GIACOMO BRODOLINI

Giacomo Brodolini nacque a Recanati il 19 luglio 1920. da Armando e da Doretta Federici. Conseguita nel 1939 la licenza liceale a Bologna, nel 1940 fu chiamato alle armi e, come ufficiale di complemento, partecipò alle campagne di Grecia e di Albania. Rimpatriato, fu inviato in Sardegna ove rimase fino all’8 sett. 1943. In Sardegna stabilì i primi contatti con Emilio Lussu ed altri esponenti dei Partito d’azione. Nel giugno 1946 si laureò in lettere presso l’università di Bologna, con una tesi sull’attore e patriota Gustavo Modena. Militante dei Partito d’azione, ne divenne noto dirigente nelle Marche. Allo scioglimento del partito, aderì -con Lussu, Riccardo Lombardi e gran parte dei militanti azionisti – al Partito socialista italiano nel quale lavorò come funzionario, specializzandosi nelle tematiche sindacali. Divenne segretario provinciale del PSI di Ancona e membro del comitato centrale dal 1948. Alla fine del 1950 fu chiamato a Roma, dietro suggerimento di Rodolfo Morandi a dirigere la Federazione dei lavoratori edili (FILLEA) della Confederazione generale italiana del lavoro. Nel comitato direttivo della CGIL dal 1951 e nell’esecutivo dal 1952, rimase segretario generale della FILLEA fino al 1955 (come parlamentare svolse diversi interventi in questi anni sulla questione delle abitazioni), allorché venne nominato vicesegretario della CGIL (con Di Vittorio segretario generale e F. Santi segretario aggiunto), restando nel vertice confederale fino al 1960. Nel 1953 era stato eletto per la prima volta alla Camera dei deputati nella circoscrizione di Ancona-Pesaro-Macerata-Ascoli Piceno (avrebbe ricoperto il seggio per tre legislature, fino al 1968, anno in cui fu eletto al Senato). Brodolini venne quindi a trovarsi sin dalla fine degli anni Quaranta al centro del dibattito politico su movimento sindacale, riforme e democrazia, che impegnò i militanti e i dirigenti della CGIL (soprattutto a partire dal Piano dei lavoro), apportandovi un contributo specifico che egli derivava in gran parte dalla tradizione azionista – particolarmente priva di valenze ideologiche e attenta alle complessive questioni della democrazia e dello sviluppo economico – e dall’elaborazione di Lombardi e, soprattutto, di Morandi. Nella sua concezione, che egli avrebbe arricchito nel corso di uno scontro sociale destinato a modificare fortemente la società italiana (e che lo vide dirigente di rilievo), il movimento dei lavoratori avrebbe assunto un ruolo decisivo nella trasformazione delle strutture produttive e nell’assetto democratico della nazione, a condizione di riconquistare la propria unità (anche attraverso lo sviluppo della democrazia nel rapporto del sindacato con i lavoratori) e di farsi carico – pur senza rinunciare alla propria autonomia e senza porsi in modo subalterno ai modelli di produzione progettati e attuati dal capitale – di una complessiva strategia di sviluppo (a ciò era legato sostanzialmente l’interesse dei B. per la programmazione ed il centrosinistra). D’altronde, senza un forte movimento dei lavoratori, sosteneva il B., non vi sarebbe stata possibilità di attuare un serio programma di riforme. Tutta l’attività dei B. – sindacalista, dirigente socialista e ministro – è interpretabile come serie di articolazioni tattiche di questa linea. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la CGIL subiva la sconfitta e l’emarginazione, l’attenzione dei B. fu rivolta a contenere lo scontro con le altre organizzazioni sindacali e, anzi, egli si fece banditore dell’unità d’azione; nel contempo caldeggiò “una politica di lotta e di contrattazione anche aziendale che rivendic[asse] il diritto di negoziare tutte le condizioni della prestazione lavorativa” (1950, in Forbice, p. XXIX). Come vicesegretario della CGIL, assertore dell’unità e dell’autonornia sindacale, sul finire degli anni Cinquanta fu tra i protagonisti di questo mutamento anche di immagine che la Confederazione subì con la sempre più marcata crisi del collateralismo politico (fu lui, ad esempio, a redigere il documento – approvato anche da Di Vittorio e pubblicato il 27 ott. 1956 – con il quale la segreteria della CGIL, differenziando la sua posizione da quella del partito comunista, criticava, fin dai primi giorni della rivolta di Budapest, l’intervento militare sovietico in Ungheria). Tornato all’attività di partito nel 1960 (sulle posizioni della corrente autonomista guidata da Francesco De Martino), divenne membro della direzione dei PSI nel marzo 1961 e guidò la sezione centrale di massa, dedicandosi soprattutto al rafforzamento della corrente sindacale socialista. Particolarmente attento alle possibilità che si offrivano con l’apertura a sinistra della Democrazia cristiana ed il varo del centrosinistra, e sostenitore attivo dell’esperimento, dal dicembre 1963 al 1966 ricoprì la carica di vicesegretario del partito, incarico confermatogli anche dopo l’unificazione PSI-PSDI, fino al 1968, allorché, il 12 dicembre, fu nominato ministro per il Lavoro e la Previdenza Sociale nel secondo governo Rumor (che restò in carica fino al 5 ag. 1969), aprendo così la sua ultima e più intensa stagione politica. Dal 1965, comunque, pur confermando la validità della nuova coalizione governativa e sostenendo la polemica con la minoranza lombardiana e con il Partito socialista italiano di unità proletaria, Brodolini aveva espresso giudizi sempre più critici sui ritardi del centrosinistra nel portare avanti quel rinnovamento della società e dello Stato per il quale era nato, fino a motivare egli stesso i voti socialisti di astensione del 1968. La breve ma intensissima stagione dei dicastero del B. si caratterizzò innanzitutto per la funzione inedita che il ministero assunse proprio all’apertura di un’eccezionale stagione di lotte operaie. Brodolini rifiutò infatti di svolgere il semplice ruolo, tradizionale del ministero dei Lavoro, di mediatore tra contrapposti interessi, impegnandosi invece nella promozione di una legislazione favorevole ai sindacati ed al movimento dei lavoratori, oltre che nella felice soluzione di varie vertenze. Tra le iniziative che il ministro B. promosse, vanno ricordati i provvedimenti riformatori del collocamento (soprattutto bracciantile) che abolivano il sistema del caporalato nel mercato in piazza della manodopera e la prima organica riforma previdenziale (che prevedeva per la prima volta la “pensione sociale” per gli anziani che non avessero versato contributi), la messa in canti, ere della soluzione del problema mutualistico; svolse inoltre un ruolo fondamentale nella vertenza per la parificazione del sistema retributivo contrattuale su tutto il territorio nazionale e per l’avvio di una legislazione che ridefinisse, ampliandoli, il ruolo e la rappresentatività delle organizzazioni sindacali. La vertenza contro …

FRANCESCO DE MARTINO

“Il Socialismo non deve mai dimenticarsi della sua origine, del suo compito di difendere sempre i più deboli”. In queste parole, pronunciate quando già era anziano sta la “summa” del pensiero politico di Francesco De Martino, padre nobile della Repubblica italiana e figura storica del Socialismo, della sinistra e del movimento operaio. Francesco De Martino nasce a Napoli nel 1907 e, laureatosi in giurisprudenza fa il tirocinio da avvocato nello studio di Enrico De Nicola, già Presidente della Camera ed esponente di spicco dell’Italia liberale. Nello studio di DE NICOLA, De Martino lavora fianco a fianco con Giovanni Leone, altra futura personalità della Repubblica Italiana. Le strade dei due si incontreranno di nuovo nel 1972, in occasione dell’elezione del nuovo Capo dello Stato: Leone, votato dal centrodestra con l’appoggio determinante del Movimento Sociale di Giorgio Almirante è eletto al Quirinale, mentre De Martino raccoglie i voti di tutta la sinistra comunista e socialista. Antifascista storico, De Martino partecipa alle proteste contro il regime e, come molti fra i giovani democratici dell’epoca, chiede una linea meno isolazionista rispetto all’Aventino. Negli anni della dittatura si dedica agli studi universitari con un saggio sulla libertà nel diritto romano. Suona come una dura critica, quest’inno ai diritti dell’individuo, alla dittatura fascista e, soprattutto al nazismo appena arrivato al potere in Germania. Vince la cattedra di diritto romano all’Università di Napoli e inizia la carriera d’insegnamento, un’esperienza che durerà per quarant’anni facendone uno dei massimi esperti di storia del diritto romano. Nozioni e conoscenze che non lo abbandoneranno mai nemmeno nella sua attività di politico che inizia subito dopo la Liberazione. La sua militanza politica attiva inizia nel Partito d’Azione e si basa sul tentativo di coniugare libertà, democrazia e giustizia sociale. Frutto dello studio e dell’impegno, il progetto di cui De Martino si fa portavoce si basa sulla speranza di unire tutta la sinistra, dalle componenti liberaldemocratiche ai comunisti ai quali, pur condividendone l’attività politica e sindacale in materia economica e di allargamento della partecipazione politica nazionale, non risparmi critiche per gli errori e le violenze perpetuate da Stalin in Unione Sovietica. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, mentre Ugo La Malfa e Ferruccio Parri confluiscono nel Partito Repubblicano Italiano, il professore napoletano aderisce al Partito Socialista Italiano, dove ritrova molti ex azionisti suoi antichi compagni di partito come Emilio Lussu e Riccardo Lombardi. Non passa un anno che una nuova scissione divide la sinistra italiana. a Roma nel 1947 Giuseppe Saragat fonda il Partito Socialista Lavoratori Italiani (Psli), poi Partito Socialdemocratico (Psdi) che collabora al governo con i moderati della Dc, del Pri e del Pli. Saragat rompe il Psi in polemica con il gruppo dirigente guidato da Pietro Nenni, accusato di avere legami troppo stretti con il Pci di Togliatti. De Martino rimane nel Psi e il 18 aprile 1948 viene eletto deputato nelle liste del Fronte Democratico Popolare, la lista comune tra comunisti e socialisti presentatisi uniti sotto il simbolo della faccia di Garibaldi su richiesta di Nenni e duramente sconfitti dalla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi. Saragat, presentatosi con una lista comprendente socialdemocratici ed ex azionisti come Piero Calamandrei da nome Unità socialista, ottiene un buon 7 %, massimo storico mai raggiunto dal Psdi. La storia di De Martino segue quella di Nenni e del Psi. Stretto collaboratore del leader socialista ne è vicesegretario e ne condivide la svolta a favore della collaborazione con la Dc di Fanfanie Moro e il Pri di La Malfa ai tempi del centrosinistra degli ’60. Nel I governo Moro del 1963 Nenni è vicepresidente e De Martino lo sostituisce alla segreteria del Psi. Apertura ai comunisti, necessità di riunificare tutta la sinistra, collaborazione con la sinistra Dc e le parti avanzate del pensiero laico. Sono queste le tappe e le ambizioni del segretario De Martino. Gli anni della riunificazione socialista che vedono Psi e Psdi convivere sotto lo steso tetto per tre anni dal 1966 al 1969 lo vedono in prima linea come uno dei due cosegretari (l’altro è il socialdemocratico Tanassi) del Psu, il “partito della bicicletta” per via del simbolo che vedeva affiancati come le ruote di una bicicletta i due simboli dei due partiti socialisti italiani. Non solo politica attiva, ma anche tanta attività teorica e intellettuale. Il pensiero socialista, che De Martino vede come pungolo al Pci, ma indissolubile dalla collaborazione con i comunisti, mentre gli ex socialdemocratici intendono come terza via tra democristiani e socialisti, ma in netta concorrenza con questi ultimi, si manifesta su “Mondo Operaio”, rivista fortemente influenzata e orientata dallo stesso De Martino. Giuseppe Tamburrano, Federico Coen e Francesco Forte rappresentano solo alcuni degli intellettuali che scrivono sulla rivista che è la vera e propria vetrina dell’intelligenza socialista degli anni ’60. Il fallimento della riunificazione, la nuova scissione del 1969 e il ’68 influiscono duramente sul socialismo italiano. De Martino guida il Psi in questi difficili anni e nel 1968 è vicepresidente del Consiglio nei governo RUMOR. Lo rimane fino al 1972 quando, usciti i socialisti dal governo per la svolta di centrodestra rappresentata dal governo Andreotti-Malagodi (Dc-Pli, con l’appoggio esterno del Psdi). I socialisti tornano ben presto al governo con due governi Rumor e De Martino e ancora alla guida del Psi. Nel 1975, con la sua richiesta di “equilibri più avanzati” fa entrare in crisi il governo IV governo Moro, spianando la strada alle elezioni anticipate del 1976 vinte dal Pci che supera il 35% dei voti e non perse dalla Dc di Zac (Benigno Zaccagnini, di Ravenna, eletto alla segreteria nel 1975 dopo la defenestrazione di Fanfani sconfitto sul referendum sul divorzio nel 1974 e sconfitto alle regionali del 1975 che videro la grande avanzata dei comunisti di Berlinguer) che recupera dopo la disfatta dell’anno prima. Il Psi per la prima volta è sotto il 10%. Il 13 luglio 1976 a Roma al “congresso del Midas”, dentro il comitato centrale avviene la “rivolta dei quarantenni” che induce De Martino a dimettersi. Bettino Craxi prende la guida del partito defenestrando la vecchia …

FERNANDO SANTI

Fernando Santi nacque, il 13 novembre del 1902 alle porte di Parma, a Golese, un paese di braccianti stagionali, di carrettieri e di pochi ferrovieri. La propaganda socialista quando egli nacque vi aveva già da tempo fatto presa e suo padre, ferroviere e socialista, arrivò ad essere assessore. Sua madre, discendente da una famiglia di braccianti, morì quando Fernando, primo di tre figli, aveva solo quattro anni e fu a prezzo di duri sacrifici che il padre poté portarlo fino alla licenza tecnica. Nel 1917, a quindici anni, aderisce al partito socialista, iscrivendosi alla sezione degli “adulti” perché i giovani sono quasi tutti al fronte. Le esperienze fatte a Parma – egli stesso amava ripeterlo -a partire da allora sono tali da segnare profondamente e definitivamente la sua personalità morale e politica e da conferire tratti inconfondibili alla sua milizia socialista. La prima esperienza è la guerra. I giovani soldati hanno i nomi e i volti di amici e compagni e la causa per la quale erano stati mandati a combattere e a morire non era quella della libertà e della giustizia quale egli l’aveva concepita tra i braccianti e carrettieri di Golese. Il 1917 è l’anno di Caporetto, di un evento, cioè, dal quale trae nuova esca e nuova virulenza la polemica interventista e nazionalista contro i socialisti, accusati di antipatriottismo e di disfattismo. L’avversione alla guerra concepita allora lo accompagnerà per tutta la vita, dalla “grande guerra” alle guerre di Mussolini, alla guerra del Vietnam. Parma era negli anni dell’adolescenza di Santi – ed è questa la seconda esperienza – una roccaforte del sindacalismo rivoluzionario, un movimento che credeva nella virtù creatrice della violenza, che aveva calata la propria dottrina nella pratica promuovendo e guidando nel Parmense scioperi di una durata e di una asprezza mai prima toccate, che aveva fatto dell’agitazione contro il nazionalismo e il militarismo la sua bandiera, che si era convertito nella maggioranza dei suoi quadri all’interventismo, fiducioso, questa volta, nella virtù rivoluzionaria della guerra. Il giovane Santi non soltanto sfugge alle suggestioni dell’estremismo, ma dalla diretta conoscenza del fenomeno trae motivi per una vigile diffidenza nei confronti di ogni manifestazione dottrinale e pratica di estremismo e sarà anche questo uno dei tratti caratterizzanti della sua milizia politica e sindacale. La terza esperienza, che ha, questa volta, i segni del positivo è il rapporto ch’egli stabilisce con un gruppo di socialisti di confessione ortodossamente riformista, tra i quali Guido Albertelli, più volte deputato, Giovanni Faraboli, uno dei grandi pionieri del cooperativismo padano, il sindacalista Biagio Riguzzi. Il riformismo di Santi trova qui il suo primo alimento. È un riformismo che sceglie la via, inscindibile dalla democrazia, delle conquiste graduali per ragioni etiche e politiche, ma che tiene fermo il fine – “gradualismo rivoluzionario”, lo definirà egli stesso – che è quello della costruzione di una società socialista. Protagonista di quest’opera è il movimento dei lavoratori nel suo insieme senza guide carismatiche: l’autonomia delle istituzioni di classe e la loro unità sono le condizioni perché il potenziale liberatorio del movimento possa sprigionarsi in tutta la sua potenza creativa. A guerra finita Santi passa dalla sezione adulti a quella dei giovani, viene eletto segretario della Federazione Giovanile parmense e membro del Comitato centrale nazionale, dando allo sviluppo dell’organizzazione un fortissimo impulso. Diventa anche vicesegretario della Camera del Lavoro a fianco di Alberto Simonini, collabora attivamente all’organo locale dei socialisti, L’Idea. Il clima è quello delle aspre lotte sociali e politiche seguite ai lutti e alle miserie della guerra, arroventato e esaltato dal mito della rivoluzione russa. Santi condivide la convinzione che la crisi del sistema capitalistico sia ormai entrata in una fase di irreversibilità e che tocchi al proletariato ricostruire sulle macerie della guerra una società nuova. La sua convinzione, però, non è inquinata da dottrinarismo e ancor meno da fanatismo. Da dirigente sindacale, pur solidarizzando senza riserve con le lotte proletarie e contadine e pur concorrendo a organizzarle e dirigerle, resta immune dalla diffusa “scioperomania” di quegli anni e in sede politica, quando da Mosca arrivano le condizioni cui il partito socialista è tenuto ad adeguarsi per rimanere membro della Terza Internazionale, Santi è tra i pochi giovani che oppongono un fermo rifiuto. Al Congresso della Federazione Giovanile che si tiene a Firenze sul finire del gennaio del 1921, a qualche settimana di distanza dalla scissione già consumata a Livorno, la stragrande maggioranza della Federazione Giovanile Socialista aderisce al partito comunista. Santi con pochi altri in una riunione tenuta a Fiesole dà vita a un piccolo comitato per la ricostituzione della Federazione e ne viene nominato segretario. Nel giro di pochi mesi, a coronamento di un’attività febbrile che lo porta da una regione all’altra d’Italia, i seimila iscritti censiti a Fiesole sulla carta risultano pressoché triplicati. Un comizio tenuto presso Parma nella sua nuova veste, nel quale incitava le future reclute a non sparare sui fratelli e a far propaganda socialista tra i soldati gli valse un primo arresto e una blanda condanna a due mesi con la condizionale. La situazione generale del paese volge però ormai al peggio. La scissione di Livorno spiana la strada alla ripresa dell’offensiva fascista, particolarmente violenta nella valle padana. Anche a Parma le violenze fasciste si susseguono e si intensificano. Nella estate del 1922 Italo Balbo dà inizio alla sua “marcia di fuoco” che parte da Ravenna, dove viene data alle fiamme la sede delle cooperative di Nullo Baldini e prosegue lungo la via Emilia bruciando e devastando, fino ad arrivare a Parma dove nell’Oltretorrente, organizzati dagli “arditi del popolo”, diretti da Guido Picelli, neo-deputato socialista, che cadrà combattendo in terra di Spagna, i popolani innalzano le barricate, resistono con le armi alle squadre fasciste, impongono l’intervento dell’esercito a ristabilire la legalità. Santi partecipa all’azione: furono barricate, egli stesso diceva, erette non per la insurrezione ma a difesa della libertà in un estremo tentativo di stimolare il governo a impegnarsi contro lo squadrismo omicida dandogli la forza della iniziativa popolare. L’esempio di Parma resta però isolato. Il governo …

SALVATORE CARNEVALE

Pertini a Sciara dopo la morte di Salvatore Carnevale (maggio1955). Il 16 maggio 1955 la mafia di Sciara uccise a 31 anni Salvatore Carnevale, socialista, dirigente della Camera del lavoro in quel paesino del Palermitano. A giudicare dalle cronache i funerali, che si svolsero il 17, non ebbero la solennità che l’evento meritava. Non c’era “tutta Sciara”, come con una certa enfasi scrisse l’ “Avanti!”, e l’assente non era solo il sindaco democristiano; tuttavia il corteo era affollato e fitto, i braccianti e i cavatori di pietra in gran numero, in prima fila i compagni socialisti e comunisti. Eppure la feroce intimidazione sembrava aver funzionato. I mafiosi non si erano limitati all’omicidio, avevano saccheggiato le stie dei contadini prelevando lo scarso pollame e avevano banchettato una notte intera, spargendo le piume per le vie del paese. Tra i più il dolore che accascia e la paura sembravano prevalere sulla volontà di riscossa. Solo la madre della vittima, Francesca Serio, sembrò avere una reazione di orgogliosa sfida nei confronti delle forze del male. Depose con le proprie mani sulla cassa la bandiera rossa e gridò: “Per questa bandiera mio figlio è morto, con questa bandiera deve andarsene”. L’atteggiamento comune a gran parte della stampa era minimizzare. I giornali nazionalmente e localmente più diffusi si definivano “indipendenti” e “di informazione”, ma era più esatto chiamarli “padronali” e “governativi” come facevano i socialcomunisti. “Il Messaggero” aveva dato la notizia del ritrovamento del cadavere appaiandola a quella di un delitto comune. “Il Tempo” aveva scritto: “Quantunque le organizzazioni di sinistra insistano nel ritenere l’uccisione del Carnevale un delitto politico, la Polizia è del parere che allo stato degli atti ogni ipotesi è azzardata”. Il “Giornale d’Italia”, al tempo molto diffuso, arrivava addirittura ad escludere categoricamente il movente politico. Il “Corriere della Sera” espressione della borghesia settentrionale ostentava un totale distacco, pubblicando due colonnine in settima pagina con la notizia dell’omicidio nuda e cruda . La stampa isolana aveva fatto di peggio. Il “Giornale di Sicilia”, l’unico ad ampia diffusione nel Palermitano, insisteva sulla catena di delitti avvenuti nella zona, in cui l’uccisione di Carnevale veniva quasi annegata. La “Sicilia del popolo”, espressione della Dc isolana guidata da Scelba, al tempo capo del governo italiano, e Restivo, presidente della Giunta regionale, con un corsivo affidato a un “Signor Q”, parlava di strumentalizzazione: “I socialcomunisti cercavano da tempo un cadavere per farne una vittima. La loro attesa non è andata delusa…”; difendeva come “innocenti” e “galantuomini” i mafiosi locali e piazzava alcune oblique allusioni per sporcare l’immagine di Carnevale e dei suoi compagni. Dopo il funerale, il 18 maggio, la segreteria regionale del Psi, guidata da Raniero Panzieri, organizzò la risposta di massa, resa più difficile dallo svolgimento dei comizi per le imminenti elezioni regionali. Psi e Pci, uniti nel movimento di massa, erano infatti in competizione nella campagna elettorale. Esaurito il tempo del frontismo, tutti i socialisti si ponevano il problema di una svolta a sinistra che prevedesse la loro partecipazione al governo. Dal 1953 fu tempo di incontri e di dialoghi. Morandi a Torino si incontrò con Gonella per discutere un possibile incontro tra socialisti e cattolici in nome delle comuni radici popolari, Nenni si incontrò con Saragat a Pralognan muovendo i primi passi per una possibile unificazione del mondo socialista. Alle elezioni regionali i socialisti andarono con il proprio simbolo e in alleanza con il piccolo movimento di Unità popolare di Parri, dopo aver rifiutato una lista unitaria con il Pci, chiedendo l’apertura a sinistra. In queste condizioni l’aiuto del Pci per una iniziativa di massa non sarebbe mancato, ma non sarebbe stato generoso come in altre circostanze. Panzieri convocò comunque una manifestazione a Sciara per lunedì 23 maggio. Per lo stesso giorno il partito socialista sospese i comizi in tutta la Sicilia, mentre nelle sezioni si sarebbero svolte assemblee. La parola d’ordine dichiarata aveva lo stile un po’ greve di quegli anni: “Nel nome del compagno Salvatore Carnevale, rafforziamo il Partito Socialista e creiamo le condizioni per sconfiggere la reazione agraria e feudale e permettere l’apertura a sinistra”. Vennero assunte anche misure organizzative: fu inviato a Sciara stabilmente un dirigente prestigioso come Gaspare Gambino e si prevedeva che altri lo seguissero a Caccamo e in tutta la zona infestata dalla mafia del feudo. Venerdì 20 dalla Direzione Nazionale arrivò a Palermo Sandro Pertini, deputato ed eroe dell’antifascismo, che l’indomani avrebbe accompagnato Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, in tribunale. La donna, convinta dell’incapacità dell’autorità inquirente locale di rompere l’omertà che circondava il delitto, aveva deciso di rivolgersi con un esposto alla Procura generale della Corte d’Appello. La denuncia, spiegò Pertini all’ “Avanti!”, non era solo un circostanziato memoriale che evidenziava il carattere politico mafioso dell’omicidio, ma anche un atto di coraggio e fiducia, un invito a tutti quelli che sapevano qualcosa ad uscire dalla rete del silenzio. Subito dopo, nello stesso giorno di sabato 21, Pertini era in giro nei paesi del palermitano a comiziare per la campagna elettorale, la sera fu già a Sciara a parlare con i compagni, a consolare, confortare e incoraggiare. Vi sarebbe rimasto fino alla sera di lunedì 23, il grande giorno della manifestazione. I resoconti della manifestazione sono unanimi: nel contesto dato la partecipazione fu davvero grande, duemila compagni, forse di più. Erano arrivati dai paesi vicini, Rocca, Partinico, San Giuseppe Jato, San Cipirrello, Cerda, Aliminusa, Piana dei Greci, Corleone, tutte località ove la pressione mafiosa era fortissima. Vi erano delegazioni anche dai centri maggiori della provincia, Termini, Bagheria, la stessa Palermo. Ad organizzare la partecipazione erano state soprattutto le Sezioni socialiste e le Camere del lavoro e la partecipazione più cospicua era dei muratori (Carnevale lavorava alla cava di pietra ed era dirigente della Filea, il sindacato degli edili). C’erano anche molti comunisti con le loro bandiere, intervenuti da ogni parte della provincia. Alle 17 un lunghissimo corteo si mosse verso Cozzi Sicchi, la contrada dell’assassinio, ove si trovava anche la pietraia ove lavorava Turiddu. Lo guidava Pertini, affiancato da Panzieri, per strade …

PLACIDO RIZZOTTO

La sera del 10 marzo 1948 Placido Rizzotto, partigiano e sindacalista socialista, 34 anni, fu sequestrato da un gruppo di persone guidato dal giovane mafioso Luciano Leggio detto Liggio. Lo circondarono in strada a Corleone, lo caricarono sulla 1100 di Liggio, lo portarono in una fattoria di Contrada Malvello, lo picchiarono a sangue e gli fracassarono il cranio. Poi buttarono il suo corpo in una foiba di Rocca Busambra. Presi dalla furia del pestaggio, non si erano accorti che all’assassinio aveva assistito un piccolo pastore, Giuseppe Letizia, 12 anni. Che tornò a casa sconvolto dalla scena. Il padre scambiò i suoi vani tentativi di raccontare quello che aveva visto per un delirio febbrile e lo portò il 13 marzo all’ambulatorio del dottor Michele Navarra, che dichiarò che il ragazzino non aveva nulla, ma capì molto bene il suo racconto: Navarra era il padrino di Corleone e Liggio era affiliato alla sua cosca. Gli fece, “per sbaglio”, un’iniezione d’aria. Letale, stando al rapporto del dottor Ignazio Dall’Aira, che ne constatò la morte il giorno dopo, per “tossicosi”. Chi indagò sul delitto Rizzotto non potè però contare sulla testimonianza di Dall’Aira, che improvvisamente partì per l’Australia e non tornò più in Italia. Chi indagò sul delitto era il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e non fu l’unica biografia o vicenda storica importante a incrociare l’assassinio di Placido Rizzotto. Dalla Chiesa fu ucciso in un attentato a Palermo nel 1982, perché voleva fare con Cosa Nostra quello che gli era riuscito con le Brigate Rosse. Il posto di Placido Rizzotto alla guida della Camera del Lavoro di Corleone fu preso dal comunista Pio La Torre, anch’egli ucciso dalla mafia nel 1982. Mentre il giovane Luciano Liggio fece una grande “carriera” nella mafia: fece uccidere Navarra, diventando il capo del clan dei corleonesi. Poi, insieme ai “compari” Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano e Totò Riina, si “prese” Cosa Nostra. Ma riavvolgiamo il nastro degli avvenimenti al 1914, anno di nascita di Placido Rizzotto. Il piccolo Placido da subito non ebbe vita facile, perché, nato povero, a sette anni rimase orfano di madre e a otto gli toccò assistere alla scena del padre portato via dai carabinieri, ingiustamente accusato di associazione a delinquere. Con queste premesse il fronte della seconda guerra mondiale dovette sembrargli contesto non così terribile. Infatti in guerra si distinse, arrivando sui monti della Carnia come caporale e diventando prima caporal maggiore e poi sergente. Dopo l’armistizio, Rizzotto passò con i partigiani, unendosi alle Brigate Garibaldi come socialista. La sua resistenza continuò anche quando tornò in Sicilia, dove venne eletto presidente dell’associazione combattenti e reduci, l’Anpi di Palermo e della Camera del lavoro di Corleone. In quegli anni, dal 1944 al 1950, furono tanti i sindacalisti, i militanti dei partiti di sinistra e i contadini uccisi per mano mafiosa e mandante spesso ignoto. Assassinati per la terra. Tutto era iniziato il 19 ottobre 1944, quando il ministro dell’Agricoltura del governo Badoglio, il comunista Pietro Gullo, firmò un decreto in cui si stabiliva che le terre incolte o mal coltivate dagli agrari, dai latifondisti, venissero assegnate alle cooperative di contadini. Una legge valida nel resto d’Italia, un po’ meno in Sicilia. Quello stesso giorno a Palermo, mentre il decreto Gullo entrava in vigore, un plotone del 139° Reggimento fanteria della Divisione “Sabaudia” sparò sulla folla che protestava per la mancanza di pane: 24 morti e ben 158 feriti, tra cui donne e bambini. In Sicilia i contadini si trovarono fra due fuochi: da una parte la nobiltà e il baronato latifondista, che avevano nella mafia il custode dello status quo, ovvero delle loro proprietà. Dall’altra polizia e carabinieri. Cosa succedeva? Che i mafiosi si opponevano con violenza all’applicazione della legge Gullo. E quando i contadini riuscivano comunque a occupare un pezzo di terra, arrivavano le forze dell’ordine ad arrestarli per “invasione di terre”, perché per essere assegnate dovevano essere dichiarate ufficialmente “incolte”. Contadini, sindacalisti e militanti erano fra il martello della lupara e l’incudine delle manette. Ha scritto Marcello Sorgi su La Stampa: Mentre il movente “politico” o “mafioso” degli assassinii dei contadini difficilmente veniva riconosciuto, la natura “politica” di sovvertimento dell’ordine pubblico delle occupazioni era utilizzata per prolungare la carcerazione preventiva degli arrestati: aggravando, con l’assenza dei capifamiglia, la condizione dei loro parenti. Così, quando non erano le lupare a tuonare (vedi la strage di Portella della Ginestra), la battaglia simbolica per l’occupazione delle terre generava presto interminabili contese giudiziarie, con giovani e squattrinati avvocati di sinistra impegnati a difendere i contadini nelle aule di giustizia, dove gli agrari avevano al loro fianco gli avvocatoni monarchici, liberali e democristiani, membri a tutti gli effetti del potere dominante. Ho memoria personale e familiare di quelle vicende perché mio padre Nino Sorgi, penalista, in quel fatale ’48 in cui le vittime della lotta per la terra cominciavano a moltiplicarsi a decine, a soli 26 anni con i colleghi Antonino Varvaro e Francesco Taormina fondò il “comitato di solidarietà”, che doveva assistere gli arrestati per le occupazioni e rappresentare le parti civili, cioè l’accusa, contro i mafiosi accusati di omicidio e per conto delle famiglie degli ammazzati. Corleone nell’immediato dopoguerra era un grosso borgo agricolo in cui la mafia la faceva da sempre da padrona. La vita di uno come Placido Rizzotto era combattere ogni giorno contro la violenza e le minacce. All’alba, insieme a quei pochi compaesani che avevano resistito alle intimidazioni, andava a dorso di mulo sulle alture circostanti e piantava una bandiera rossa, in modo che dalla piazza principale del paese si vedesse che anche quel giorno sindacalisti e contadini avevano conquistato un altro pezzo di terra. Fra la strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) e le elezioni del 18 aprile 1948, la strategia della tensione su scala sicula fa sì che molti, spaventati dalla catena di morti ammazzati, inizino ad abbandonare la lotta per le terre. Il “Lavoro”, settimanale della Cgil: prima pagina del 7 aprile 1948 Molti, ma non Placido Rizzotto. Che faceva valere anche fisicamente …

PINO CAMILLERI

Pino Camilleri (Naro, 20 giugno 1918 – Naro, 28 giugno 1946) è stato un politico italiano, sindaco socialista di Naro (AG) ucciso dalla mafia. Il 28 giugno 1946, a soli 27 anni, già riconosciuto come capo contadino in una vasta zona a cavallo tra le province di Caltanissetta e Agrigento, fu colpito dalla lupara mentre cavalcava da Riesi (CL) verso il feudo Deliella, aspramente conteso tra gabelloti e contadini. Anche a Naro, nel periodo immediatamente successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, furono frequenti le contese tra gabellotti e contadini. Spesso tali scontri coinvolgevano interi nuclei familiari, innescando inevitabilmente assurde faide che potevano durare anche decenni. Molti innocenti divennero bersaglio di vendette trasversali. E’ in questo contesto che bisogna inserire la breve e tragica storia di Pino Camilleri. Esponente del partito socialista, Camilleri era nato il 20 giugno del 1918. Giovane universitario, ormai prossimo alla laurea in giurisprudenza, aveva abbracciato la causa di quel movimento sindacale e politico che a Naro aveva mosso i primi passi con i movimenti dei fasci siciliani e le numerose cooperative e casse rurali. Era sorta una rete di solidarismo sociale che improvvisamente si eclissò negli anni del fascismo, per riapparire con la ripresa della vita democratica. Pino Camilleri si distinse per la salda preparazione e per le sue coraggiose battaglie. Il suo partito lo portò a conquistare la poltrona di sindaco nelle prime elezioni amministrative del dopoguerra. Il 25 agosto del 1945 su richiesta del Comitato di liberazione di Naro ebbe trasformato l’incarico di sindaco in quello di commissario prefettizio. Era divenuto cioè un vero “Capo popolo” e molto probabilmente sarebbe stato candidato alle elezioni politiche per l’Assemblea Costituente. In questo frangente però accadde anche che suo fratello Calogero aveva ottenuto in affitto un feudo a Naro. Alla sua porta bussarono alcuni braccianti, mandati direttamente da una famiglia mafiosa, con l’intento di essere assunti nel feudo. Calogero Camilleri respinse quelle imposizioni e le minacce che ne erano seguite. Entrò, inevitabilmente, in contrasto con la mafia locale. Anche il sindaco divenne un bersaglio. Il 28 giugno 1946 Pino Camilleri venne trovato assassinato con alcuni colpi di lupara. Gli tesero un agguato mentre si recava a cavallo da Riesi al feudo di Deliella (che era oggetto di un’aspra contesa tra contadini e gabellotti). Le indagini seguirono sia la pista della vendetta trasversale, che quella del delitto politico. In entrambi i casi comunque era certo che i mandanti fossero stati i capi mafia delle cosche locali. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LORENZO PANEPINTO

Non si può dire che fu la giustizia a trionfare quel 7 aprile 1914, nell’aula del Tribunale di Catania dove si era riunita la Corte d’Assise. Infatti, dopo un dibattimento durato appena 11 giorni, venne letta una sentenza, che lasciò con l’amaro in bocca i contadini di S. Stefano Quisquina. «Avendo i giurati dato risposta negativa alle domande se l’imputato abbia ucciso Lorenzo Panepinto ed abbia tentato di uccidere Antonio Picone e Ignazio Reina – disse il presidente, cavalier Sgroi – l’imputato Giuseppe Anzalone deve essere dichiarato assolto per non aver commesso i fatti a lui attribuiti e pertanto si ordina la di lui scarcerazione». Una sentenza “scandalosa”, che lasciò impunito l’assassinio di uno dei più amati dirigenti socialisti del movimento contadino isolano. Ma, per certi versi, una sentenza obbligata. Il vero scandalo, infatti, era accaduto qualche ora prima, quando la parte civile si era ritirata ina-spettatamente dal processo. A darne comunicazione era stato l’avv. Luigi Macchi. «Poiché non esclusa la possibilità di un equivoco di identificazione, per mandato delle nostre costituenti, ci ritiriamo dalla causa», disse il legale, che era un noto esponente del socialismo catanese. Con lui, si erano ritirati anche gli altri avvocati di parte civile, Gaspare Nicotri e Francesco Alessi, componenti della direzione regionale del Partito Socialista. Incredibilmente, la motivazione del ritiro stava tutta in quella «possibilità di equivoco di identificazione», esclusa con fermezza dalla teste Provvidenza Rumore, che aveva visto in faccia l’assassino e che, coraggiosamente, confermò la circostanza davanti alla Corte. Tra l’altro, nemmeno gli avvocati difensori erano riusciti a smontarne la testimonianza con circostanze oggettive. Essi, infatti, poterono solamente fare delle insinuazioni sulla sua condotta morale, che lo stesso codice di procedura penale di allora vietava. Le udienze processuali si erano aperte il 28 marzo 1914, con la lettura dei capi d’accusa contro Giuseppe Anzalone, 26 anni, originario di Lercara Friddi, campiere dell’ex feudo “Melia” di cui erano gabelloti i fratelli Petta. Grazie alla testimonianza della Rumore e di tanti contadini stefanesi, tutto lasciava presagire che si potesse arrivare almeno alla condanna di uno degli esecutori materiali del delitto. Allora perché quella scelta di ritirarsi, avallata dalla moglie e dei figli del Panepinto? È lecito pensare che intervennero fatti nuovi. Probabilmente, pressioni e minacce talmente forti, da indurre i familiari della vittima e i loro avvocati a ritirarsi. Il processo, infatti, si era svolto a Catania per legittima suspicione chiesta dagli avvocati di parte civile per ben due volte. E fu concessa con la motivazione che l’Anzalone era “figlioccio” del Ministro di Grazia e Giustizia on. Camillo Finocchiaro Aprile, anche lui di Lercara Friddi. Ma dietro il killer dovevano esserci i mandanti. Alcuni di essi erano stati individuati e denunciati dalla polizia e dai carabinieri di S. Stefano Quisquina, tanto che il 2 giugno 1911 il prefetto di Agrigento aveva scritto al Ministero degli interni, comunicandone i nomi: Rosario Ferlita, Domenico Ferlita, Giuseppe Ferlita, Ignazio Scolaro e Giovanni Battista Scolaro, tutti grossi gabelloti degli ex feudi di S. Stefano Quisquina. Ma, tre anni dopo, il processo venne istruito solo a carico dell’Anzalone, perché tutti gli individui denunciati come mandanti furono prosciolti in sede istruttoria. Il delitto Panepinto rimase, dunque, senza colpevoli. Il coraggioso maestro elementare di questo paese dell’agrigentino, uno dei più noti dirigenti contadini fin dal tempo dei Fasci, era stato assassinato la sera del 16 maggio 1911, con due colpi di fucile al petto. Gli spararono davanti la porta della sua abitazione, in via Madre Chiesa n. 21, vicina alla centralissima piazza principale, a quell’ora frequentata da molta gente, mentre stava conversando con le signorine Cannella. Era accompagnato da due amici il cav. Picone e il signor Ignazio Reina che rimasero feriti nell’agguato. Panepinto lasciò la moglie Maria Sala e tre piccoli figli nella più completa povertà. a cura di Dino Paternostro – La Sicilia LA SCHEDA (d.p.) Lorenzo Panepinto nacque a S. Stefano Quisquina il 4 gennaio 1865, da Federico ed Angela Susinno. Fu maestro elementare e si dilettò pure di pittura. La sua vera passione era, però, la politica, che cominciò a praticare dal 1889, quando fu eletto consigliere comunale nel gruppo dei democratici mazziniani, che mise in minoranza il gruppo dei liberali-moderati fino ad allora al potere. La vecchia maggioranza reagì rabbiosamente, riuscendo a far sciogliere il consiglio comunale ed insediando il regio commissario Roncourt, la cui condotta partigiana non riuscì ad impedire una seconda sconfitta dei conservatori nelle elezioni dell’agosto 1890. IIgoverno del marchese Di Rudinì commissariò nuovamente il comune e Panepinto si dimise per protesta, dedicandosi all’insegnamento e alla pittura. Poi si sposò e partì per Napoli, ma al ritorno, nel 1893, la Sicilia era in subbuglio per il movimento dei Fasci. Fondò, quindi, il Fascio di S. Stefano, che pochi mesi dopo venne sciolto dal governo Crispi, come tutti gli altri Fasci dell’isola. Per rappresaglia politica fu licenziato dal comune dal posto di maestro elementare, ma non si scoraggiò e continuò i suoi studi pedagogici e di metologia didattica, pubblicando due interessanti volumi nel 1897. Nei primi del ‘900, alla ripresa degli scioperi agricoli, Panepinto fu di nuovo in prima linea, al fianco di dirigenti socialisti come il corleonese Bernardino Verro e il prizzese Nicola Alongi, insieme ai quali avrebbe messo a punto un cambiamento di strategia politica, puntando a dare ai contadini gli strumenti delle cooperative agricole e delle Casse Agrarie, per emarginare i gabelloti dei feudi. Tra il 1907 e il 1908 fu in America, ma ritornò nuovamente al suo paese. A circa 10 anni dalla morte di Panepinto, nell’ottobre 1920, i socialisti di S. Stefano riuscirono a conquistare il municipio, eleggendo sindaco il mitico Peppe Cammarata, suo amico e collaboratore, che ne continuò la battaglia. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. 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CARMELO BATTAGLIA

Dal dopoguerra a metà degli Anni ‘60 fu una vera e propria «mattanza» di dirigenti del movimento contadino. Uno degli ultimi omicidi fu quello dell’assessore socialista Carmelo Battaglia, ucciso a Tusa il 24 marzo del 1966 Dalla metà degli anni ’40 fino alla metà degli anni ’60, furono consumati in Sicilia una serie di delitti in sequenza ai danni del movimento contadino e dei suoi dirigenti. Delitti “firmati” dalla mafia, dagli agrari e da certa politica complice, guardati benevolmente (e qualche volta incoraggiati) da servizi segreti stranieri. La gran parte di questi delitti ebbe come «teatro» le zone del feudo della provincia di Palermo: il Corleonese, il Partinicese e le Madonie. Si consumò a Portella della Ginestra (tra Piana e S. Giuseppe) la strage del 1° Maggio ’47; Epifanio Li Puma fu assassinato a Petralia il 2 marzo, Placido Rizzotto a Corleone il 10 marzo e Calogero Cangelosi a Camporeale il 1° aprile di quel terribile 1948. Una «lunga strage», durata oltre vent’anni, il cui ultimo capitolo fu scritto il 24 marzo 1966, a Tusa (Messina), dove venne assassinato Carmelo Battaglia, dirigente sindacale e assessore al patrimonio della giunta di sinistra che amministrava il comune. L’omicidio Battaglia, che avvenne a tre anni dall’insediamento della Commissione parlamentare antimafia, svelò l’esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune da questa forma di criminalità organizzata: la provincia “babba” di Messina. Ma era davvero tale quel lembo occidentale della provincia, confinante con le province di Palermo ed Enna, e comprendente buona parte della catena dei Nebrodi? Se si tiene conto che già da tempo si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle zone di mafia, quali estorsioni, abigeati, danneggiamenti ed attentati, bisognerebbe dire di no. «Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il “triangolo della morte”. Dietro questi delitti vi era la “mafia dei pascoli” e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell’economia allevatoria dei Nebrodi. E l’assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all’ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori», scrive Gabriella Scolaro (Il movimento antimafia siciliano dai Fasci dei lavoratori all’omicidio di Carmelo Battaglia, Ed. terrelibere.org, Aprile 2007). Carmelo Battaglia era stato tra i soci fondatori della cooperativa agricola «Risveglio Alesino» di Tusa, costituita nel 1945 per partecipare alle lotte per la terra. Nel 1965, i soci di questa cooperativa e quelli della cooperativa «S. Placido » di Castel di Lucio acquistarono il feudo «Foieri» della baronessa Lipari, esteso 270 ettari. Si dovettero scontrare, però, con il gabelloto Giuseppe Russo, ex vice-sindaco Dc di Sant’Agata di Militello, e col suo sovrastante Biagio Amata, che da tempo gestivano quel feudo e non volevano rassegnarsi all’idea di doverlo lasciare. Pretesero, quindi, che ne fosse ceduta a loro almeno una parte per farvi pascolare i propri animali. «Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa “Risveglio Alesino” e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia», spiega Scolaro. L’assessore socialista – che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini – fu ucciso all’alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo «Foieri». «Gli assassini – racconta ancora Scolaro – non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra». «Uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di far chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso», scrisse il giornalista Felice Chilanti sul giornale «L’Ora» di Palermo del 25 marzo 1965. «Il delitto – secondo Mario Ovazza – ha chiaro il segno dell’odio secolare contro chi è fermo nel perseguimento di pertinaci obiettivi di giustizia e di rigenerazione sociale; della sanguinaria imprecazione contro colui che partecipa più attivamente alla rivolta organizzata dalle masse contro lo sfruttamento e il privilegio…». a cura di Dino Paternostro SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GIUSEPPE SCALIA

Era il 18 novembre del 1945 quando a Cattolica Eraclea, piccolo centro dell’Agrigentino, fu ferito a morte in un attentato il sindacalista socialista Giuseppe Scalia, tra i fondatori della cooperativa agricola La Proletaria. Scalia passeggiava davanti alla sede della Camera del Lavoro in compagnia del vice-sindaco socialista Aurelio Bentivegna. Contro i due furono lanciate bombe a mano da un gruppo di sicari mafiosi. Non furono aperte neanche le indagini. Finita la guerra, Scalia si era posto con altri contadini alla testa del movimento bracciantile. La sua azione fu convinta e coraggiosa, per questo venne scelto per la carica di segretario della Camera del Lavoro locale. Nei mesi in cui ricoprì questo incarico crebbe la stima di tutti verso la sua persona e la sua intelligenza politica. Contemporaneamente crebbe l’odio della mafia locale e degli agrari che cercavano di conservare i propri privilegi. Nonostante le minacce di morte e il clima di paura che dominava in quegli anni nelle campagne, Scalia perseverò nel suo impegno, spesso recandosi nei centri vicini per sostenere le lotte dei contadini di Siculiana, Montallegro e Sciacca. Il nome di Giuseppe Scalia compare nel primo elenco ufficiale delle vittime della mafia redatto dalla commissione parlamentare sul fenomeno mafioso in Sicilia nel 1967. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

NICOLA ALONGI

Fu un contadino socialista, autodidatta, cresciuto alla scuola politico-sindacale di Verro. Assassinato dalla feroce mafia del suo paese nel 1920. «So di essere un morto in licenza», diceva ai suoi compagni giorni prima di essere ucciso… Chi si ricorda oggi di Nicolò Alongi da Prizzi, assassinato dalla mafia del feudo quasi 100 anni fa? Anche a Prizzi, quasi nessuno ormai. L’ultima volta che quest’eroico dirigente del movimento contadino della zona del Corleonese fu ricordato ufficialmente è ormai una data lontana nel tempo: 14 anni fa, nel 1997. Allora l’amministrazione comunale di centrosinistra, guidata dal sindaco Mimmo Cannariato, fece le cose in grande. Commissionò la biografia di Nicolò Alongi allo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino, che produsse un volume di circa 200 pagine (“Vita politica e martirio di Nicola Alongi, contadino socialista”, Edizioni Novecento, 1997), nel quale ricostruì con dovizia di particolari l’attività di questo contadino socialista, autodidatta, cresciuto alla scuola politico-sindacale del corleonese Bernardino Verro, inquadrandola nel contesto del “biennio rosso” contadino (1919-20) della Sicilia. Quell’amministrazione comunale commissionò anche la realizzazione di un busto bronzeo di Alongi, con l’idea di collocarlo in un luogo adeguato. Ma l’anno successivo, scaduto il mandato di Cannariato, a vincere le elezioni comunali fu il centrodestra. E cominciò il lungo “calvario” per il busto del dirigente contadino prizzese. Per mesi fu “dimenticato” in un’anonima stanza del comune, fino a quando la protesta dei familiari, costrinse i nuovi amministratori a sistemarlo all’ingresso del municipio. Poi più niente. Nicola Alongi fu assassinato la sera del 29 febbraio 1920, mentre si stava recando nella sede della “Lega di Miglioramento”, in via Umberto I, per tenervi una riunione. Era quasi arrivato a destinazione, quando una fucilata, seguita immediatamente da altre due, lo colpì al fianco e al petto, facendolo stramazzare per terra. Alcuni soci della Lega, arrivati subito dopo gli spari, lo trasportarono immediatamente nella casa di Nicolò Provenzano e chiamarono un medico, il quale non poté che constatarne la morte. Alongi aveva appena compiuto 57 anni. Com’era usuale in quegli anni, le indagini per individuare esecutori e mandanti del delitto non approdarono a nulla. Nell’immediato, tanto per far volare gli stracci, furono arrestati i Gabelloti Gristina, D’Angelo, Mancuso, Costa e Pecoraro, indicati come mandanti dell’omicidio di Alongi, e i campieri Luigi Campagna e Matteo Vallone, sospettati di essere stati gli esecutori materiali. Ma ben presto tutti tornarono in libertà. Si tratta di cognomi “pesanti” di cui ancora oggi a Prizzi non si parla volentieri. E se ne parla ancora meno, dopo una casuale scoperta del giornalista de “L’Ora” Marcello Cimino, che nel 1971, ricostruendo le origini del Partito comunista in Sicilia, venne a conoscenza del nome di almeno uno dei mandanti dell’omicidio Alongi: don “Sisì” Silvestre Gristina, all’epoca influente capomafia di Prizzi. Don “Sisì” morì accoltellato a Palermo la sera del 23 gennaio 1921, ma non fu un regolamento di conti all’interno di Cosa Nostra siciliana. Ad ucciderlo furono alcuni compagni di Giovanni Orcel, capo degli operai metalmeccanici della Cgil di Palermo, assassinato dalla mafia la sera del 14 ottobre 1920. Questi avevano saputo che era stato lui ad ordinare gli omicidi sia di Orcel che di Alongi, avevano constatato l’incapacità e la scarsa volontà della polizia e della magistratura dell’epoca di venire a capo dei due terribili fatti di sangue, e allora decisero di vendicare i due compagni con un atto di “disperata giustizia proletaria”, scrive il prof. Marino. Probabilmente, tutto questo a Prizzi lo si sapeva da tempo. Per questo, solo raramente in 87 anni si è squarciato il velo del silenzio sull’omicidio Alongi e sulle successive tragiche vicende. “So che si congiura contro di me, che si vuole attentare alla mia vita – disse Nicolò Alongi ai suoi compagni palermitani qualche settimana prima di essere ucciso – non so se domani potrò tornare ad abbracciarvi, ma sono sicuro che altri sorgerà a sventolare la bandiera che mi si vuole strappare di mano”. E, qualche settimana dopo, durante la commemorazione alla Camera, il deputato socialista Vincenzo Vacirca accusò il governo dell’epoca di dare alla mafia “la sensazione e la coscienza” che “si può uccidere i socialisti perché la polizia e la giustizia sono cieche. Fonteweb SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it