BERNARDINO VERRO

Doveva essere davvero un ribelle temerario questo Bernardino Verro da Corleone se, nel 1892, all’età di 26 anni, osò definire “usurpatori e sfruttatori del popolo” gli amministratori comunali, che l’avevano assunto come impiegato. Sicuramente un sovversivo, un “disobbediente”, un “cani ca nun canusci patruni”, per dirla tutta. E la risposta dei “padroni” del municipio – che poi erano i più ricchi proprietari terrieri di questo grosso centro agricolo a 60 chilometri da Palermo e, alcuni, anche componenti della famigerata associazione segreta dei “fratuzzi” (come allora si chiamavano i mafiosi) – non si fece attendere: lo licenziarono immediatamente. La rappresaglia politica, però, non scoraggiò affatto Verro, che, insieme a Calogero Milone, Biagio Gennaro, Francesco Puccio, Liborio Termini, Angelo Provenzano e Francesco Streva, costituì il circolo repubblicano-socialista “La Nuova Età”, con l’obiettivo di battersi per il rinnovamento sociale e politico di Corleone. Un pugno nello stomaco per i notabili del paese, che con rabbia dovettero prendere atto del “brutto” carattere del giovane Verro, sempre più vicino alla nascente ideologia socialista. E, quando in Sicilia spuntarono come funghi i fasci contadini, uno dei primi a nascere – l’8 settembre 1892 – fu quello di Corleone, presieduto proprio da Bernardino Verro. “Il nostro fascio – dichiarò con orgoglio al giornalista Adolfo Rossi, in un’intervista per “La Tribuna” di Roma dell’autunno 1893 – conta circa seimila soci tra maschi e femmine, ma ormai si può dire che, meno i signori, ne fa parte tutto il paese, tant’è vero che non facciamo più distinzione fra soci e non soci. Le nostre donne hanno capito così bene i vantaggi dell’unione tra i poveri, che oramai insegnano il socialismo ai loro bambini”. L’unione tra i poveri: era questo il messaggio semplice e rivoluzionario dei fasci. Verro e gli altri “apostoli” del socialismo isolano lo spiegavano così ai contadini: “Se voi prendete una verga sola la spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un’organizzazione, diventa invincibile”. Fame e miseria, volontà di scrollarsi di dosso secoli di schiavitù feudale e speranza di riscatto sociale costituirono la molla che spinse enormi masse di senza terra e di senza lavoro ad unirsi, a rivendicare patti agrari più giusti e condizioni di vita più umane. Alla loro testa si misero intellettuali e professionisti, che ne assicurarono la direzione: Bernardino Verro a Corleone, Nicolò Barbato a Piana dei Greci, Giacomo Montalto a Trapani, Lorenzo Panepinto a S. Stefano di Quisquina, Giuseppe De Felice Giuffrida a Catania. Un fenomeno rilevante, che mise in crisi il blocco agrario, in un contesto in cui l’intero Stato italiano era investito da una profonda crisi economica ed era incerto sulla strada da seguire per far fronte all’irrompere sulla scena sociale del movimento socialista e del movimento cattolico. Verro, da “modesto travet del ruolo esecutivo di gruppo C – scrive lo storico Francesco Renda – divenne, nell’arco di pochi mesi, una potenza politica, che tratta da pari a pari coi maggiori esponenti politici dell’isola”. E il 31 luglio 1893, al congresso dei fasci che si celebra a Corleone, ormai “capitale contadina”, ottiene l’approvazione dei “Patti di Corleone”, che rappresentano il primo contratto sindacale scritto dell’Italia capitalistica. La loro forza non stava tanto nei contenuti (proponeva l’applicazione generalizzata della mezzadria, depurata dagli orpelli angarici, imposti negli ultimi anni dai padroni), ma nell’idea semplice e rivoluzionaria che i contadini non dovevano più trattare da soli con i padroni, ma come organizzazione. Assumendo come piattaforma rivendicativa “I Patti”, in autunno si svilupparono imponenti scioperi contadini, conclusi quasi ovunque con successo. Ma nei primi di gennaio del 1894 i Fasci siciliani furono sciolti d’autorità e repressi nel sangue dal governo Crispi. Verro e gli altri capi socialisti furono arrestati, processati dai tribunali militari e condannati a 16-18 anni di galera. Scarcerato qualche anno dopo per l’intervenuta amnistia, Verro continuò con decisione la sua attività politico-sindacale a favore dei contadini, organizzando gli scioperi dei primi anni del ‘900. Nel 1906 a Corleone nacque la cooperativa “Unione agricola”, che diventò lo strumento per attuare le “affittanze collettive”, un sistema, cioè, per sottrarre i contadini alla intermediazione parassitaria dei gabellati mafiosi e contrattare uniti e direttamente con i proprietari l’affitto degli ex feudi. Fu lo stesso Verro a descrivere in maniera incisiva le nuove condizioni create dalle affittanze collettive. “Codesti antichi gabellati mafiosi – dichiarò egli il 31 gennaio 1911 – finchè erano stati i soli a pretendere in affitto gli ex feudi, avevano potuto imporre ai proprietari e ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi, mentre invece col sorgere della cooperativa agricola e coi relativi scioperi i contadini erano venuti a trovarsi di fronte ad una concorrenza formidabile, in quanto che la cooperativa offriva ai proprietari delle terre estagli più elevati di quelli imposti dai gabellati mafiosi. Da qui l’odio profondo di costoro, che venivano lesi nei loro interressi…”. Un odio che già aveva decretato la morte di due militanti socialisti: il bracciante agricolo Luciano Nicoletti, assassinato dalla mafia il 14 ottobre 1905, e il medico Andrea Orlando, freddato il 13 gennaio dell’anno successivo. Ma la mafia di Corleone aveva un motivo in più per odiare Verro: lo considerava un “traditore”. Nell’aprile del 1893, infatti, il capo dei contadini corleonesi aveva aderito all’organizzazione dei “fratuzzi” con tanto di cerimonia di iniziazione, che lui stesso descrisse in un memoriale. L’aveva fatto in un momento particolare, quando il cerchio degli agrari gli si stava stringendo pericolosamente attorno, con l’intento di assassinarlo. Avvicinato da Calogero Gagliano, che gli promise la protezione della mafia contro gli agrari, Verro giocò la partita azzardata di far parte dell’organizzazione per provare a neutralizzarla. Ma ben presto si rese conto dell’impossibilità di conciliare gli interessi del movimento contadino con quelli dei gabellati mafiosi. Già durante il grande sciopero del settembre 1893, i “fratuzzi” si mobilitarono per boicottarlo, fornendo agli agrari la manodopera necessaria per la coltivazione delle terre …

TRISTANO CODIGNOLA

Nacque ad Assisi nel 1913 da Ernesto, il grande pedagogista (di origine genovese), allora docente nelle scuole secondarie, e da Maria Melli, di famiglia ebraica, laica, sorella del notissimo pittore. Il padre si trasferì a Pisa nel 1916 e poi passò a Firenze, dove era divenuto dal 1923 titolare della cattedra di pedagogia presso l’Istituto Superiore d i Magistero. Idealista convinto, Ernesto collaborò con Gentile per l’approvazione e la promozione della radicale riforma scolastica del 1923, ma, quando man mano la scuola cadde sotto il controllo autoritario dei fascisti e dei clericali (Concordato del 1929), abbandonò il filosofo siciliano, pubblicò la rivista Civiltà Moderna, in contrapposizione alla Civiltà Cattolica, sostenitrice del fascismo e del clericalismo, fondò la casa editrice La Nuova Italia, che era tutto un programma nella stessa denominazione. Durante gli studi universitari di giurisprudenza (1931 – 1935), Tristano, attraverso Calogero e Capitini, che frequentavano l’ambiente della casa editrice paterna, conobbe il liberalsocialismo, che divenne la sua fede politica per tutta la vita. I suoi maestri furono Croce, ma soprattutto Salvemini e Rosselli, che lievitarono e rafforzarono il suo temperamento portato all’azione intransigente, coraggiosa, tenace, rendendolo sempre capace di ricominciare, su basi di coerenza e di intransigenza morale, per difendere i valori di fondo della sua scelta etico – politica. Tra il 1936 e il 1937 insieme ad Agnoletti, Francovich, Ramat, Luporini, Furno costituì il gruppo liberalsocialista fiorentino, collegandolo con quelli di altre città. Nel 1940 partecipò al convegno di Assisi di liberalsocialisti e giellisti, per la creazione di un ’Movimento di rinnovamento politico e sociale italiano’. Il 6 gennaio 1942 casa Codignola fu perquisita e Tristano fu arrestato con gli amici del gruppo fiorentino e poi condannato a tre anni di confino. Aderente del Partito d’Azione dalle origini, Tristano partecipò nell’agosto 1943 alla fondazione a Milano del Movimento Federalista Italiano. Fu dirigente della Resistenza fiorentina, ma deplorò l’uccisione di Giovanni Gentile, che doveva essere chiamato di fronte ad un solenne tribunale dell’Italia libera a render conto delle sue corresponsabilità. Protagonista della vita politica del Partito d’Azione, diede un contributo decisivo per l’avvento della Repubblica; fu eletto deputato alla Costituente, impegnandosi con altri compagni come ad es. Calamandrei e Valiani per immettere nella carta costituzionale valori giellisti e liberalsocialisti, benchè cogliesse già allora il peso massiccio dei partiti di massa (PCI-DC-PSIUP) e delle loro segreterie nella vita istituzionale (vedi l’elezione del presidente della Repubblica De Nicola, che era stato monarchico). Non accettò la decisione della confluenza del Partito d’Azione nel PSI, portata avanti da Lombardi, Foa, Lussu e costituì con Garosci, Calamandrei, Traquandi, Marion Cave Rosselli (la moglie di Carlo) il ”Movimento d’Azione Socialista Giustizia e Libertà”, di cui scrisse il ’Manifesto’ nell’ottobre del 1947. Nel 1948 insieme al gruppo di ”Europa Socialista”, che aveva come esponente più importante Ignazio Silone, e a quello di Ivan Matteo Lombardo, uscito dal PSI per la sua subalternità al PCI, Codignola fondò l’”Unione dei Socialisti”, che partecipò alle elezioni dell’aprile del 1948 con il PSLI di Saragat nella comune lista”Unità Socialista”. Nel 1949 uscì dal PSI anche Romita, fondando il ‘Movimento Socialista Autonomo’. Tra il 4 e l’8 dicembre 1949 si tenne a Firenze un memorabile Congresso di riunificazione dei vari movimenti, che diedero vita al PSU (Partito Socialista Unificato). Come ha detto efficacemente Alessandro Roveri ” giungevano a convivenza organizzativa le tradizioni e i percorsi che, nelle loro diverse, tormentate vicissitudini passate, rappresentavano l’aristocrazia della sinistra italiana democratica e progressista, quella che non aveva accettato compromessi né subito ricatti, e della quale purtroppo il paese, prima ancora che i convitati di pietra del PSLI, non si dimostrò degno: il liberalsocialismo, l’europeismo socialista, la tradizione di Turati e di Anna Kuliscioff, l’umanesimo laico, l’autonomismo socialista, Giustizia e Libertà. E non era per caso che sulla parete di fondo della sala comunale del congresso campeggiasse un grande ritratto di Carlo Rosselli.” Il congresso ebbe un respiro europeo nella presenza di delegati socialisti dei vai europei e nel tono del dibattito e il PSU fu accolto, a differenza del PSLI di Saragat, nell’organizzazione internazionale socialista. Ha detto Agnoletti ”Il PSU è stato forse la formazione più ’liberalsocialista’ della storia dei tanti organismi nati e scomparsi del dopoguerra.” Segretario fu Ignazio Silone, con la appassionata collaborazione di Tristano. Ma la pressione dell’Internazionale Socialista, che aveva escluso il PSI filo – comunista – stalinista e premeva per l’unificazione delle forze socialiste democratiche e la vittoria delle tesi fusioniste con il PSLI portate avanti da Romita (che divenne segretario) al Congresso di Torino del PSU del 27-30 gennaio 1951, con Silone e Codignola in minoranza, portarono alla nascita il 1 maggio del Partito Socialista Sezione Italiana dell’Internazionale Socialista (cambiato al Congresso di Bologna del 3-7 gennaio 1952 in PSDI). Molte federazioni del PSU, come quelle di Torino, Venezia, Firenze, vicine alle posizioni Codignola-Silone, non accettarono l’accordo Romita – Saragat e presentarono alle amministrative liste proprie in opposizione a quelle del PSLI. Al Congresso di Bologna, le tesi di Codignola per un socialismo autonomo dal PCI e dalla DC ebbero la maggioranza, ma furono boicottate e poi capovolte nel Congresso di Genova dell’ottobre 1952, dove fu approvata la sostanziale subalternità alla DC ed alla proposta elettorale maggioritaria (la famosa legge-truffa). Per la sua battaglia di oppositore il 23 dicembre 1952 Codignola fu espulso dal PSDI e Calamandrei lasciò lo stesso partito per solidarietà con l’amico. Dice ancora Roveri ”Vero Sisifo del socialismo, Codignola fondò il 5 gennaio 1953 il quindicinale ‘Nuova Repubblica’; poi a Vicenza, il 1 febbraio 1953, diede vita al ‘Movimento di Autonomia Socialista’ e si mise a viaggiare per tutta l’Italia per vedere di organizzare la resistenza contro la legge- truffa.” Nell’aprile Ferruccio Parri, in segno di protesta per lo scioglimento del Senato e della prossima vicenda elettorale maggioritaria, lasciò il Partito Repubblicano Italiano e insieme a Codignola fondo il movimento di ‘Unità Popolare’, che presentò candidati in tutte le circoscrizioni in cui potè avere forza per farlo. Fu una vicenda politico – elettorale tumultuosa, ma esaltante per tutti quelli che vi aderirono e, …

FILIPPO CORRIDONI

Filippo Corridoni, venne avviato al lavoro di fornace dopo le elementari, ma, dotato di vivissima intelligenza, proseguì gli studi, anche grazie ad una borsa di studio presso l’Istituto superiore industriale di Fermo. Nel 1905 a Milano, metropoli in fermento per la nuova fase di rivoluzione industriale, trovò lavoro quale disegnatore tecnico presso l’industria metallurgica “Miani e Silvestri”. Divenne segratario della sezione giovanile del Partito socialista di Porta Venezia e fondò nel marzo 1907 con Maria Rygier, giovane anarchica, il giornale Rompete le Righe, avvicinandosi così sempre più alla corrente sindacalista rivoluzionaria. La natura espressamente antimilitarista del giornale, di cui uscirono circa una decina di numeri. L’intervento contro il giornale dell’onorevole Felice Santini gli fruttò quattro anni di detenzione e la chiusura del giornale. Uscì grazie ad un’amnistia riparando a Nizza dove fece amicizia con Edmondo Rossoni. Quando a Parma incominciarono gli scioperi dei braccianti, lasciò Nizza sotto il nome di Leo Celvisio, a ricordo della rocca di San Leo, fortezza papalina dove venivano rinchiusi soprattutto i detenuti politici. Scrisse sul giornale L’Internazionale, organo della Camera del Lavoro “sindacalista rivoluzionaria” di Parma, poi pubblicato anche a Milano e Bologna, insieme ad altri esponenti del sindacalismo rivoluzionario, che si ritroveranno, almeno in parte, nella nascita dei Fasci d’Azione Internazionalista. La polizia lo identificò a causa di un articolo pubblicato da un giornale socialista, e Corridoni dovette fuggire prima a Milano e poi a Zurigo in Svizzera. Dopo un altro arresto (Corridoni fu arrestato circa trenta volta nella sua pur breve vita), fondò Bandiera Rossa, giornale poco fortunato, passò quindi a collaborare con due testate dirette da Edmondo Rossoni, l’una evoluzione dell’altra: Bandiera Proletaria e Bandiera del Popolo, la cui stessa nomenclatura indica uno spostamento dalle posizioni di lotta di classe a posizioni più mediate in riferimento alla lotta di classe. Sconfitto nel tentativo di innescare principi rivoluzionari nel sindacato, si trasferì a Milano e nel 1911-12 riprese la sua operazione con la classe operaia, tentando di introdurre nel sindacato il metodo organizzativo basato sull’unità produttiva e sul ruolo qualificato dell’addetto. Secondo il suo pensiero, questo metodo, avrebbe portato a nuovi tipi di relazioni industriali, ma nel contempo avrebbe introdotto un principio interclassista dal punto di vista politico. Nonostante tale metodo non avesse fatto proseliti, Corridoni fu riconosciuto come uno dei capi del sindacalismo rivoluzionario di Milano. Nel novembre 1912 Corridoni prese parte a Modena al congresso istitutivo dell’Unione Sindacale Italiana (USI), scissione della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), il sindacato confederale legato fortemente al partito socialista. Tutta una serie di personaggi di spicco passarono all’USI, dai fratelli De Ambris a Giuseppe Di Vittorio. L’USI ebbe numerose adesioni a livello nazionale, in particolare a Genova, dove le camere del lavoro più importanti, come quella di Sestri Ponente, passarono in gran parte dai confederali all’USI. Nell’aprile 1913 nacque a Milano, su inspirazione di Corridoni, l’Unione Sindacale Milanese (USM), autonoma, ma associata all’USI, della quale divenne responsabile. Con la stretta collaborazione dei fratelli De Ambris, egli organizzò una serie di scioperi ed ottenne l’adesione al sindacato USM dei sindacati metallurgici, dei gassisti, dei lavoratori del vestiario, dei tappezzieri di carta e dei decoratori. Furono anni di intensa collaborazione coi De Ambris quelli fra il 1913-14, in cui venne appoggiato nella sua azione dall’allora direttore dell’Avanti, Benito Mussolini. A Milano dove tenne un comizio all’Arena davanti a circa 100.000 operai. Allo stesso comizio presero la parola Mussolini e Gibelli. Al termine della manifestazione, la folla intenzionata a raggiungere piazza del Duomo fu fronteggiata dalla polizia. Ne nacquero scontri nel corso dei quali furono feriti sia Corridoni che Mussolini. Quest’ultimo grazie all’intervento di altri partecipanti tra cui Amilcare De Ambris fu messo in salvo, mentre Corridoni fu nuovamente arrestato. Mentre scontava la pena in carcere nel frattempo in Europa scoppiò la Prima Guerra Mondiale. Intanto il 14 novembre 1914 uscì il primo numero del Popolo d’Italia fondato da Benito Mussolini. Nel contempo, su iniziativa di Mussolini nacquero i Fasci d’Azione Rivoluzionaria, gruppo che rinserrò ed organizzò i ranghi dell’interventismo di sinistra ed evoluzione dei Fasci d’Azione Internazionalista: le personalità sindacaliste rivoluzionarie e di sinistra si accodavano così alla campagna sostenuta dalla borghesia italiana, e diretta dalle colonne del Corriere della Sera, volta ad orientare verso la partecipazione alla guerra le operaie e gli intellettuali. Allo scoppio della prima guerra mondiale Corridoni si presentò volontario per il fronte e poco prima della partenza mandò un saluto a Mussolini, fu inizialmente assegnato ai servizi di retrovia. Ciò nonostante insisté per essere inviato al fronte: ci riuscì e partecipò ai combattimenti sul Carso, dove trovò la morte per ferita d’arma da fuoco in seguito a un assalto alla trincea austriaca. Risultò così profetica la sua affermazione eroica: “Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma, se potrò, cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora!”. Venne decorato alla memoria con medaglia d’argento al valor militare, decorazione che Benito Mussolini fece convertire in medaglia d’oro nel 1925. Lo ricorda un monumento del 1933, opera dello scultore Francesco Ellero, sul Carso goriziano nel luogo dove cadde (Trincea delle Frasche). Nella piazza in stile fascista della sua città natale, Pausula (oggi rinominata Corridonia), si erge ancora la statua bronzea del Corridoni in punto di morte, opera dello scultore Oddo Aliventi, inaugurata da Mussolini durante il Ventennio. Dopo la morte la figura di Filippo Corridoni fu associata al nascente fascismo con il cui leader aveva condiviso nell’ultima fase della sua vita la scelta dell’Interventismo e l’arruolamento volontario in guerra e dai vecchi compagni socialisti coi quali aveva condiviso le battaglie giovanili. L’ascesa di Mussolini nel 1922 lo consegnò nell’immaginario collettivo al Fascismo. Tanto che lo stesso Curzio Malaparte sull’opera svolta da Corridoni commentò: ” I precursori e gli iniziatori del fascismo sono quelli stessi, repubblicani e sindacalisti, che avevano per primi sollevato il popolo contro il socialismo deprimente e rinnegatore ed avevano voluto ed attuato, con Filippo Corridoni, gli scioperi generali del 1912 e del 1913 “. Ma la figura di Filippo …

GIUSEPPE BARBAROSSA

Siamo nel maggio del 1921: è questo il momento più triste per l’avvocato Giuseppe Barbarossa e la sua famiglia; l’avvocato Barbarossa, nato a Canosa nel 1868, socialista, antifascista, già consigliere comunale e assessore alla pubblica istruzione del Comune di Canosa, è costretto a lasciare la città natale per sempre per mettere in salvo la propria vita. Appena qualche giorno prima, infatti, è stata fatta esplodere una carica di dinamite dietro la porta di casa; per fortuna non ci sono state vittime, ma le minacce subite da parte dei fascisti canosini si sono aggravate e sono ormai diventate realtà. L’avvocato Barbarossa lascia Canosa per trasferirsi definitivamente a Napoli. Giuseppe Barbarossa si laurea a Napoli in giurisprudenza e nelle città campana matura le proprie idee politiche aderendo al Partito socialista. Tornato a Canosa, dove esercita la professione di avvocato, si getta nella battaglia politica divenendo consigliere comunale nel 1892 e assessore alla pubblica istruzione nel 1910: a Giuseppe Barbarossa si deve l’istituzione di una scuola tecnica secondaria che sarà intitolata a Giovanni Bovio. I 30 anni dell’attività politica del Barbarossa sono gli anni in cui in Puglia e a Canosa si ha un forte radicamento dell’anarchismo e del sindacalismo rivoluzionario e l’emergere di una figura carismatica che sarà punto di riferimento per tutta l’Italia: Giuseppe Di Vittorio. Giuseppe Barbarossa sarà anche una delle poche figure di intellettuali della nostra città; fonda ben due giornali: “Cronache Ofantine” e “La Gogna”. Gli anni del “biennio rosso” e l’avvento del fascismo a Canosa La parte più interessante del libro, dal punto di vista storico della nostra città, è certamente il biennio 1920-1922; sono gli anni, a livello italiano, del cosiddetto “biennio rosso”, gli anni cioè in cui i partiti di sinistra ed in particolar modo il Partito Socialista, si affermano alle elezioni, conquistando moltissime amministrazioni comunali. E sono gli stessi anni in cui il Partito Fascista fa sentire, anche fisicamente, la sua presenza. Sono due anni tremendi perché la lotta tra socialisti e fascisti a livello nazionale non sarà solo politica ma anche piena di violenze e di durissimi scontri con centinaia di vittime da entrambe le parti: la violenza della Prima Guerra Mondiale che si trascina negli anni a seguire della vita politica italiana. Anche a Canosa nelle elezioni dell’ottobre 1920 per la prima volta vince il Partito Socialista; per la prima volta nella storia della città ad amministrarla non saranno più le famiglie rappresentanti l’aristocrazia terriera, ma saranno gli strati operai della città: amministratori e assessori sono fabbri, falegnami, calzolai; il sindaco è un fotografo, Saverio Violante. Ma l’amministrazione canosina del Partito socialista dura pochi mesi: gli scontri con i fascisti saranno violentissimi; quando dopo scontri violenti i socialisti bruciano le masserie dei fascisti la rappresaglia sarà durissima: il 4 aprile 1921, i fascisti nel corso della notte danno l’assalto alla Camera del Lavoro, della Lega dei contadini e soprattutto assalgono il Municipio. Saverio Violante, il sindaco, sarà costretto a rassegnare le dimissioni anche perché, come in tutta Italia la forza pubblica non reagisce; il suo posto sarà assegnato a un commissario prefettizio, Gabriele De Santis. Questi passaggi, accennati nel libro, e certamente meritevoli di ulteriori approfondimenti storiografici, hanno il pregio di raccontare una parte della storia di Canosa che fa giustizia di una verità sottaciuta e di una versione edulcorata della storia: anche a Canosa gli scontri fisici tra socialisti e fascisti furono molto violenti. Ma l’assalto al municipio non deve essere considerato una mera causalità dovuta agli scontri dei giorni precedenti tra socialisti e fascisti, ma come la concreta attuazione di una precisa strategia politica decisa a livello nazionale. Scrive infatti Giulia Albanese nel suo libro “La marcia su Roma” (Laterza 2005, pag. 22): “Tra il 1920 e il 1921 la lotta fascista per la conquista del potere si configurò principalmente come una contesa per la conquista dell’egemonia locale, a spese soprattutto dei socialisti, e da questa lotta lo squadrismo trasse legittimazione presso le forze moderate. L’obiettivo principale delle squadre fasciste fu, nel caso delle amministrazioni governate dai socialisti, l’occupazione dei palazzi municipali”. Anche la sostituzione del sindaco Violante con la nomina di un commissario prefettizio rientra nella casistica nazionale dell’appoggio dato dalla vecchia classe dirigente allo squadrismo in funzione antisocialista. Scrive ancora la Albanese che il successo della strategia fascista era dovuto anche “grazie al sostanziale appoggio del ministero dell’Interno, che invece di tutelare lo svolgimento di libere elezioni o di salvaguardare le giunte legalmente elette, commissariava i comuni oggetto di attacchi fascisti”. Davvero illuminante allora il libro di Cecilia Valentino che dimostra come non via sia soluzione di continuità tra la microstoria delle realtà locali, come Canosa, e la storia nazionale. Gli avvenimenti canosini rientrano perfettamente nella strategia e nel disegno politico nazionale. Ma la stessa microstoria consente di comprendere più da vicino, toccare quasi con mano la portata degli eventi storici: in una nazione come l’Italia che non ha avuto la Rivoluzione Francese ma ha avuto il Bonapartismo, il “biennio rosso” ha davvero una portata ed un significato rivoluzionario: in una città come Canosa, gli artigiani e i contadini arrivano a conquistare il potere di una città esautorando per la prima volta l’aristocrazia terriera che per secoli ha amministrato la città; è una piccola autentica forma di “rivoluzione”, quasi una “Comune di Parigi”. Perciò si comprendono meglio i motivi per i quali la vecchia classe dirigente italiana, aristocratica e liberale (Giolitti per esemplificare), insieme alle forze dell’ordine e alla Monarchia, sostanzialmente appoggino il movimento fascista, quale partito d’ordine necessario per ristabilire lo “status quo”. In quest’ottica allora leggere l’allontanamento del Barbarossa da Canosa; impedire che i movimenti di popolo socialisti potessero avere l’appoggio della classe intellettuale anche nelle piccole realtà locali. Staccare le teste pensanti dal resto della popolazione. Nel 1929, ad acque ormai chetate, il notaio Gaetano Maddalena, amico fraterno, scriverà una lettera al Barbarossa dicendogli che tutto è pronto per il suo ritorno a Canosa, purché scriva una lettera al consiglio fascista provinciale di Bari. Barbarossa comprende che scrivere la lettera significa fare un atto …

GIULIANO VASSALLI

Nato a Perugia il 25 aprile 1915, morto a Roma il 21 ottobre 2009, giurista, dirigente e parlamentare socialista, ministro, presidente emerito della Corte Costituzionale, Medaglia d’argento al valor militare. Dopo essere stato professore di Diritto penale nelle Università di Urbino, Pavia, Padova e Genova, Giuliano Vassalli, dal 1960, ebbe la cattedra all’Università di Roma. Professore emerito a “La Sapienza” e membro dell’Accademia dei Lincei, l’insigne giurista fu decorato al valore per il contributo dato alla Resistenza. Dopo l’8 settembre 1943, Vassalli prese infatti parte alla Guerra di liberazione. nelle file della Resistenza romana. Membro della Direzione clandestina del PSIUP, nei mesi dell’occupazione tedesca fu tra i capi delle formazioni socialiste a Roma. Dall’ottobre 1943 alla fine di gennaio del 1944, sostituì Sandro Pertini nella Giunta militare centrale del CLN. Nel gennaio del 1944 organizzò l’evasione dello stesso Pertini e di Giuseppe Saragat dal carcere di Regina Coeli. Fu poi anche ispettore del CLN in pericolose missioni nell’Italia centrale. Il 3 aprile 1944, Vassalli fu catturato, a Roma, dalle SS che lo rinchiusero nel carcere di via Tasso. Vi restò, sottoposto a stringenti interrogatori e a tortura, sino alla liberazione della Capitale. Nel dopoguerra, con la scissione di Palazzo Barberini, uscì dal PSI. Dal 1947 al 1949, fece parte della Direzione del PSLI e, dal 1949 al 1951, di quella del PSU, non rientrando nel Partito socialdemocratico dopo che i due partiti si rifusero. Nel 1957 Vassalli fu insignito del “Premio di fedeltà alla Resistenza” per l’attività svolta, come avvocato e come pubblicista, a favore degli ideali della Resistenza. Rientrato nel PSI nel 1959, Vassalli fu consigliere comunale e capogruppo di quel partito a Roma e poi fu deputato del PSI nella quinta Legislatura. Eletto senatore nel 1983 e riconfermato nel 1987, è stato presidente della Commissione Giustizia e poi del Gruppo parlamentare socialista. Nel 1987 è stato nominato ministro della Giustizia nel governo di Giovanni Goria e riconfermato nei governi De Mita ed Andreotti, lavorando alla stesura del nuovo Codice di procedura penale del 1989. Tra le numerosissime pubblicazioni scientifiche di Giuliano Vassalli (che ha anche ricevuto la laurea “honoris causa” in Giurisprudenza dall’Università di Bologna), si possono ricordare L’interpretazione della legge Merlin, del 1965, e Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico, pubblicate nel 1972. Fonte: ANPI SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

RICCARDO LOMBARDI

Nato nel 1901 a Regalbuto (Enna). E’ indubbiamente una delle figure più originali e significative della storia del movimento socialista italiano. Giovane seguace di Guido Miglioli e delle idee del sindacalismo cattolico di sinistra nei primi anni’20, militante di Giustizia e Libertà e poi tra i fondatori del Partito d’Azione nel 1942, prefetto di Milano al momento della Liberazione, ministro dei Trasporti nel primo governo De Gasperi (la sua unica esperienza governativa), allo scioglimento del Partito d’Azione Lombardi confluirà nel PSI, partito nel quale militerà fino alla morte, leader con Nenni della corrente autonomista e poi, dopo la rottura all’atto della formazione del primo governo di centrosinistra, della minoranza di sinistra. A dispetto di questa biografia così ricca, su Riccardo Lombardi (come, peraltro, per altri personaggi di rilievo della storia italiana di questo secolo) manca ancora uno studio che ne ricostruisca complessivamente l’azione. Tale, infatti, non può essere considerata la biografia di taglio giornalistico di Miriam Mafai (Lombardi, Feltrinelli, Milano 1976), mentre il saggio più documentato resta quello di Emanuele Tortoreto (La politica di Riccardo Lombardi dal 1944 al 1949, Edizioni di Movimento operaio e socialista, Genova 1972), cronologicamente però limitato all’arco di pochi anni. Gli storici dei partiti e dei movimenti politici spesso lamentano, per i propri studi, la mancanza di documentazione. Eppure, in questo caso, i documenti, le carte necessarie sono ormai a disposizione degli studiosi, grazie alla donazione da parte dello stesso Lombardi e dei suoi famigliari, dell’archivio (diverse migliaia di documenti ed oltre novemila lettere: cfr. l’inventario curato da Emilio Capannelli per il Servizio beni culturali e librari della Giunta regionale toscana) alla Fondazione di studi storici “Filippo Turati” di Firenze. Alcuni di queste lettere e documenti (in parte già pubblicati nei due volumi di scritti lombardiani curata per Marsilio nel 1978 da Simona Colarizi), relativi al periodo 1943-1947, al passaggio dalla lotta clandestina e partigiana alla Liberazione e alla costruzione della democrazia, appaiono oggi in questo volume curato (con qualche refuso di troppo) da Andrea Ragusa. Ne emerge, ancora una volta, la particolarità della figura di Lombardi nell’ ambito del socialismo italiano di questo dopoguerra. Ingegnere, studioso di Keynes e Schumpeter più che di Marx, attento alla comprensione dei problemi più che alla lotta quotidiana di governo e di sottogoverno, in Lombardi la pratica politica si coniugava al delineare scenari come momento non disgiunto dall’azione politica stessa. Da qui, forse, la critica spesso rivolta a Lombardi di presbiopia politica, per la sua capacità, appunto, di vedere politicamente lontano, perdendo di vista il dato politico immediato o forse, meglio, quello partitico. In realtà, Lombardi fu anche uomo di partito, cosciente che a spaccare si fa piu’ presto che unire. Da qui la critica, tipica di Rosselli e di GL prima, del Partito d’Azione poi, al socialismo prefascista e a quello che Lombardi chiama il “verbalismo rivoluzionario”. Insomma, un Lombardi, più che presbite, lucidamente visionario o utopisticamente concreto, se si preferisce, come di fronte al problema del blocco dei licenziamenti, una misura adottata populisticamente durante l’ultimo periodo della RSI e la cui revoca Lombardi dovette affrontare come Prefetto di Milano, sottolineando che la questione non è di moralità; essa è di politica economica, ma anche insistendo sul dato politico sulla necessita’ assoluta che si provveda senza indugio non solo alla avocazione dei profitti di regime, ma altresi’ a una politica fiscale degna di un governo democratico e che faccia pagare il costo della guerra e del fascismo e l’onere della ricostruzione a tutti coloro che risultano detentori di ricchezze. Centrale diventa quindi, in questi scritti, la questione della costruzione della democrazia: Che cosa è essenziale per la nascita di una democrazia in Italia? E’ essenziale che il Paese sia attivizzato, che il piu’ gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti sia interessato politicamente ed economicamente ad uno Stato democratico, al punto che tutti si sentano minacciati quando la democrazia è in pericolo. E cosi’ altri progetti, come l’istituzione di un istituto di revisione nazionale (strumento per garantire ai lavoratori che le condizioni della libertà economica siano fatte coincidere con i loro interessi essenziali e quindi con il benessere generale), la sottolineatura del ruolo dell’Europa e di quello delle autonomie locali (fino a proporre, lui Prefetto di Milano, l’abolizione della figura stessa di Prefetto). Il teorico delle riforme di struttura, dell’azione riformatrice e non riformista, l’ideologo (e lo sconfitto) del primo centrosinistra è già in queste pagine. Riccardo Lombardi morì nel 1984. Fonteweb   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

INES ODDONE BITELLI

Ines Oddone arrivò a Bologna nel 1904, dopo le nozze con Giovanni Bitelli. Lei, di estrazione borghese (il padre era ingegnere), aveva conseguito il diploma magistrale alla Normale di Roma; lui, di estrazione proletaria, era stato operaio specializzato prima di vincere una borsa di studio per la Normale di Urbino. Erano stati entrambi attivi nell’Unione Magistrale fin dalla sua costituzione. In una nota della Prefettura di Bologna, datata novembre 1905, si legge di Giovanni Bitelli: “… verso la famiglia si comporta benissimo. Egli vive in perfetto accordo con la propria moglie Ines Oddone anch’essa socialista propagandista, ed è solito accompagnarla tutte le volte che la medesima si reca in paesi limitrofi per tenervi conferenze di propaganda”. Dopo pochi mesi dalla sua venuta nel capoluogo felsineo, Ines entrò a far parte dell’Esecutivo della Camera del Lavoro, dove si legò al gruppo sindacalista rivoluzionario. I sindacalisti rivoluzionari, seguaci del pensiero di Sorel (che considerava lo sciopero generale strumento di “azione diretta” per sovvertire la società borghese), avevano giocato un ruolo determinante nello sciopero generale indetto proprio nel 1904. Forti infatti della vittoria conseguita insieme agli intransigenti di Ferri al Congresso nazionale del Partito Socialista che si era svolto a Bologna nel 1904, dove avevano messo in minoranza per la prima volta l’ala riformista turatiana, avevano acquistato un peso determinante soprattutto all’interno delle Camere del lavoro. Anche a livello locale si stavano vivendo situazioni di tensione tra i rappresentanti dei diversi gruppi: “… vi erano in mezzo a quel proletariato dissidi profondi di tendenza e di Partito, ed ella (Ines Oddone) con la sua bontà accompagnata da una grande energia che impone rispetto e autorità, seppe in breve tempo assopire i dissidi e ristabilire la pace e la fratellanza fra i forti organizzati di Bologna”. Era una straordinaria oratrice e, probabilmente anche per queste doti, fu inviata nel gennaio del 1905 come delegata al terzo Congresso Nazionale della Resistenza che si tenne a Genova insieme al quinto Congresso Nazionale delle Camere del Lavoro. Nel dibattito allora in corso all’interno del movimento operaio la Oddone si batteva per l’autonomia delle organizzazioni politiche da quelle “economiche”, posizione che al Congresso risultò minoritaria. A Bologna, il 5 luglio 1905, Ines Oddone pubblicò il primo numero di “La donna socialista” presso la tipografia Azzoguidi, che divenne anche la sede del giornale. Ines quindi, a un solo anno dal suo arrivo a Bologna e nonostante l’esito poco incoraggiante dei tentativi precedenti, iniziò la pubblicazione di un giornale destinato alla propaganda socialista fra le lavoratrici. “La donna socialista” uscì a Bologna dal luglio al novembre del 1905 e continuò a essere pubblicato fino all’aprile 1906 a Gallarate, dove la Oddone si trasferì in seguito alla nomina del marito a segretario della locale Camera del Lavoro. La storia dell’autofinanziamento di questo “giornaletto”, come lo definiva la stessa Ines per la sua modesta veste editoriale, e dei sacrifici che la direttrice dovette affrontare per tenerlo in vita per 39 numeri consecutivi, e’ documentata passo passo nella rubrica “Per la donna socialista”, ove la Oddone annotava l’andamento settimanale della campagna abbonamenti. Nei primi numeri sollecitava semplicemente i rivenditori a essere puntuali nei pagamenti: “è necessario che tutti gli abbonati e rivenditori concorrano con sollecitudine a mantenere in vita il nostro giornale”. Accennava pure ai pesanti sacrifici personali che doveva affrontare: “noi facciamo immensi sacrifici finanziari, fieri di proseguire nell’opera intrapresa”. A volte le ristrettezze economiche non le permettevano neppure le trasferte necessarie per la sua opera di propaganda: “sono ben felice di venire tra voi, ma le forze finanziarie non mi permettono di fare quanto voi vorreste… qualche mese fa si poteva, ma ora tutti quello che guadagno è destinato a ‘La donna socialista’, che costa, e non poco”. Nel consuntivo di fine anno (6 gennaio 1906) nonostante fosse ancora fiduciosa (“entriamo nel secondo anno di vita pieni di fede e speranza, suffragati dall’unanime consenso delle nostre compagne”), doveva tuttavia ammettere che “bersagliati come siamo dai rivenditori e abbonati insolvibili, il ‘giornaletto’ è passivo”. Il 31 marzo 1906 buttava la spugna: “ci è doloroso constatare come il nostro tentativo di far sorgere e mantenere in Italia un giornale di propaganda femminile minaccia di fallire miseramente”. Individuava varie cause, ma attribuiva la maggiore responsabilità’ del fallimento della sua iniziativa ai rivenditori morosi, che accusava di “mancare ai più elementari doveri di onestà, facendosi inviare per mesi e mesi il giornale e rimanendo poi sordi ai reiterati inviti di pagamento”. Il giornale cessò del tutto dopo altre due emissioni, nonostante un ultimo appello dell’infaticabile e combattiva redattrice torinese Annita Fontana, che considerava una vera e propria “disfatta” il fallimento del terzo tentativo in Italia, dopo ‘Eva’ della Melli e ‘Cronache femminili’ della Mariani a Torino, di creare “un giornale femminile che parli proletariamente”. A ostacolare la vita del giornale contribuì’ anche una serie di interventi censori. Con un editoriale, “Sequestro” (21 ottobre 1905), la Oddone (che in questa circostanza precisò che gli articoli non firmati erano suoi, assumenendosene completa responsabilità) denunciava che un “articolo di propaganda antimilitarista ha destato gli scrupoli del Signor Procuratore del Re, che ne ha ordinato il sequestro perchè esponeva l’esercito al disprezzo del pubblico”. “La donna socialista” era ormai entrata nel mirino della censura: “il 28 ottobre il Procuratore di Bologna ordinò il sequestro questa volta di un articolo di Tolstoj, “Reclute russe”, già pubblicato nella “Critica sociale” di Turati e circolante liberamente in opuscoli da cinque centesimi, come informava la Oddone per dimostrare la pretestuosità dell’intervento della polizia. La Oddone come direttrice del giornale e autrice del primo articolo incriminato, “La riserva” (14 ottobre 1905), e Nello Gamberini come gerente responsabile furono processati presso il Tribunale di Bologna, e assolti con sentenza del 10 dicembre 1906. Dopo il trasferimento del giornale a Gallarate la pressione non rallentò: due articoli della direttrice, “La Francia laica” e “L’educazione nelle caserme”, apparsi nel secondo numero pubblicato a Gallarate (2 gennaio 1906), vennero sequestrati. Per niente intimorita, anzi convinta che i sequestri del giornale alla fine avrebbero giovato alla causa antimilitarista, …

RODOLFO MORANDI

Rodolfo Morandi nacque a Milano il 30 luglio 1902 da Enrico e da Enrica Maraviglia, terzogenito dopo due figli maschi. La famiglia proveniva da Agra, nei dintorni del Lago Maggiore. Il padre, un attivo imprenditore del settore alberghiero di simpatie mazziniane e radicali, fu impegnato in politica durante la crisi di fine secolo. Dopo la sua prematura scomparsa fu la madre a curare l’educazione dei figli, creando attorno a essi un ambiente ricco di sentimenti e forza morale. Compiuti gli studi al Liceo Parini di Milano, in anni di entusiasmo interventista e con il fratello partito volontario, Morandi si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia. Qui aderì al Partito Repubblicano e al gruppo degli studenti socialisti, conobbe Lelio Basso e Giuseppe Faravelli ma non partecipò attivamente alla lotta politica. Tra 1921 e 1925 si dedicò a un intenso studio filosofico e storico, iniziato con la lettura delle opere di Giuseppe Mazzini e proseguito con un tentativo di aggiornare la cultura democratica attraverso il sistema hegeliano e le correnti più moderne del pensiero progressista e socialista. Dopo il delitto di Giacomo Matteotti maturò l’idea di un impegno politico diretto. Fondò, prima, con Basso e altri studenti un movimento di opposizione, i Gruppi goliardici per la libertà, e poi la rivista Pietre, distaccandosi via via dall’ambiente repubblicano. Considerava l’Aventino – la scelta dei deputati antifascisti di abbandonare i lavori parlamentari dopo l’uccisione di Matteotti – un grave errore e del tutto inadeguata l’azione precedente delle forze politiche antifasciste. La collaborazione al Quarto Stato di Carlo Rosselli e Pietro Nenni e poi un lungo viaggio di studio in Germania (in cui approfondì il pensiero socialista tedesco), lo spinsero verso un’impostazione ideologica di tipo marxista e classista. Inoltre, sempre attento agli studi e all’attività culturale (negli anni Trenta fu anche direttore di due collane dell’editore Corticelli) decise di dedicarsi a settori di ricerca innovativi. Ne scaturì la sua opera più importante, la Storia della grande industria in Italia (Bari 1931) che, nonostante la sua giovane età, ebbe un discreto successo e una notevole attenzione critica. Nel volume ricostruiva la formazione della grande impresa privata, evidenziando il ruolo delle concentrazioni industriali nella prima modernizzazione capitalistica del paese tra Otto e Novecento e durante la Grande guerra. Per Morandi si era centrato un obiettivo mancato dopo l’Unità, ma restavano problemi profondi: la borghesia italiana si era dimostrata carente di cultura civile e visione globale, responsabile di uno sviluppo insufficiente e di gravi arretratezze (come testimoniava il persistere di una questione meridionale). Le idee espresse nel volume si richiamavano al suo orientamento politico, maturato alla fine degli anni Venti, nel movimento di Giustizia e libertà (GL), di cui tentò di rendere efficace l’azione clandestina, qualificandolo altresì in senso socialista; ma proprio su questo terreno, nell’autunno 1931, giunse a una rottura con l’organizzazione, segnata da un polemico confronto politico-ideologico con Rosselli. Le posizioni liberalsocialiste del fondatore di GL si scontrarono con le tesi classiste e marxiste dell’intellettuale milanese che assegnava al proletariato la direzione della rivoluzione antifascista e sosteneva l’impossibilità di risolvere la crisi italiana con il semplice ritorno alla democrazia borghese. Morandi abbandonò GL ma non aderì al Partito Comunista del quale condivideva molte analisi e la funzione storico-politica della Rivoluzione d’ottobre, ma del quale respingeva l’approccio autoritario, statalista e burocratico che intravedeva nell’azione e soprattutto nell’esperienza sovietica (nonostante un intenso confronto con Giorgio Amendola). Altrettanto severo il giudizio sulla socialdemocrazia: la vecchia organizzazione del movimento operaio era del tutto inadeguata e impreparata, rispetto sia alla sfida del fascismo, sia ai nuovi bisogni della società europea. Nel suo pensiero le politiche collettiviste e le nazionalizzazioni, proprie della tradizione marxista, convivevano dunque con l’attenzione alla partecipazione di base e all’autonomia delle organizzazioni di classe. A metà degli anni Trenta Morandi, che nel frattempo aveva sposato Fausta Damiani, dalla quale nel 1934 ebbe la sua unica figlia, Adriana, riprese l’azione clandestina, schierato su posizioni di assoluta intransigenza verso il regime. Lo scenario politico internazionale stava cambiando. La vittoria di Hitler in Germania aveva costretto le sinistre europee ad avvicinarsi. Il Partito Socialista in esilio liquidò l’esperienza della concentrazione antifascista, strinse il Patto di unità d’azione con il PCI e decise di ricominciare l’attività politica nel paese. Morandi fu protagonista della costituzione del Centro Interno Socialista in patria (in collaborazione con tutte le correnti del PSI ora riunificato tra cui spiccavano i riformisti di Giuseppe Saragat, Angelo Tasca e Faravelli o uomini come Lucio Luzzatto e Eugenio Colorni). Dopo una prima fase stentata sul piano operativo e attenta soprattutto al lavoro ideologico, il Centro iniziò a penetrare nel mondo intellettuale e in alcune fabbriche, specie all’inizio della guerra di Spagna. Morandi concepì la sua azione di animatore del Centro anche come occasione di rinnovamento del profilo ideologico del partito: nel dibattito aperto tra i socialisti e nella sinistra sulle alleanze con i ceti medi e sul ruolo della democrazia borghese enunciò il fondamento della politica di transizione. Il movimento proletario poteva – a suo dire – allearsi provvisoriamente con settori borghesi in funzione antifascista, ma senza scalfire le sue caratteristiche rivoluzionarie e classiste, decisive per la successiva costruzione dello stato pianificatore e collettivista. Non mancarono, come nel caso del manifesto che il PCI indirizzò ai militanti delle organizzazioni fasciste proponendo loro una ipotetica alleanza per «la salvezza dell’Italia», prese di distanza dai comunisti, ma ciò non mise in discussione la sua linea unitaria e classista (Agosti, 1971, p. 271). L’intensificarsi del lavoro clandestino, in parallelo alla guerra di Spagna, non era però passato inosservato; la polizia fascista nell’aprile 1937 arrestò gran parte dei dirigenti del Centro insieme a militanti comunisti e repubblicani. Morandi, sfuggito alla prima retata, invece di cercare la fuga si lasciò arrestare considerandosi il principale responsabile dell’organizzazione. Processato insieme agli altri dal Tribunale speciale, fu condannato a 10 anni di reclusione: scontati prima nel penitenziario di Castelfranco Emilia e poi, dal novembre 1940, a Saluzzo, dove per le sue precarie condizioni nel febbraio 1943 gli fu accordata la libertà condizionale. In carcere, pur tra …

ANTONINO SCUDERI

Antonino Scuderi, contadino trentacinquenne, consigliere comunale socialista, da pochi mesi segretario della cooperativa agricola di Paceco, fu ucciso in un agguato mentre tornava a Dattilo in bicicletta. Era il 16 febbraio del ’22. In quell’epoca, scrive Pietro Grammatico, «la morte di un socialista non valeva il fastidio di eseguire delle indagini per accertare le cause della soppressione violenta». Nessuno di noi ha conosciuto Scuderi; le scarne notizie biografiche sudi lui sfumano nebbiose nel mito. Scuderi è un archetipo; è il calore delle lotte contadine; è l’epopea degli oppressi; la tensione etica verso un mondo migliore, di pace, di giustizia, di libertà, di benessere, verso l’utopia del “sol dell’avvenire”. Scuderi è uno dei tanti agnelli sacrificali che gli agrari, i fascisti e i mafiosi, hanno preteso fra il 1920 e il 1924; soltanto un mese prima, il 16 Gennaio del ’22, Paceco aveva pagato un altro terribile tributo di sangue con l’assassinio di Domenico Spatola e dei figli poco più che ventenni, Mario e Pietro Paolo, del dirigente socialista Giacomo Spatola. Scuderi non aveva particolari velleità; era un contadino con le scarpe grosse e il cervello fino, un uomo che amava la vita, la famiglia, gli amici e il paese. Come molti altri, si è speso per migliorare la propria condizione e quella della sua gente ma non aveva in programma di fare l’eroe; aspirava soltanto, come molti altri, a diventare pacificamente padrone delle proprie braccia, del proprio pezzetto di terra, del proprio lavoro. Scuderi è uno, uno dei tanti, uno dei più sfortunati, uno che emancipa faticosamente se stesso divenendo dirigente politico locale e che, insieme ad altri, dà voce, speranza e forma politica ai sentimenti, alla sofferenza atavica e alle utopie della sua gente. Per questo, il monumento a Scuderi non raffigura il suo volto ma l’ansia corale di riscatto che è emersa dalle viscere di Dattilo, di Paceco, della Sicilia. Nessuno di noi ha conosciuto Scuderi, dicevo, ma l’eco della sua breve vita persiste; è arrivata fino a noi ed andrà oltre perché egli ha espresso i valori che ciascuno di noi vorrebbe esprimere. Consacrare le utopie ed i valori che Scuderi e la sua gente hanno espresso è utile e necessario, come monito per tutti, come termine di paragone per consentire a ciascuno di noi di non disancarare le proprie azioni dal territorio, dai sentimenti, dai valori alti e dalle utopie della propria gente.. Fonte: C.tro siciliano di docum. Giuseppe Impastato (PA) “Erano in vista le elezioni provinciali e i socialisti dopo il suo assassinio pensano di ritirarsi; la vedova di Scuderi, Ninetta Gigante, davanti al corpo del marito, dice: “I socialisti non sono vili, voi dovete scendere in lotta e vincere…”. Riuscirono a vincere le elezioni. I figli di Nino Scuderi sono emigrati. Uno di essi, Carlo, è morto da partigiano nel 1943. Ninetta Gigante è morta nel 1983.” SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

EMILIO LUSSU

Nasce ad Armungia, piccolo paese in provincia di Cagliari, il 4 dicembre 1890. Della vita paesana serberà sempre un ricordo indelebile, considerandola indispensabile per la sua formazione democratica. Laureato in giurisprudenza, è favorevole all’entrata in guerra contro l’Austria. La consapevolezza politica, dopo il confuso agitazionismo interventista che ne ha caratterizzato il periodo studentesco, nasce sui fronti della Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipa come capitano di fanteria della Brigata “Sassari”. E’ l’occasione in cui, non soltanto Lussu, ma una intera generazione di contadini e pastori sardi, hanno la possibilità di aprire gli occhi sulla propria condizione sociale: la guerra diventa perciò scuola rivoluzionaria (vedi Un anno sull’altipiano). La Sardegna post-bellica, gravemente impoverita dal conflitto, è terreno fertile per l’azione politica del Partito Sardo d’Azione, fondato nel 1921 da Lussu, Bellieni ed altri ex combattenti, che si pone a sinistra come portatore delle istanze delle classi proletarie in un quadro di recupero della questione nazionale sarda. Lussu è eletto deputato nelle elezioni del 1921 e del 1923, il periodo di ascesa del movimento fascista. Il sardismo si divide: abilmente gli emissari di Mussolini portano dalla loro una parte del partito, e lo stesso Lussu inizialmente non valuta a pieno il pericolo di un dialogo con i fascisti. Tuttavia la posizione successiva è netta: antifascismo intransigente. Dopo il delitto Matteotti, partecipa alla «secessione aventiniana». Nel ’26 è dichiarato decaduto dal mandato parlamentare e viene perseguitato dai fascisti: nello stesso anno è aggredito in casa da squadristi sardi e per legittima difesa è costretto ad uccidere uno degli assalitori (vedi Marcia su Roma e dintorni). La magistratura cagliaritana, non ancora soggiogata dal regime, lo assolve, ma viene immediatamente confinato a Lipari. E’ l’isola che ospita di lì a poco un altro personaggio chiave del movimento antifascista: Carlo Rosselli. I due, con Fausto Nitti, e grazie all’indispensabile aiuto di Gioacchino Dolci e Paolo Fabbri, riescono ad evadere in motoscafo nel luglio del ’29 (vedi La catena). Raggiunta Parigi si mettono in contatto con i fuorisciti riuniti intorno alla figura di Salvemini: nasce il movimento Giustizia e Libertà. Pur partecipando in modo saltuario alla vita politica a causa delle precarie condizioni di salute, riesce a collaborare con una certa assiduità al settimanale ed ai quaderni del Movimento, facendosi promotore di un suo più marcato e consapevole indirizzo socialista (vedi Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di Giustizia e Libertà; La teoria dell’insurrezione). Dopo l’assassinio di Carlo Rosselli nel ’37 eredita il timone del Movimento, del quale evita la dispersione, specialmente nel difficile periodo dell’offensiva tedesca in Francia. Inizia il periodo della “diplomazia clandestina”, con l’aiuto importantissimo dalla moglie Joyce, durante il quale tenta di proporre agli Alleati il progetto di un colpo di mano che permetta di far crollare il regime fascista a partire dall’insurrezione della Sardegna. Il suo peregrinare fra i centri di comando degli Alleati non porta alcun appoggio concreto al progetto, ma mostra loro, in ogni caso, l’esistenza di un fronte antifascista pronto ad assumere la responsabilità di una partecipazione diretta al conflitto (vedi Diplomazia clandestina). Riesce a rientrare in Italia soltanto nell’agosto del ’43. Nel frattempo ha saputo della nascita del Partito d’Azione, nel quale, pur consapevole delle differenze politiche, ma spinto dalla superiore esigenza unitaria della lotta di liberazione, fa confluire il Movimento GL. Si installa nella Roma occupata dai nazisti e insieme a Ugo La Malfa regge il partito sino alla conclusione della guerra. Mentre il PdA si lacera in una lotta intestina fra filosocialisti (riuniti intorno a Lussu) e filocentristi (guidati da La Malfa), assume l’incarico di ministro nei governi Parri e De Gasperi (vedi Sul Partito d’azione e gli altri). E’ inoltre deputato alla Costituente e senatore di diritto. Ma anche il Partito sardo, che aveva lasciato al momento dell’esilio su posizioni di sinistra, è ora retto da una maggioranza moderata, molto attenta agli interessi dei ceti proprietari e delle libere professioni, per di più attraversata da umori separatisti: la sua battaglia per riportare il partito allo spirito originario viene persa e Lussu va via per formare una gruppo che poi aderirà al PSI (con tessera retrodatata al 1919, l’anno delle grandi lotte contadine e operaie combattute in Sardegna, che lo videro fra i principali protagonisti). Il periodo da parlamentare socialista è ricco di interventi in aula e fuori: dalla questione dell’adesione alla NATO al riconoscimento della Cina comunista, dalla difesa della Repubblica democratica e antifascista alle lotte per lo sviluppo economico e il progresso sociale della Sardegna (vedi Essere a sinistra; Discorsi parlamentari). Il 1964 segna la rottura con il PSI: la decisione di Nenni di entrare nel governo di centrosinistra a guida democristiana provoca la scissione che porta alla fondazione del PSIUP, una formazione che avrà però vita breve: la sconfitta elettorale ne accelera l’adesione al PCI, ma Lussu, coerentemente con la sua storia, rifiuta di confluire. Si spegne a Roma nel 1975. Fonte: Antifascismo SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it