giugno 1915, e come ufficiale di fanteria trova la morte in combattimento sulle Alpi Carniche nel marzo 1916. Carlo viene chiamato alle armi nel giugno 1917, svolge il servizio militare come ufficiale nell’artiglieria alpina e viene congedato nel febbraio 1920. Nello, pur non partecipando al conflitto, dall’aprile 1918 svolge il servizio militare e si congeda nel novembre 1919 con il grado di sottotenente. Per Carlo e Nello, tornati a Firenze, risulta fondamentale l’incontro con Gaetano Salvemini. Per Carlo, che nelle trincee ha scoperto l’Italia proletaria e che si laurea dapprima, nel 1921, in scienze politiche a Firenze e quindi, nel 1923, in legge a Siena, riveste grande importanza anche l’incontro con Alessandro Levi, filosofo politicamente turatiano, tramite il quale scopre il socialismo. Nello, tornato agli studi, nel 1919 si lega di un affetto filiale a Salvemini, confidandogli la propria scelta di dedicarsi alla ricerca storica; nella primavera del 1920 questi gli affida una tesi sull’ultimo periodo della vita di Mazzini, che gli fa stendere per ben tre volte prima di consentirgli di laurearsi, nel marzo 1923, in filosofia e filologia. Nel novembre di quello stesso anno Carlo inizia a insegnare presso l’Università Bocconi di Milano quale assistente nel corso di economia politica di Luigi Einaudi; nel 1924, grazie all’appoggio di Attilio Cabiati, diviene docente incaricato di istituzioni di economia politica presso la facoltà di Economia di Genova. Nel 1926 Carlo sposerà l’inglese Marion Cave, dalla quale avrà tre figli (tra cui la nota poetessa Amelia Rosselli); nello stesso anno Nello sposerà Maria Todesco, dalla quale avrà quattro figli. Entrambi – e con loro Piero Calamandrei – fanno parte sin dalla fondazione del gruppo che, dal 1920, riunito intorno a Salvemini, costituisce il primo nucleo organizzato dell’antifascismo italiano. Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), Carlo aderisce al Partito socialista unitario (PSU), mentre anche l’impegno politico di Nello si intensifica, e nel novembre 1924 a Livorno, dalla tribuna del quarto Congresso giovanile ebraico, egli lancia un messaggio di lotta e di mobilitazione. Frattanto, dal 1919 a Firenze agisce un fascismo squadristico particolarmente violento e senza scrupoli, che ricorre anche all’assassinio politico; per gli antifascisti non è facile, ed è molto rischioso, trovare le forme per opporvisi. Al fianco di Salvemini, vero leader dell’antifascismo fiorentino in quegli anni difficili, Nello è particolarmente attivo, a partire dal 1920, nel raccogliere intorno allo storico pugliese coloro che desiderano discutere liberamente di argomenti politici, sociali, economici e culturali. Si tratta di un impegno che riscuote un grande consenso, tanto che, nel febbraio 1923, si decide di fondare un Circolo di cultura che inizia la propria attività due mesi dopo. A Firenze, ove si fronteggiano gli squadristi più violenti e antifascisti di grande coraggio, nel giugno 1924 gli interventisti democratici danno vita all’associazione clandestina Italia libera, cui partecipa anche Nello, con un’attività rilevante. Oltre a Calamandrei, vanno ricordati quali membri del gruppo salveminiano Ernesto Rossi, Nello Traquandi e Nello Niccoli, poi tutti aderenti al Partito d’azione; gli ultimi due saranno attivissimi nella cospirazione e nella lotta armata (Niccoli, per es., sarà il comandante del Corpo volontari della libertà della Toscana). Il fascismo, dopo aver superato la crisi provocata dall’assassinio di Matteotti, si appresta a dare l’assalto definitivo al moribondo Stato liberal-sabaudo e intensifica la propria azione aggressiva contro gli oppositori del regime. A Firenze l’offensiva è particolarmente violenta: il 31 dicembre 1924 gli squadristi assaltano le sedi del quotidiano liberal-democratico «Il nuovo giornale» e del Circolo di cultura; quest’ultimo viene sciolto il 5 gennaio 1925. Carlo e Nello sono tra coloro che con più calore sostengono la necessità, vista la situazione, di passare alle vie illegali, un’idea che trova concordi Traquandi, Ernesto Rossi e altri; così, nel gennaio 1925 vede la luce «Non mollare», giornale clandestino e primo foglio dell’antifascismo italiano. Il giornale uscirà fino a ottobre, ma Nello non ne potrà seguire ogni numero poiché Salvemini in marzo lo invia a Berlino per un periodo di studio. Ed è in Germania che Nello apprende dell’arresto di Salvemini, avvenuto l’8 giugno, e del processo cui è sottoposto, nonché dell’irruzione squadristica nella propria casa, che viene devastata perché i Rosselli – cui i fascisti danno la caccia – sono accusati di aver ospitato Salvemini. Così Nello decide di prolungare la permanenza a Berlino e torna a Firenze solo in agosto, quando la situazione è ormai più tranquilla. La calma, tuttavia, dura poco. Infatti, quando «Non mollare», il 20 settembre, pubblica una lettera a Benito Mussolini di Cesare Rossi, già suo capoufficio stampa, in cui questi minaccia di renderne note le responsabilità dirette nella promozione di azioni illegali e squadristiche contro gli oppositori del regime, a Firenze la violenza fascista dilaga con inaudita forza …

GIUSEPPE EMANUELE MODIGLIANI

Nacque a Livorno il 28 ottobre 1872, da Flaminio e da Eugenia Garsin, in una famiglia della borghesia ebraica, primogenito di quattro fratelli, l’ultimo dei quali, Amedeo, fu il celebre pittore. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa, ebbe come docenti E. Ferri e A. Zerboglio, la cui influenza fu determinante nell’avvicinare Modigliani al socialismo. Tra i fondatori, nel 1894, della sezione livornese del Partito socialista, fu eletto l’anno successivo consigliere comunale della sua città, quindi segretario della Federazione socialista toscana. Laureatosi in giurisprudenza, mise l’attività professionale al servizio della battaglia politica, difendendo nel 1896 i dirigenti della Camera del lavoro di Livorno accusati di incitare all’odio tra le classi. Iniziò a collaborare con la stampa di partito e nel 1898 fu chiamato a Piacenza per dirigere il settimanale socialista La Montagna ma, appena giunto nella città emiliana, fu arrestato. Trasferito a Firenze fu portato davanti al tribunale militare, che lo condannò a nove mesi di carcere. Al VI congresso socialista (Roma, 8-11 settembre 1900) Modigliani, schierato con la corrente riformista di Filippo Turati, presentò un ordine del giorno che dava il via libera ad alleanze locali con altre formazioni di sinistra. A Livorno i socialisti aderirono al blocco popolare che vinse le elezioni ed espresse una giunta di cui Modigliani fece parte come assessore al dazio consumo, ma nel gennaio 1903, delusi dall’esperienza amministrativa, ritirarono il loro sostegno. Contrario a tale scelta il M. si trovò in minoranza e nel 1904 non fu delegato all’VIII congresso nazionale, che vide prevalere la sinistra intransigente e rivoluzionaria. Lo scontro interno al Partito socialista italiano (PSI) assunse a Livorno toni particolarmente aspri sulle pagine dei settimanali L’Azione socialista, diretto da Modigliani ed espressione dei riformisti, e La Parola dei socialisti, voce delle correnti rivoluzionarie. Il riformismo di Modigliani aveva caratteri originali, distinguendosi da quello che egli definiva «piccolo operaio» legato al mondo sindacale o cooperativo. Pur avendo maturato una significativa esperienza sindacale come organizzatore dei «bottigliai» (nel 1901 condusse la categoria alla conquista del contratto collettivo nazionale, il primo sottoscritto in Italia) Modigliani assegnava al partito il primato nella rappresentanza degli interessi generali della classe lavoratrice. Al congresso di Firenze (19-22 settembre 1908), allorché i riformisti tornarono alla guida del partito, Modigliani, pur senza rompere con la corrente d’appartenenza, assunse tuttavia una posizione distinta, trovandosi d’accordo con Gaetano Salvemini su una serie di punti: dalla battaglia per il suffragio universale al rifiuto del riformismo «corporativo», dall’opposizione al sistema giolittiano al rilievo dato alla questione meridionale. L’XI congresso (Milano, 21-25 ottobre 1910), che confermò i riformisti alla guida del PSI, rese però evidenti le divisioni al loro interno tra i seguaci di Turati, la sinistra guidata da Modigliani e la destra di Leonida Bissolati. A scompaginare ulteriormente le file riformiste intervenne la guerra di Libia, che provocò l’uscita di Salvemini dal partito e, con motivazioni opposte, l’espulsione di Bissolati, Ivanoe Bonomi e Angiolo Cabrini decisa dal XIII congresso (Reggio Emilia, 7-10 luglio 1912). In quella sede Modogliani, dissentendo dalla linea prudente di Turati, auspicò un’opposizione più dura contro il governo. Eletto alla Camera il 26 ottobbre 1913 nel collegio di Budrio-Molinella, già nel corso della sua prima legislatura Modigliani emerse come una delle figure di spicco dell’aula, in virtù degli oltre cento interventi svolti e di una perfetta conoscenza del regolamento e delle prerogative parlamentari. La sua voce si levò contro l’impresa libica e quindi contro l’intervento dell’Italia nella guerra mondiale, denunciando le speculazioni affaristiche, gli errori del governo e dei comandi militari e la dura disciplina imposta ai soldati al fronte. Modigliani fu uno dei protagonisti delle iniziative pacifiste del movimento socialista europeo. Il 27 settembre 1914 partecipò alla conferenza socialista italo-svizzera di Lugano, che denunciò la guerra come strumento del capitalismo per conquistare nuovi mercati e opprimere il proletariato. Fu estensore, insieme con Christjan Rakovskij e Leon Trotskij, dell’ordine del giorno approvato dalla conferenza dell’Internazionale socialista di Zimmerwald (5-8 settembre 1915), e alla successiva conferenza di Kienthal (24-30 aprile 1916) condannò il comportamento di quei partiti che avevano fatto prevalere la propria ragion di Stato sulla solidarietà internazionalista. La sua posizione non gli impedì di partecipare alle due conferenze socialiste dei paesi alleati sui problemi della pace, che si tennero a Londra nel 1918. Un passaggio del suo intervento nel quale auspicava «una pace qualunque» fu preso a pretesto dai suoi avversari politici per attaccarlo e per far votare, in sua assenza, dal Consiglio comunale di Livorno, un ordine del giorno che esprimeva «il più profondo disprezzo» verso quanti, invocando, come in Russia, una «pace di servi» deprimevano lo spirito pubblico. Indignato per l’attacco, il 3 maggio 1918 Modigliani si dimise dal Consiglio, ma tornò a farne parte dopo le elezioni del 7 novembre 1920 con le quali i socialisti conquistarono per la prima volta il Comune, confermando il successo ottenuto l’anno prima alle politiche. La lotta contro la guerra aveva accresciuto la popolarità di Modigliani, che tornò alla Camera riportando il maggior numero di voti nel collegio Pisa-Livorno. Di lì a poco il suo ruolo fu però messo in discussione dalla crescente influenza nel Partito socialista dei massimalisti e dei gruppi anarchici. La suggestione degli eventi russi, i moti contro il caro vita, l’occupazione delle fabbriche concorsero a determinare il distacco dal gradualismo di Modigliani di parti importanti del movimento operaio e socialista livornese. All’interno di un partito quasi interamente sedotto dalla prospettiva rivoluzionaria Modigliani si ostinava a battersi per un’aggregazione delle forze progressiste intorno alla formula «Costituente e Repubblica». La sua proposta cadde nel vuoto mentre egli stesso veniva additato da Lenin come uno dei dirigenti riformisti di cui occorreva liberarsi per poter creare in Italia il partito rivoluzionario. Vittima di due aggressioni squadriste – il 20 luglio 1920 a Roma e il 1° maggio 1921 sul treno Pisa-Viareggio – Modigliani fu tra i patrocinatori del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti del 3 agosto 1921 e fautore di un’intesa di governo tra il PSI e le forze della borghesia laica e cattolica in funzione antifascista. …

ENRICO FERRI

Enrico Ferri nacque a S. Benedetto Po, in provincia di Mantova, nel 1856, da famiglia di media agiatezza. Compiuti i primi studi nel paese nativo, divenne alunno di Roberto Ardigò al liceo classico “Virgilio” di Mantova e poi di Pietro Ellero alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove si laureò nel 1877 con una tesi su La teorica dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio. Dopo il perfezionamento a Pisa ed a Parigi dove scrisse gli Studi sulla criminalità in Francia dal 1825 al 1878 ottenne la libera docenza e poi la cattedra di diritto penale, materia che insegnò ininterrottamente dal 1884 al 1929 nelle Università di Torino, Bologna, Siena ed infine Roma. Fu fra i fondatori italiani della sociologia criminale, con opere quali Socialismo e criminalità (1883), Sociologia criminale (1892), Socialismo e scienza positiva (1894), nonchè, nel 1919, presidente della Commissione reale per la riforma delle leggi penali, veste nella quale pubblicò un Progetto di codice penale italiano (1921), preceduto da una relazione introduttiva che influenzò largamente la legislazione penale anche di altri paesi. Radicale moderato fu eletto deputato per la prima volta nel 1886. Nel 1893, in occasione del congresso socialista di Reggio Emilia aderì al partito assestandosi su posizioni moderate, che già al congresso di Firenze del 1896 abbandonerà per diventare uno degli ispiratori di un’area di ‘rivoluzionari intransigenti’. Fu direttore dell’”Avanti!” dal 1904 al 1908. Nel febbraio 1911 aderì a Democrazia rurale del socialista mantovano Gatti. Nel marzo 1912, dopo avere votato a favore del decreto di annessione della Libia all’Italia, diede le dimissioni da deputato uscendo dal Partito socialista. Allo scoppio della prima guerra mondiale pur sostenendo la neutralità italiana, non nascose simpatie per l’interventismo democratico. Rieletto nel 1921 nelle liste del Psi per la circoscrizione di Cremona – Mantova, nel 1922 aderì al Psu, ma nei mesi successivi si avvicinò progressivamente al fascismo. Nominato senatore nel marzo del 1929, morì il 12 aprile dello stesso anno. Fonte: Fondazione di studi storici Filippo Turati SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SANDRO PERTINI

Alessandro Pertini nacque a Stella, in provincia di Savona, il 25 settembre 1896 da famiglia benestante (il padre Alberto era proprietario terriero). Quattro i suoi fratelli: Luigi, il primogenito, pittore; Marion sposata a un diplomatico; Giuseppe ufficiale di carriera; Eugenio, scomparso giovanissimo nel campo di concentramento di Flossenbürg, il 25 aprile 1945. Legatissimo alla madre, Maria Muzio, Pertini compì i suoi studi presso il collegio dei salesiani “Don Bosco” di Varazze; poi al liceo “Chiabrera” di Savona. Qui, ebbe come docente di filosofia Adelchi Baratono, socialista massimalista, ma anche collaboratore della Critica Sociale di Filippo Turati, che contribuì a indirizzarlo verso il socialismo e gli ambienti del movimento operaio ligure. Iscrittosi all’Università, Pertini si laureò in giurisprudenza. Nel 1917, venne richiamato come sottotenente di complemento e inviato sul fronte dell’Isonzo e sulla Bainsizza. Sebbene segnalato alle autorità militari come simpatizzante socialista e neutralista, il giovane tenente si distinse per una serie di atti di eroismo e venne proposto per la medaglia d’argento al valor militare per aver guidato, nell’agosto 1917, un assalto al monte Jelenik. Nel primo dopoguerra, Sandro Pertini si avvicinò al PSI. Trasferitosi a Firenze, ospite del fratello Luigi, si iscrisse all’Istituto “Cesare Alfieri” conseguendo la laurea in Scienze politiche nel 1924, con una tesi intitolata “La Cooperazione”. A Firenze, Pertini entrò in contatto con gli ambienti dell’interventismo democratico e socialista e in particolare con Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi. In questo periodo aderì al movimento antifascista “Italia Libera”. Ormai in conflitto irriducibile con il fascismo, che proprio nell’ottobre del 1922 era salito al potere con la marcia su Roma, il giovane avvocato divenne presto il bersaglio di ripetute violenze squadriste. Nel 1924, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti da parte dei fascisti, aderì al Partito socialista unitario. All’indomani del delitto Matteotti, Pertini iniziò un’intensa attività contro il fascismo. Il suo studio di avvocato a Savona venne più volte distrutto; egli stesso fu bastonato in più occasioni dagli squadristi. Il 22 maggio 1925, venne arrestato a Stella per aver distribuito il foglio clandestino Sotto il barbaro dominio fascista. Negli articoli in esso pubblicati e rivendicati da Pertini come propri, venivano poste in rilievo le responsabilità della monarchia per il perdurare del regime fascista e delle sue illegalità. Inoltre, si esprimeva sfiducia nell’operato del Senato del Regno, composto in maggioranza da filofascisti, chiamato a giudicare in Alta Corte di Giustizia l’ eventuale complicità del generale Emilio De Bono nel delitto Matteotti. Accusato di “istigazione all’odio tra le classi sociali” (art. 120 del Codice Zanardelli), oltre che dei reati di stampa clandestina, oltraggio al Senato e lesa prerogativa della irresponsabilità del re per gli atti di governo, Pertini, sia nell’interrogatorio successivo all’arresto, sia di fronte al procuratore del re, sia durante l’udienza pubblica davanti al Tribunale di Savona, rivendicò il proprio operato, assumendosi ogni responsabilità, e si disse deciso, qualunque fosse la condanna inflittagli, a proseguire nella lotta antifascista, per il socialismo e la libertà. Il 3 giugno di quello stesso anno, fu condannato a otto mesi di detenzione e al pagamento di un’ ammenda per i reati di stampa clandestina, oltraggio al Senato e lesa prerogativa regia, ma fu assolto per l’accusa di istigazione all’odio di classe. Liberato dopo il vittorioso appello del suo difensore, Giovambattista Pera, Pertini proseguì nella sua lotta. Il 9 giugno 1925, alla vigilia dell’anniversario del delitto Matteotti, con l’aiuto di alcuni operai, Pertini riuscì ad appendere, sotto la lapide che alla fortezza di Savona ricordava la prigionia di Giuseppe Mazzini, una corona con un nastro rosso e la scritta: “gloria a Giacomo Matteotti”. Le violenze e le bastonature fasciste proseguirono con maggiore violenza. La più grave, nell’estate del 1926, lo costrinse al ricovero in ospedale. Nel novembre 1926, dopo il fallito attentato a Mussolini di Zamboni, Pertini, come molti altri antifascisti in tutta Italia, fu oggetto di nuove violenze da parte dei fascisti e fu costretto ad abbandonare Savona e a rifiugiarsi a Milano. Il 4 dicembre, dopo la proclamazione delle leggi eccezionali, venne assegnato al confino per la durata di cinque anni (il massimo previsto dalla legge). Ormai in clandestinità, rifugiatosi presso l’abitazione milanese di Carlo Rosselli, Pertini ebbe modo di conoscere di persona il “maestro” del socialismo riformista italiano, Filippo Turati. Fu anzi uno degli organizzatori del suo clamoroso espatrio. All’ultimo momento, anche in considerazione dell’avvenuta assegnazione al confino, Pertini venne scelto come accompagnatore di Turati verso l’esilio francese. Per prima cosa, fu deciso di dirigersi verso Savona. Dall’8 all’11 dicembre, Pertini e Turati trovarono rifugio in casa di Italo Oxilia a Quigliano. Nella notte tra l’11 e il 12 dicembre, accompagnati da Ferruccio Parri, Carlo Rosselli e Adriano Olivetti, nonché da Boyancé, Oxilia, Da Bove e dal meccanico Amelio, Turati e Pertini si imbarcarono da uno dei moli di Savona su un motoscafo guidato da Oxilia e Da Bove. Dopo una tempestosa navigazione, raggiunsero, la mattina del 12, la città di Calvi, in Corsica. Mentre gli altri ripartivano per l’Italia nel pomeriggio del giorno successivo, Pertini e Turati rimasero in Francia. In una pagina piena di commozione, Pertini rievocherà l’amarezza di Filippo Turati, consapevole che mai più sarebbe tornato in Italia. Il mattino del 14 dicembre, Parri e Rosselli, scoperti dalla polizia mentre attraccavano con il motoscafo a Marina di Carrara, vennero subito collegati al clamoroso espatrio di Turati. La vicenda sfociò nel processo di Savona, che si concluse il 14 settembre 1927 con la condanna a 10 mesi di reclusione per Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Da Bove e Boyancé; e con quella di Turati e Pertini, in contumacia. Anche Oxilia, in quanto capo della spedizione, subì una dura condanna. Il processo di Savona fu una delle ultime manifestazioni pubbliche della lotta contro il fascismo in Italia. In esilio, Pertini strinse contatti con gli altri antifascisti italiani e partecipò al congresso della Lega dei diritti dell’uomo tenutosi a Marsiglia. Trasferitosi a Parigi e poi a Nizza, si adattò a diversi mestieri per vivere: da lavatore di taxi a manovale e muratore, dal peintre en bâtiment alla comparsa cinematografica. Nel …

BETTINO CRAXI

1934-1968 – La Formazione – Inizio dell’attività politica LA FORMAZIONE Bettino (diminutivo di Benedetto) Craxi nacque a Milano il 24 febbraio del 1934. Il padre Vittorio era originario di Messina, emigrato a Milano dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, e la madre Maria Ferrari era di S. Angelo Lodigiano. Ebbero altri due figli, Antonio e Rosilde. Negli anni della guerra, mentre Bettino frequentava la scuola elementare al collegio De Amicis di Cantù, il padre aprì uno studio legale e si inserì nella vita politica cittadina. Dopo la distruzione del primo ufficio durante un bombardamento alleato, il secondo studio si trasformò in sede di incontri clandestini fra persone ostili al regime fascista. Vittorio aderì alla Resistenza entrando nell’esecutivo del Partito Socialista, e al termine della guerra fu nominato prima viceprefetto di Milano e successivamente prefetto di 2° classe a Como. Impegnato anche nella vita di partito, Vittorio partecipò alle elezioni politiche del 1948, ma senza successo. Già allora, Bettino svolse un ruolo molto attivo nella campagna elettorale del padre; colse la debolezza del Psi fra i partiti di massa, e la predominanza del Pci tra i partiti del Fronte Democratico Popolare. A diciotto anni, terminato il liceo, Bettino si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano, seguendo la direzione paterna. Sostenne diversi esami, ma non completò mai il percorso di studi. Biografia Contemporaneamente, nel 1952, maturò la decisione di iscriversi al partito, presso la sezione di Lambrate. Furono anni di grande attivismo universitario, con la fondazione del Nucleo universitario socialista entrò nel gruppo Università Nuova, aderente al Cudi (Centro universitario democratico italiano), l’organizzazione studentesca che nei primi anni dell’Unuri (Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana) raggruppava le forze della sinistra frontista. Tenne i primi discorsi in pubblico, organizzò conferenze, dibattiti, proiezioni cinematografiche, ed entrò a far parte del Comitato provinciale del Psi milanese. L’INIZIO DELL’ATTIVITA’ POLITICA Con le associazioni universitarie visitò i paesi del socialismo reale a metà degli anni cinquanta. Nel 1956, in qualità di vicepresidente nazionale dell’Unuri e dirigente della Federazione giovanile socialista, si recò a Pechino e poi, come delegato del Cudi, a Praga. Nella città ceca conobbe Jiri Pelikan, presidente dell’Uie (Unione internazionale degli studenti). A seguito dei fatti di ottobre in Polonia presentò al Direttivo provinciale del Psi, insieme ad altri giovani militanti, una mozione in cui si esprimeva solidarietà nei confronti dei giornalisti di «Po Prostu», quotidiano colpito dalla censura e poi soppresso. L’osservazione diretta del mondo comunista e, soprattutto, la conoscenza personale dei dissidenti ungheresi e polacchi consolidarono in lui la necessità di differenziare la politica del Psi da quella del Pci. L’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) spinse Nenni ad un definitivo ripudio della fallimentare esperienza frontista. Per Craxi era giunto il momento dell’irrevocabile distacco dalla politica filocomunista in favore di una svolta del tutto autonoma del Psi. Con il gruppo di giovani che condivideva questa linea, Craxi fondò «Energie nuove». Da Milano ebbe inizio la battaglia di un gruppetto dei giovani autonomisti: Durante, Cocucci, Turri e Natali. Al nucleo originario se ne unì un altro, composto tra gli altri da Carlo Tognoli, Giorgio Gangi, Luigi Vertemati, i fratelli Baccalini. Al Congresso di fine anno, gli autonomisti conquistarono la maggioranza: Guido Mazzali e Giovanni Mosca divennero rispettivamente segretario e vicesegretario. Sempre nel 1956, alle elezioni amministrative di novembre, Craxi si presentò nella lista del Psi e fu eletto consigliere comunale a S. Angelo Lodigiano, paese natale della madre. Al Congresso di Venezia, dal 6 al 10 febbraio 1957, venne eletto nel Comitato centrale del Psi dagli autonomisti di Nenni. Insieme ai giovani universitari socialisti, Craxi entrò nell’Unione goliardica italiana (Ugi) e svolse un’intensa attività interna e internazionale. Partecipando a meeting e congressi studenteschi in Cina, in Perù, in Africa settentrionale, a Londra e a Parigi sviluppò una rete di relazioni internazionali che mantenne anni dopo anche nel partito. Quando, nel 1958, una coalizione composta da radicali, comunisti e sinistra socialista lo mise in minoranza, dapprima nell’Unuri, poi nell’Ugi, Craxi tornò a dedicarsi prevalentemente alla vita di partito. Fu inviato da Mazzali a Sesto S. Giovanni come responsabile di zona. Nella “Stalingrado d’Italia” il contatto quotidiano con la classe operaia impegnata in lotte sindacali rappresentò una tappa fondamentale della sua formazione. In seguito alle elezioni amministrative del 1960, Craxi entrò nella giunta milanese amministrata da cattolici e socialisti come assessore all’Economato. Riconfermato consigliere nel novembre 1964, proseguì il suo impegno pubblico come assessore alla Beneficenza e Assistenza fino a quando, eletto segretario federale nel 1965, lasciò l’assessorato per dedicarsi al partito. 1968-1983 – L’elezione alla Camera e l’ascesa nel Partito – La nuova identità del PSI L’ELEZIONE ALLA CAMERA E L’ASCESA NEL PARTITO Nelle elezioni politiche del maggio 1968 Craxi fu eletto deputato per la prima volta. Dopo il fallimento dell’unificazione socialista (1969), agli inizi del 1970 Giacomo Mancini divenne segretario nazionale del Psi, affiancato da tre vicesegretari: Codignola (in rappresentanza dei lombardiani), Mosca (per il gruppo di De Martino) e Craxi (per gli autonomisti). Confermato vicepresidente anche dopo il successivo congresso, tenutosi a Genova nel 1972, con De Martino segretario nazionale, Craxi ebbe l’incarico di curare i rapporti internazionali del partito. Nell’ambito dell’Internazionale socialista, come rappresentante del Psi, conobbe i leader dei maggiori partiti socialisti del tempo, da Willy Brandt a François Mitternad, stringendo particolari contatti con i leader dei partiti clandestini dei paesi sotto regime dittatoriale, sia in Europa sia in Sud America. Nella politica nazionale, il problema maggiore del Psi rimaneva la ricerca di un proprio spazio, in contrapposizione tanto alla Dc quanto al Pci. La ricerca di un’affermazione elettorale con la quale si arrivò alle consultazioni politiche del giugno ’76 fu brutalmente disattesa dai deludenti risultati. Il clima del successivo Comitato nazionale, convocato per luglio all’Hotel Midas di Roma, fu da resa dei conti. Si puntò il dito contro la chiusura del partito, contro la presenza di troppe correnti e fazioni in lotta intestina, e la segreteria De Martino fu accusata di non essere adeguata ai tempi. Dopo lunghe trattative e veti incrociati, la convergenza fra manciniani, lombardiani, alcuni demartiniani …

Giacomo Mancini

Giacomo Mancini nacque a Cosenza il 21 apr. 1916 da Pietro e da Giuseppina De Matera. Crebbe in una famiglia socialista, dominata dalla figura del padre, deputato del Partito socialista italiano (PSI) e perseguitato dal fascismo. Dopo il diploma liceale fu mandato dal padre a Torino, dove, nel 1938, conseguì la laurea in giurisprudenza. L’armistizio dell’8 sett. 1943 lo sorprese a Novi Ligure dove stava svolgendo il servizio militare: immediatamente decise di recarsi a Roma, e qui si iscrisse all’appena fondato Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP). Nella capitale occupata dai tedeschi si dedicò all’attività di resistenza clandestina con l’incarico, assegnatogli da G. Vassalli, di proselitismo e diffusione della stampa nella zona di Prati-Trionfale. Solo dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944 riuscì a raggiungere la famiglia in Calabria, dove maturò la scelta definitiva per la militanza politica, impegnandosi nelle lotte contadine e guadagnandosi, nel 1946, la nomina a segretario della federazione socialista di Cosenza. Privo della faconda oratoria del padre, manifestò subito uno spiccato pragmatismo, con una particolare attenzione agli aspetti pratici e organizzativi della lotta politica: tratti che lo avrebbero accompagnato nel corso di tutta la sua carriera. Ne derivava che, immerso nelle lotte contadine e venuto a contatto con le terribili condizioni di vita delle plebi del Sud, Mancini. sviluppò una spiccata sensibilità verso la questione meridionale, cui sarebbe rimasto fedele tutta la vita; e ne derivava altresì che, in una zona dove le sezioni socialiste e comuniste erano solitamente situate nei medesimi locali e dove i militanti di entrambi i partiti conducevano l’uno a fianco dell’altro le medesime occupazioni di terre, egli si schierò senza esitazioni a favore della politica unitaria delle sinistre e del patto d’unità d’azione PCI (Partito comunista italiano) – PSIUP. Proprio la questione dell’alleanza con il PCI stava però lacerando irrimediabilmente il PSIUP, fino alla scissione consumata nel gennaio 1947 al congresso di Roma. Qui Mancini si schierò con la sinistra guidata da Pietro Nenni e Lelio Basso: una scelta che gli valse il salto sul proscenio della politica nazionale, con la nomina, a soli trent’anni, nella direzione del partito (dopo la scissione socialdemocratica denominato PSI: Partito socialista italiano). Mancini compensò alcune carenze emerse nell’attività di vertice, data l’inesperienza e la giovane età distinguendosi ancor più come abile organizzatore in periferia, tanto che in Calabria anticipò la fusione che PSI e Partito d’azione (Pd’A) avrebbero realizzato poche settimane dopo sul piano nazionale. Si candidò quindi alla Camera nelle liste del Fronte popolare e fu eletto deputato il 18 apr. 1948. Le elezioni del 1948 ebbero, com’è noto, esito negativo per il Fronte e, all’interno dell’alleanza, disastroso per il PSI. Per il partito iniziò una stagione nuova, caratterizzata, sotto la segreteria di Nenni, dall’intensa opera di rifondazione organizzativa guidata da Rodolfo Morandi, che agì con grande determinazione, ma anche con molta durezza e notevole intransigenza ideologica. Mancini ammirava Morandi, anche per le affinità con un carattere simile al suo, schivo e introverso, sicché partecipò alla sua attività, approvandone tuttavia più gli aspetti pratici che le rigidità ideologiche: la politica italiana era ormai dominata dai grandi partiti di massa e i socialisti non potevano competere con Democrazia cristiana (DC) e PCI senza un’adeguata organizzazione. Anche in Calabria, il tradizionale clientelismo “verticale” fondato sul notabilato e sul rapporto diretto cliente-elettore, veniva soppiantato da un nuovo clientelismo “orizzontale” che operava “per il tramite non più dell’avvocato o del notabile locale, ma di un’organizzazione sostenuta da funzionari e burocrati”. Mancini colse immediatamente la portata di tali innovazioni e adottò “uno stile politico non ideologizzato, ma calibrato volta per volta su obiettivi specifici, perseguiti con caparbia attenzione all’evoluzione dei rapporti di forza”. Dal momento che gli anni Cinquanta furono caratterizzati in Calabria dalla riforma agraria, dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e dalla legge speciale “pro-Calabria”, Mancini si impegnò a scrutarne con accanimento l’applicazione, denunciando ritardi, carenze e abusi, segnalando le degenerazioni della spesa pubblica, scrivendo cospicui dossier, poi oggetto di campagne di stampa e interventi parlamentari. Un impegno che gli fruttò la rielezione, nel 1953, e il rapido ritorno negli organi nazionali del partito, il comitato centrale e la direzione. Alla fine del decennio, aveva compreso che in Calabria la lotta contro il latifondo era ormai conclusa: di fronte allo spopolamento delle campagne, dovuto all’emigrazione di massa verso il Nord conseguente al miracolo economico, non aveva più senso mirare alla riforma dei rapporti agrari. Bisognava superare la linea del PCI, che egli giudicava troppo “ruralista”, e fondare un “nuovo meridionalismo”, che puntasse all’industrializzazione e all’inserimento del Sud nei circuiti del moderno sviluppo economico. Era una ricerca di nuove soluzioni politiche che si abbinava con il coevo mutamento di strategia del PSI: nel 1956, infatti, la destalinizzazione e poi l’invasione sovietica dell’Ungheria avevano indotto Nenni a rompere l’alleanza col PCI, provocando tuttavia anche una spaccatura interna al partito. Si schierò subito a favore della scelta autonomista del segretario; anzi, vincendo la sua consueta ritrosia di temperamento, si impegnò in duri scontri in direzione contro gli esponenti della sinistra interna . Al congresso di Venezia del febbraio 1957 la frattura si rivelò tuttavia più grave del previsto, paralizzando di fatto l’azione del partito. Un passaggio decisivo diventavano così le elezioni del 1958, vissute dalle correnti anche come una verifica dei rapporti di forza: in Calabria lo scontro si fece particolarmente aspro tra la sinistra capeggiata da R. Minasi e il gruppo guidato da Mancini che, secondo il giudizio unanime dei prefetti e dei funzionari del PCI, riuscì a porsi come punto di riferimento degli autonomisti di tutta la regione. Il risultato delle elezioni, positivo per il PSI, fu interpretato come un appoggio dell’elettorato alla linea di Nenni; sicché, al successivo congresso di Napoli, nel gennaio 1959, la corrente autonomista prevalse, seppur di poco. Si trattava ora di ampliare e consolidare tale consenso; e un ruolo chiave in questa sfida fu giocato proprio da Mancini che, per l’abilità mostrata come dirigente locale, ottenne l’incarico, cruciale, di responsabile nazionale dell’organizzazione. Si trattava di un compito gravoso: non solo …

GINO GIUGNI

Luigi Giugni, meglio conosciuto col diminutivo di Gino (Genova, 1º agosto 1927 – Roma, 4 ottobre 2009), è stato un politico e accademico italiano che ha ricoperto un ruolo chiave nella stesura dello Statuto dei lavoratori. Nato nel 1927 a Genova, a diciotto anni nel 1945 si iscrive al Partito Socialista Italiano. Nel 1949 si laureò in giurisprudenza discutendo una tesi intitolata «Dal delitto di coalizione al diritto di sciopero» (relatore Giuliano Vassalli), e, successivamente, si trasferì negli Stati Uniti[2] per proseguire il suo iter di specializzazione. Dopo un breve impiego all’ENI in Italia, inizia la carriera universitaria e la collaborazione col gruppo editoriale Il Mulino e con La Repubblica. Giugni ha esercitato la professione di avvocato ed insegnato diritto del lavoro presso l’Università di Bari e la Università di Roma La Sapienza. Quest’ultima verrà da lui lasciata in seguito all’accoglimento dell’invito formulatogli dall’allora Presidente della LUISS Guido Carli Luigi Abete, di assumere la titolarità della cattedra di Diritto del Lavoro presso la stessa Università di Confindustria. È stato visiting professor nelle Università di Nanterre, Parigi, UCLA (Los Angeles), Buenos Aires e Columbia University di New York. Il suo saggio “Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva” (1960) è stato uno dei primi lavori accademici a dare dignità ed autonomia al diritto sindacale. Giugni è ricordato come il “padre” dello Statuto dei lavoratori. Nel 1969 Giacomo Brodolini istituì una Commissione nazionale con l’incarico di stendere una bozza dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Tale commissione era composta da personaggi di notevole spessore e a capo Brodolini vi mise Giugni, all’epoca solo un professore universitario, seppur già molto noto. Lo Statuto permise di far entrare la Costituzione italiana nelle fabbriche, nel periodo dell’autunno caldo e della nascita della lotta armata. Su quel periodo Giugni sostenne: « Fu un momento eccezionale, forse l’unico nella storia del diritto in Italia: era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di “segretari del Principe”, da tecnici al servizio dell’istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto». Giugni è anche stato l’inventore del trattamento di fine rapporto (TFR), riformando il sistema delle liquidazioni dei lavoratori italiani, introducendo una sorta di sistema contributivo. Il 3 maggio 1983, mentre stava camminando a Roma, venne “gambizzato” da una donna. L’attentato fu rivendicato dalle Brigate Rosse, e fu anche il primo di un cambio di strategia da parte di quella organizzazione terroristica. Tale nuova strategia, infatti, consisteva non più nel colpire il “cuore” dello Stato attraverso i suoi poliziotti, magistrati o alti dirigenti politici (strategia rivelatasi perdente), bensì nel prendere di mira i cosiddetti “cervelli” dello Stato (come appunto Giugni, ed in seguito Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi) ossia l’anello di congiunzione tra le istituzioni e il mondo economico. Nel 1983 venne anche eletto senatore nelle liste del Partito Socialista Italiano: fu presidente della Commissione per il lavoro e la sicurezza sociale, e membro della Commissione parlamentare inquirente sulla Loggia Massonica P2. Al termine delle elezioni politiche del 1987 confermò sia il suo seggio a Palazzo Madama sia la presidenza della Commissione Lavoro. Nel 1992 fu candidato alla Presidenza della Repubblica per il PSI. La votazione a favore di Oscar Luigi Scalfaro fu accelerata dalla strage di Capaci. Dal 1993 al 1994 è presidente del PSI e nello stesso arco di tempo divenne Ministro del lavoro e della previdenza sociale del governo Ciampi. Con il Protocollo del luglio 1993 allo Statuto dei Lavoratori, ha scritto assieme a Ciampi un importante aggiornamento della normativa sulle relazioni sindacali. Durante il governo Ciampi venne emanata la legge delega che avrebbe portato alla trasformazione delle casse di previdenza dei liberi professionisti con il D.Lgs. 509/1994. Dopo l’inchiesta Mani Pulite ed il consequenziale disfacimento del PSI aderisce ai Socialisti Italiani di Enrico Boselli, ed alle elezioni politiche italiane del 1994 viene eletto deputato tra le file dei Progressisti. Negli ultimi anni si allontanò dalla politica preferendo l’insegnamento, anche a causa della malattia: già professore ordinario della facoltà di Economia dell’università “La Sapienza” di Roma, si trasferì poi presso la facoltà di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli (chiamato dall’allora Presidente della LUISS e di Confindustria Luigi Abete). Giugni muore ad 82 anni, la notte di domenica 4 ottobre 2009, a Roma, al termine di una lunga malattia. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LELIO BASSO

Lelio Basso nasce a Varazze, in provincia di Savona, il 25 dicembre 1903. Trascorre l’infanzia tra il paese natale e Ventimiglia. Il padre Ugo, insegnante di idee liberali, gli trasmette l’interesse per la politica che Basso segue, ancora bambino, nell’Italia giolittiana e nazionalista, tra l’avventura coloniale in Libia e lo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1916 si trasferisce a Milano con la famiglia. Qui frequenta il Liceo-ginnasio “Berchet” dove trova un ambiente ricco di stimoli intellettuali. Tra i suoi compagni, Mario Damiani e Vittorio Albasini, poi processati dal Tribunale speciale; Antonello Gerbi, nipote del leader socialista Claudio Treves; Luigi Gedda, futuro esponente politico cattolico. Il suo insegnante di storia è Ugo Guido Mondolfo, allora stretto collaboratore del leader socialista Filippo Turati , che lo introduce alla lettura di Marx. Si avvicina così alle idee socialiste ed entra in contrasto con il padre. Nel 1919, non ancora sedicenne, per garantirsi l’indipendenza economica trova impiego come stenodattilografo e poi come corrispondente presso un’azienda. Agli stimoli del nuovo ambiente scolastico si aggiungono quelli della città. A Milano Basso prende consapevolezza degli effetti traumatici del primo conflitto mondiale e scopre le lotte di massa, operaie e socialiste. Frequenta la Camera del lavoro e i circoli politici dove giunge l’eco della rivoluzione sovietica e dove ferve il dibattito. Gli studi universitari ( 1921-1925 ) Nel 1921 Basso si iscrive alla Facoltà di Legge di Pavia e prende la sua prima tessera socialista aderendo al gruppo studentesco del Partito. Su questa scelta di campo, maturata nel corso degli anni e fatta quando lo squadrismo fascista imperversa nel paese, tornerà poi in uno scritto autobiografico. Sono anni molto duri, Basso si divide tra lo studio, il lavoro e l’impegno politico. Un impegno che si traduce in primo luogo in una vivace attività pubblicistica: nel 1923 scrive i suoi primi articoli per la rivista socialista Critica sociale e negli anni successivi firma, con lo pseudonimo di Prometeo Filodemo, numerosi interventi sui giornali socialisti e di democrazia laica: l’Avanti!, Il Caffè, La Libertà, il Quarto Stato di Carlo Rosselli e Pietro Nenni. Con i suoi scritti Basso partecipa al dibattito interno al movimento socialista, attraversato allora da una profonda crisi di idee e di prospettive, ma guarda anche oltre, introducendo elementi di novità: l’attenzione al tema della democrazia, che lo porta a collaborare con La Rivoluzione liberale (nel 1924 entra nel Comitato direttivo) e a stringere amicizia con Piero Gobetti; la riflessione sulle tematiche religiose, che lo avvicina ai gruppi neoprotestanti e lo induce a collaborare tra il 1925 e il 1926 a Conscientia, la rivista diretta da Giuseppe Gangale. Dopo il delitto Matteotti, nel 1924, viene eletto presidente del Gruppo goliardico per la libertà di Milano e nel 1925 si laurea in Legge con una tesi su La concezione della libertà in Marx. Dopo la discussione della tesi, subisce un’aggressione fascista. Nello stesso anno supera gli esami da procuratore e inizia la professione di avvocato. La lotta antifascista ( 1926-1940 ) Alla fine del 1926 il regime fascista chiude definitivamente ogni spazio di intervento alle opposizioni e assume le caratteristiche di un regime totalitario. Lelio Basso partecipa alla lotta antifascista e nel 1927 entra nella Giovane Italia, un’organizzazione clandestina di ispirazione repubblicana. All’inizio dell’anno successivo assume la direzione della rivista Pietre – nata in ambienti studenteschi come strumento di collegamento tra gruppi antifascisti di diverse città – e nella notte tra il 12 e il 13 aprile viene arrestato con tutta la redazione a seguito dell’attentato al re alla Fiera di Milano. L’accusa di complicità nell’attentato cade nel corso dell’istruttoria, ma gli vengono comunque inflitti cinque anni di confino (poi ridotti a tre) all’isola di Ponza. In regime di segregazione, Basso si getta nello studio: prepara una seconda laurea in Filosofia (che conseguirà nel 1931 con una tesi sul teologo Rudolf Otto) e legge “circa duemila volumi di letteratura, di storia, di politica, di filosofia, di religione, di economia”. Tornato a Milano nell’aprile 1931 riprende l’attività professionale ma si rifiuta di iscriversi al partito fascista e al sindacato fascista avvocati e procuratori; viene così messo sotto stretta sorveglianza dalla polizia di Mussolini. Ciò nonostante si dedica alla ricostruzione delle file socialiste, con l’aiuto degli ex compagni di confino, e nel 1934 partecipa alla costituzione del Centro interno, l’organizzazione clandestina dei socialisti. Il suo è un contributo anche teorico, in cui propone una nuova idea di partito tesa a superare sia la vecchia esperienza socialista, sia quella comunista. Il Partito socialista immaginato da Basso si rivolge alle nuove generazioni “assetate di concretezza” e punta a una stretta collaborazione con il movimento di Giustizia e Libertà, da pochi anni fondato a Parigi. Intanto, nel 1932 aveva sposato Lisli Carini, anche lei laureata in legge, con cui inizia un’intensa condivisione di interessi che dura per tutta la vita; dal matrimonio nascono Piero, Anna e Carlo. Nel 1938, dopo l’arresto dei principali esponenti socialisti (Morandi, Luzzatto e Colorni) guida con Eugenio Curiel il Centro interno. Nell’estate del 1939 viene nuovamente arrestato, rilasciato e ancora rinchiuso, nel 1940, nel campo di concentramento di Colfiorito (Perugia) e poi trasferito al confino sull’Appennino marchigiano, a Piobbico. La guerra ( 1940-1945 ) L’Italia entra in guerra nel giugno 1940 e gli avvenimenti si susseguono incalzanti e drammatici. Tra il 1941 e il 1942 Basso riprende i collegamenti con i gruppi socialisti clandestini in un contesto difficile: mancano punti di riferimento organizzativi, la repressione fascista si intensifica. Basso vuole costituire un partito socialista nuovo: classista e unitario, rivoluzionario e intransigente. Nel gennaio 1943 fonda a Milano, con altri esponenti antifascisti, il Movimento di unità proletaria, che agisce in collegamento con il gruppo romano di Unità proletaria. Partecipa alle prime riunioni del Comitato delle opposizioni di Milano e, a seguito di un incontro a Roma con i dirigenti del ricostituito Psi, concerta un accordo di fusione che viene ratificato tra il 23 e il 25 agosto 1943. Viene eletto nella direzione del nuovo partito, che assume il nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup), ma …